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Regole di ingaggio. “Prima sparate, poi fate domande”.

di Stenio Solinas - 20/11/2007

Regole di

ingaggio” è

una definizione

che solo da

alcuni anni ci

è divenuta

familiare più o

meno da quando il militare di leva ha smesso

di esistere e dietro le cosiddette “missioni di

pace” del nostro esercito si sono cominciati a

vedere segni e costi dell’elemento bellico

che le connaturava. Detto in termini semplici,

si tratta di quell’insieme di norme di comportamento

all’interno delle quali il soldato

di professione resta tale e non si trasforma

in un killer prezzolato, hanno a che fare con

un codice morale e con il codice penale militare

e, se è il caso, civile. Detto in termini

ancora più semplici, stanno a significare che

in teatri bellici dove l’elemento civile è maggioritario

non si spara su cittadini disarmati,

non si fa un uso indiscriminato e sproporzionato

del proprio potenziale di distruzione né

della propria presenza militare.

Fino a quando le guerre sono state più o

meno tradizionali, le “regole di ingaggio”

rientravano tacitamente nell’ambito giuridico-

militare che regolava la vita degli eserciti.

È da quando sono divenute asimmetriche,

ovvero spurie, miste, “sporche”, con una

presenza e/o predominanza dell’elemento

terroristico, resistenziale, sotterraneo, non

immediatamente visibile, che le “regole” si

sono trasformate in una sorta di feticcio e di

bandiera, di segno di buona volontà e di

limite oltre il quale non si può e non si deve

andare, una specie, se si vuole, di talismano

razionale con cui delimitare e limitare il caos

che le circonda e le potrebbe sommergere.

Come sempre accade, ci si accorge della

necessità di regolare qualcosa nel momento

in cui l’irregolarità è divenuta norma.

Regole di ingaggio (Adelphi, 80 pagine,

5,50 euri) è anche il titolo di un reportage di

William Langewiesche, corrispondente

dell’Atlantici Monthly e già autore, sempre

per Adelphi, del bellissimo Terrore dal mare,

racconta come, nel novembre di due anni fa,

nella cittadina di al-Haditha, in risposta a un

attentato subito, una pattuglia di marines

massacrò due famiglie di civili inermi. Lo

fece in violazione di quelle stesse regole, per

incomprensione di quelle stesse regole o in

giustificazione di quelle stesse regole? Di

primo acchito, l’ultimo di questi interrogativi

andrebbe lasciato cadere, ma se si va un

po’ in profondità si vedrà come l’apparente

razionalità e chiarezza delle regole stesse

scompaia a petto dell’irrazionalità e dell’oscurità

che quelle regole circonda.

Cominciamo dai marines. La compagnia di

cui facevano parte si chiama Kilo, è composta

di circa 200 uomini, sta in un avamposto

operativo denominato Base Sparta. Ha un’età

media di 21 anni, per due terzi non è mai

stata in Iraq, ha un solo ufficiale, un tenente,

già stato in zona operazioni. L’attentato

riguarda quattro blindati Humvee, dodici

marines in totale come equipaggio. Salterà

per aria l’ultimo automezzo, un morto e due

feriti il bilancio. L’esplosione avviene poco

dopo l’alba e entro l’ora di pranzo ci sono a

terra 24 iracheni morti. Cinque stavano in

un’automobile avvicinatasi alla squadra

dopo l’attentato, gli altri 19, uomini, donne e

bambini, erano abitanti del quartiere. Alcuni

sono ancora in pigiama quando vengono

ammazzati a fucilate.

Il giorno dopo un primo comunicato diramato

dall’ufficio stampa dei marines a ar-

Ramadi sostiene che i morti iracheni sono

dovuti allo IED, Improvised Explosion

Devices, ovvero l’esplosione improvvisa di

un congegno, come se, nota l’autore, “le

famiglie delle vittime si fossero riunite intorno

all’ordigno poco prima che esplodesse”.

Più che un tentativo di depistaggio, quel

comunicato è una sorta di autoinganno rassicuratore,

un modo per spiegare razionalmente

una carneficina altrimenti irrazionale. Successivamente,

una seconda versione, non

ufficiale, ma – come dire – operativa, viene

presentata dal comandante della Compagnia

Kilo ai propri superiori: in essa i civili sono

rimasti uccisi nel corso di “un attacco complesso

innescato dalla detonazione e proseguito

con un nutrito fuoco di cecchini”. Un

mese dopo, nelle mani di un corrispondente

di Time arriva un video dal quale si ricava

con chiarezza che gli iracheni sono stati

ammazzati all’interno delle loro case, e siccome

la versione ufficiale parla solo dello

scoppio di una mina, qualcosa non quadra in

questo “orrore collaterale”. A una prima

richiesta di chiarimenti, la risposta del Corpo

dei Marines è che, così facendo, il giornalista

fa da cassa di risonanza alle propagande della

guerriglia, e quindi è in qualche modo colpevole

di intelligenza con il nemico. Scrive

Langeweische: “Chiunque fosse, l’estensore

di quel messaggio aveva perso la brocca. È

ovvio che la pubblicità negativa fa il gioco

degli insorti, ma non quanto ciò che la origina

– in questo caso l’uccisione di civili inermi.

