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Felici di Decrescere

di Roberto Pisano - 20/11/2007

Fonte: rivistabard

Crescere, costi quel che costi: un imperativo da cui pare impossibile

sfuggire. Eppure qualcuno propone di fermarsi. E fare un passo indietro.

 

Tanto logico da sembrare lapalissiano: perseguire la crescita economica è l’unica concreta possibilità

di miglioramento delle condizioni di vita, prestando attenzione a non scivolare nel baratro

del segno meno, quella recessione incombente che il nostro paese ha conosciuto. Un’equivalenza

quella tra crescita e benessere, che non è però scontata per alcuni, come quel gruppo di intellettuali

che negli ultimi anni si è riunito intorno alla fi gura dell’economista e fi losofo francese

Serge Latouche, in un movimento che predica la decrescita. Tale corrente propone un paradigma

culturale alternativo che ribalti la logica a tutt’oggi imperante – quella della crescita senza limiti

– capace di orientare sia le scelte di politica economica che quelle esistenziali in un’altra direzione.

Latouche infatti lancia negli anni novanta l’idea che una crescita infi nita sia incompatibile

con un mondo fi nito, proponendo dunque di invertire la rotta. Certo, invocare la recessione è

comunque uno slogan, una provocazione che nasce per segnare la necessità di rottura netta con

la religione della crescita: si tratterebbe, per meglio dire, di una “a-crescita”, un ateismo della

crescita. L’idea è quella di turbare gli animi, sensibilizzando l’opinione pubblica all’impossibilità

di procedere in maniera imperitura perseguendo i dogmi della crescita. Il campanello d’allarme

che induce a cambiare il segno della situazione è l’imminente “collasso” ambientale: il nostro

sistema non è in grado di sostenere il livello dei consumi, spesso falsamente ridotto delocalizzando

l’impatto materiale nei paesi in via di sviluppo. Un impatto che è destinato a peggiorare,

specie con l’apertura dei mercati ai paesi in transizione economica in procinto di diventare

giganti. A chi sostiene la necessità della crescita per implementare le risorse a disposizione da

ridistribuire in favore dei meno abbienti, Latouche risponde secco che la crescita è piuttosto

fonte di disuguaglianze. In realtà, riconosce il fi losofo, la crescita è fonte di lavoro per i poveri,

che così possono almeno raccogliere le briciole della ricchezza, ma il problema è un altro: se il

nostro pianeta verrà a breve distrutto, quando sarà scomparso, non ci sarà proprio un bel niente

da ridistribuire. «È ragionevole crescere fi no ad un certo punto, non oltre la soddisfazione dei

bisogni. Invece ciò che si vuole è la crescita per la crescita». Un evidente controsenso, in una

società opulenta capace di generare sempre nuovi bisogni da soddisfare. E allora perché non

abbracciare la crescita sostenibile, rilanciata a varie riprese negli ultimi anni? Non è una soluzione

suffi ciente, affermano i sostenitori della decrescita: se il treno della crescita procede a tutta

velocità verso un muro, non si cambia di molto la situazione facendo rallentare il treno (sempre

a schiantarsi andrà). Bisogna piuttosto farlo ripartire in direzione opposta, verso un’altra località.

Il pensiero di Latouche, personaggio sicuramente peculiare e quanto mai poliedrico, è stato

rilanciato in Italia da frange sia della destra radicale che della sinistra antagonista. Accanto ad

essi un corollario di intellettuali, principalmente non economisti, che hanno rielaborato i principi

lanciati da Latouche. Occorre tuttavia chiarire alcuni concetti per addentrarsi nell’analisi di

questo modello: si può cominciare esaminando cosa si intenda per “crescita economica”. Lungi

dall’essere la crescita dei beni che un sistema economico mette a disposizione di una popolazione,

si tratta piuttosto dell’aumento della produzione di merci – valutate tramite il loro valore monetario

– misurata dal prodotto interno lordo. Il concetto di bene e il concetto di merce non sono

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infatti equivalenti: non tutti i beni sono merci, non tutte le merci sono beni. Gli ortaggi coltivati

nel proprio orto per autoconsumo sono beni, forse anche qualitativamente superiori dei loro

omologhi del supermercato. Ma poiché non passano tramite un’intermediazione mercantile, non

sono annoverate quali merci. Sebbene soddisfi no il bisogno di nutrirsi, magari anche in maniera

più sana degli ortaggi del supermercato, non contribuendo ad inquinare per mezzo di pesticidi,

non concorrono alla crescita del PIL, poiché chi coltiva la frutta per sé non ha bisogno di andarla

a comprare. Se l’indicatore più importante misura il valore monetario delle merci, senza prendere

in considerazione i beni, allora la decrescita indica solamente una diminuzione della produzione

di merci, non dei beni (a questo proposito è interessante osservare la concreta necessità

di considerare altri indicatori attendibili per sancire ricchezza e povertà). Anzi, il motore della

decrescita può anche essere una crescita di beni autoprodotti in sostituzione di merci equivalenti.

Diminuire la produzione di merci che non sono beni, ed aumentare quella di beni che non

sono merci, sarebbe – secondo i sostenitori della decrescita – un comportamento virtuoso che

permette di ottenere miglioramenti rilevanti nella qualità della vita. Ed è qui che entra in campo

la “felicità”: abbandonare il proposito di avere maggiori quantità di merci e lavorare di meno per

dedicare più tempo ad investire su beni relazionali.

Le ricadute del perseguimento sfrenato di una crescita incondizionata sono evidentemente

molteplici, in primis ambientali. La decrescita, all’apparenza promotrice di un atteggiamento

austero, di ritorno al passato, e di una rinuncia diffi cilmente condivisibile dai più, vuole piuttosto

mettere in discussione l’ovvietà dell’equazione che associa l’aumento della disponibilità dei

beni all’aumento del benessere. Si tratterebbe dunque di risalire a monte e rivedere alcuni concetti

di base, come ricchezza e povertà. L’indicatore della ricchezza per antonomasia è il denaro:

quanta più capacità di acquistare beni si possiede, tanto più si è ricchi. Tuttavia, è la possibilità

di disporre di una buona fetta di ciò che serve per sopravvivere che determina il tenore di vita

della persone, e tale possibilità è strettamente connessa al sistema economico vigente. In altre

parole, se in un sistema di mercato il reddito monetario è indicatore della quantità di beni che è

possibile ottenere, in un’economia di autoproduzione l’indicatore della ricchezza non è più – o

meglio solo – il reddito monetario, ma la disponibilità dei beni necessari a soddisfare i bisogni

esistenziali. E se bisogna provvedere esclusivamente ad essi, non ha senso produrre un surplus

superfl uo da cui ricavare reddito: si agisce con misura, sobrietà, contro la dismisura della produzione

di merci, in costante ricerca di nuovi macchinari più produttivi, che a loro volta necessitano

maggiori quantità di energia, innescando un vortice senza fi ne. La logica della crescita

vede come progresso la possibilità di acquistare merci in sostituzione dei beni che il singolo non

produce più, sebbene ciò possa anche comportare un peggioramento delle condizioni di vita.

Si tratterebbe, nell’ottica dei sostenitori del pensiero della decrescita, di una contrapposizione

tra due Weltanschauungen apparentemente opposte: la quantità del mercato contro la qualità

della vita. Quest’ultima si può perseguire attraverso un’autoproduzione che, però, nelle intenzioni

dei sostenitori della decrescita, non può e non deve divenire assoluta: ecco dunque che

si ritorna da capo, ripresentandosi la necessità dello scambio. A tal proposito i sostenitori della

decrescita valutano l’ipotesi di rivalutare gli scambi non mercantili, come il dono, quale fondamento

stesso della comunità. Entrano allora in gioco variabili divenute secondarie in un’ottica di

mercato, come il tempo, la disponibilità umana e la solidarietà. Interessante a questo proposito

risulta valutare il concetto di sviluppo: essendo una categoria basata sulle merci, universalmente

una società industriale fondata sulla crescita considera le società in cui il prodotto interno

non cresce come appartenenti ad uno stadio inferiore di civiltà (sottosviluppate), mentre guarda

alle società avviate sulla loro strada, quella della crescita, come società in via di sviluppo. La

tendenza inequivocabile dell’uomo occidentale è stata, storicamente, di esportare il proprio

modello come unica soluzione valida ai problemi dei paesi più poveri: così è stato anche per il linovembre

’07

circolare periferica 93

bero mercato. Che si condivida o meno la visione dei seguaci

della decrescita, una rifl essione critica al riguardo ci è stata

proposta da Stiglitz e altri economisti rilevanti, che hanno

riconosciuto il fallimento di politiche economiche impositive,

che hanno provato ad innestare un libero mercato nei paesi

più poveri, tralasciando però la necessità di creare anche

una situazione di competizione equa e libera concorrenza tra

i soggetti in gioco. Scelte devastanti prese dagli organismi

fi nanziari internazionali, che guardano solo all’ipotesi di

allargare la sfera dei produttori e dei consumatori di merci,

nella speranza di aumentare in maniera generalizzata il PIL.