L’Iraq è un piccolo Paese, dove i legami

di famiglia sono importantissimi. Per sapere

la verità gli iracheni non avevano certo bisogno

di Time – gli americani, invece, sì”.

Fermiamoci un attimo. La strage di al-H aditha

affonda le sue radici nei primi mesi del

2004. C’erano stati in marzo i fatti di Falluja,

quattro civili americani caduti in un’imboscata,

uccisi, fatti a pezzi, appesi a un ponte e

bruciati fra le urla di giubilo della folla, in

aprile si era verificato l’attacco militare frontale

alla città, conclusosi con il ritiro degli

americani e, infine, in novembre, la distruzione

in pratica dell’intera Falluja, trasformata

in una sorta di Stalingrado dove le “regole

di ingaggio erano state rese così lasche che

consentivano ai marines di fare fuoco su

qualunque individuo potenzialmente pericoloso,

e anche su chiunque si trovasse, per

una ragione qualsiasi, nella linea di tiro.

Questo significava poter sparare non solo su

chi fosse in possesso di armi, ma anche su

chiunque si trovasse all’interno degli edifici

da cui proveniva fuoco ostile, e su qualsiasi

individuo di sesso maschile in grado di

imbracciare un fucile che si avvicinasse o si

allontanasse a un passo solo leggermente

più veloce del consueto”.

In questo clima, e con questa situazione, le

più elementari tattiche dell’esercito non solo

erano inefficaci, ma finivano per fare il gioco

della guerriglia. Per ridurre al minimo le perdite,

si faceva ricorso a un uso sproporzionato

della forza, a una tecnologia “intelligente”

usata anche contro bersagli individuali,

“nebulizzazione dell’oggetto individuato”, a

carri, razzi, cannoni, aerei, che rafforzava il

nemico in proporzione al numero di non

combattenti disonorati, brutalizzati o uccisi.

“Sacrificando la vita di civili innocenti per

risparmiare quella dei soldati – scrive l’autore

l’esercito si faceva un numero imprecisato

di nemici che di lì a poco si sarebbe

ritrovato contro”.

Un circolo vizioso, dunque, che nella vicenda

esemplare di al-Haditha ha la sua più plastica

rappresentazione. Dopo l’attentato, i

marines si trovano di fatto in mezzo a un

quartiere che secondo i manuali della controguerriglia

non può essere considerato in

blocco nemico, e però sulla strada ci sono

sparse le budella di un loro commilitone...

Sanno che in quelle case, pochi giorni prima,

la loro Intelligence ha scoperto una fabbrica

di esplosivi e non riescono a capire perché

chi non ha partecipato alla preparazione dell’attentato

non si sia dato la pena di avvertirli...

Se non sono nemici, perché lasciano che

gli si spari addosso? Il silenzio dopo lo scoppio

ha un che di minaccioso, insomma, non

di rassicurante e i marines sono come una

bomba pronta a esplodere. Il detonatore sarà

quel taxi che si palesa all’improvviso, magari

il tentativo di chi c’è sopra di darsela a gambe

e “la guerra è opaca per definizione, i

civili muoiono e quei cretini potevano fare a

meno di fuggire”. In fondo in Iraq l’uccisione

di un non combattente è diventata un fatto

talmente comune che non fa più notizia.

Un mese fa il Tribunale militare di Pendleton

ha chiuso la fase istruttoria dei fatti di al-

Haditha: quattro proscioglimenti e quattro

rinvii a giudizio. La posizione più compromessa

è quella del sergente Werterich, 25

anni, quel giorno al comando del convoglio

blindato nonché per la prima volta al fronte.

La sua strategia difensiva non si è attenuta al

prevedibile copione “non ricordo”, “Ho solo

obbedito agli ordini”: Werterich ha continuato

a sostenere che lui ha attaccato quelle case

non solo perché le regole di ingaggio lo consentivano,

ma perché in situazioni del genere

è così che un soldato deve agire. Per spiegarsi

meglio, ha detto ai giudici di aver impartito

ai suoi uomini un semplice ordine: “Prima

sparate, poi fate domande”.

Secondo il quotidiano Il foglio, Regole di

ingaggio è un bel libro con un difetto. Trasforma

un fatto singolo nell’emblema di una

disfatta militare e morale più ampia, laddove

invece esso è in qualche modo il prodromo

di una successiva vittoria. Oggi quella provincia

è pacificata e da ormai “due mesi la

popolazione vede la guerra soltanto in televisione”.

Sarà senz’altro così, ma forse è

meglio attendere un altro paio DI MESI...