La realtà, come ben sappiamo, è più dura: nella maggior

parte dei casi i programmi di sviluppo hanno aggravato la

povertà di questi popoli anche quando hanno realizzato aumenti

di reddito, perché fortemente sperequati. Distruggendo

le economie di sussistenza in cambio del più “evoluto”

capitalismo, si sarebbe stroncata infatti la possibilità di soddisfare i bisogni vitali con la produzione

di beni senza, d’altro canto, consentire l’ingresso pienamente concorrenziale nel mercato

internazionale, laddove le potenze sviluppate la fanno da padroni per supremazia tecnologica e

fi nanziaria. (Un salto quello dalla produzione di beni a quella di merci che è diffi cile da ripercorrere

a ritroso, come sostiene Pallante: «Le sirene dello sviluppo cantano alle orecchie dei popoli

poveri nell’interesse dei popoli ricchi, anche quando assumono i toni suadenti delle organizzazioni

umanitarie»). Insomma, i paesi ricchi potrebbero essere interessati ad aiutare quelli poveri,

perché si uniformino ai valori della crescita, solo al fi ne di garantirsi ulteriore bacino di smaltimento

delle merci, la cui produzione non si può arrestare e la cui allocazione diventa ogni giorno

più diffi cile, data la relativa saturazione dei mercati.

Sempre secondo tale prospettiva, poi, la continua valorizzazione del nuovo e la sua automatica

identifi cazione col concetto di miglioramento, hanno reso la disponibilità all’innovazione

una pubblica virtù, mentre la resistenza opposta a certi cambiamenti, sebbene motivata, viene

liquidata come un vizio da sradicare, una manifestazione di chiusura mentale da ridicolizzare, un

atteggiamento antiquato. «Il nuovo è sempre migliore, il vecchio è brutto, arretrato, da cestinare:

deve essere sostituito con la novità, che diventerà a sua volta vecchia in breve tempo e così

via», sostengono i seguaci di Latouche. L’innovazione, nella società attuale, non verrebbe cioè

giudicata per il reale apporto che offre alla vita: non vi è infatti un atteggiamento di selezione

tra l’innovazione feconda e quella che porta con sé effetti negativi. Ad esempio l’usa e getta è

stato considerato da molti una grande invenzione, sebbene abbia portato moltissime persone a

consumare rapidamente prodotti più scadenti, con l’effetto non secondario di inquinare maggiormente

l’ambiente.

Identifi care il benessere con ciò che si possiede, meglio se tanto e nuovo, porterebbe però

ad un vicolo cieco: il benessere ha in realtà componenti che non si possono comprare, come la

felicità.

La decrescita, per defi nizione, sembrerebbe signifi care privazione: nelle intenzioni dei suoi

sostenitori si tratterebbe invece soltanto di spostare l’attenzione verso qualcosa che comporti

un miglioramento della qualità della vita. Ad esempio, lo sviluppo della tecnica dovrebbe essere

diversamente orientato, verso l’eco-compatibilità, considerando il problema dell’esaurimento

delle risorse e dell’impatto ambientale. In tale ottica, la cultura dell’innovazione non sarebbe

incompatibile con la decrescita, ma al contrario vitale per la sua realizzazione: per una decrescita

felice sarebbe necessaria più tecnologia, non meno di quella che è richiesta per crescere. Le

Alessandro Ansuini, 2007

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innovazioni in tal senso devono essere fi nalizzate alla riduzione del consumo di risorse e di energia:

non è vero che la tecnica non serve, deve solo essere applicata diversamente. La predisposizione

all’autoproduzione comporta necessariamente la scelta di un ambiente adatto, dove poter

attuare il paradigma. La città, in questo senso, viene identifi cata dai sostenitori della decrescita

come il luogo in cui tutte le attività lavorative sono esclusivamente fi nalizzate a ricavare denaro:

il luogo della mercifi cazione, in cui il soggetto è indotto a comprare con l’obiettivo di alimentare

la crescita, per continuare a produrre. I rapporti sociali instaurati nell’universo-città sarebbero

esclusivamente fondati sull’interesse e sulla reciproca diffi denza, secondo il paradigma del

rapporto tra chi vende e chi compra. Non solo il cibo e i generi di prima necessità, ma anche

lo svago, tendenzialmente massifi cato (l’industria riempitiva del divertimento di cui parlava

Horkheimer). La città sarebbe insomma inadatta ad ospitare il modello dell’autoproduzone e

di scambi non mercantili, che per defi nizione si attuano in una dimensione comunitaria, come

quella della campagna: è necessario dunque favorire un processo di de-urbanizzazione. Allontanarsi

dalla città, epicentro del buy something, verso una scelta di sobrietà intesa non come

rinuncia, ma come scelta consapevole: «la decrescita è l’elogio dell’ozio, della lentezza e della

durata; decrescere signifi ca combattere la frenesia, rispettare il passato e non lasciarsi sedurre

dall’effi mero, distinguere qualità e quantità».

L’esigenza di fondo che ha mosso alla affermazione della necessità di un’inversione di rotta

è di certo reale e condivisibile: l’insostenibilità del modello nella sua versione “pura” pone la

necessità di un cambiamento, prestando ascolto a motivazioni ambientali o etiche imprescindibili.

Vero è che l’equazione crescita uguale benessere non è più effettiva, né scontata, e che sia

d’obbligo riconoscere i limiti del mercato, dall’impatto ambientale all’impoverimento, dall’individualismo

alla mancata considerazione dell’equità. Tuttavia la demonizzazione del mercato non

costituisce ugualmente una strada alternativa: sebbene talvolta affl itto da lacune e governato

da logiche deformanti, esso porta comunque con sé delle regole, e in quanto tale si confi gura

come una istituzione democratica. Che la competizione non sia sempre reale ed equa è noto, ma

un sistema di regolamentazione non è comunque da respingere a prescindere: in molti casi, lo

scambio di merci nasce da un interesse individuale ma fi nisce per soddisfare un duplice bisogno,

non costituendo pertanto una “costrizione” ingiusta. Se non è quello straordinario mezzo

che porta al benessere collettivo come lo avevano teorizzato i primi liberisti, non si può neanche

utopisticamente pensare al dono come estendibile all’ottica collettiva: la reciprocità è senz’altro

un valore elogiabile, ma diffi cilmente adattabile alla logica della vita concreta. Senza dimenticare

che il commercio ha portato i popoli a confrontarsi, più spesso diventando fonte di emancipazione

e superamento dei limiti della conoscenza, nonché offrendo una possibilità di aumento del

tenore di vita. Il protezionismo, l’“autismo” inteso come autarchia, non è un paradiso : sarebbe

forse più opportuno prendere coscienza dei limiti del mercato e dei danni che un suo incondizionato

dominio provoca, senza immaginarne l’abolizione. Il concetto di crescita in questi ultimi

anni non è rimasto statico: numerose visioni alternative a quelle mainstream si sono affermate

nella teoria economica. Se l’importanza che gli è conferita è ancora tanta, iniziano a farsi largo

anche altre possibilità, come quella di una crescita realmente sostenibile, improntata ad un concreto

risparmio energetico, raggiunto magari con politiche fattuali per incentivare il progresso

positivo, abbandonando le acclamazioni populiste. È necessaria un’inversione di rotta tentando

vie meno radicali e più realistiche: non si tratta di annacquare gli intenti, ma di renderli più

facilmente realizzabili e condivisibili. La via da prendere è quella della consapevolezza e della

convenienza per tutti: un pannello solare è più realisticamente attuabile del ritorno in massa alla

campagna, e il singolo realizza ben presto la convenienza di un’energia più economica e pulita.

L’uomo può liberarsi dal predominio di ciò che Latouche ha defi nito la “megamacchina”, ovvero

la weberiana gabbia d’acciaio, ma per fare i conti con una realtà così saldamente costituita deve

anche saper giocare d’astuzia.