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La gestione delle aree protette

di Mario Spinetti - 20/11/2007

 


“Per un controllo ed una supervisione morale a favore della natura sulle attività di gestione degli organismi che amministrano le aree protette; affinché i primari interessi della natura non debbano mai essere messi da parte o sminuiti per fare quelli dell’uomo” (punto 5 del Documento Programmatico dell’Associazione Italiana per la Wilderness).
Molti cittadini particolarmente sensibili alle sorti della natura traggono un respiro di sollievo quando apprendono che è stata istituita una nuova area protetta, in quanto pensano che nel futuro quell’area non correrà più alcun rischio. Questa convinzione è spesso smentita dai fatti, giacché accade purtroppo che aree divenute protette continuino a subire ferite e danni ingenti. L’origine di questi danni non è sempre dovuta, come potrebbe pensarsi, a situazioni oggettive di varia natura, ma è a volte legata al modo stesso col quale le aree ancora selvagge sono gestite. Per questi motivi l’operato dei “manager” o degli enti governativi preposti alla gestione delle aree protette deve essere controllato alla stregua di qualsiasi attività che possa in qualche modo turbare l’ecosistema del territorio. I fatti che giustificano tali pessimistiche considerazioni si riferiscono a parchi nazionali gestiti più in funzione del flusso turistico che in riferimento alle vere esigenze della protezione della natura; riserve ridotte a supporti di sperimentazioni biologiche; gravi alterazioni degli habitat di aree selvagge; ingiustificate costruzioni o ristrutturazioni di rifugi o di strutture analoghe; aree di picnic realizzate in zone di delicato valore naturalistico; apertura o ristrutturazione di strade di montagna motivate dal pretesto di realizzare in tal modo una migliore gestione o una più attiva sorveglianza; introduzione o reintroduzione forzata di animali non preceduta da preliminari approfondimenti tendenti ad appurare se la specie reintrodotta sia stata precedentemente presente in quell’habitat e per quali cause ne è poi scomparsa; taglio di boschi passati per interventi di gestione naturalistica, e tagli di gestione motivati da erronee ed empiriche consuetudini; insufficiente attività di sorveglianza da parte del personale preposto, ecc. Per non parlare poi dello spinoso problema delle strade montane e boschive che se ricadono nelle aree protette nella migliore delle ipotesi vengono chiuse da sbarre (con numerosi permessi di accesso), ma mai smantellate del tutto (leggasi ripristino ambientale). Infatti una pratica del genere non rientra nella logica dei “gestori” (nè tanto meno nella gente che ha una mentalità solo utilitaristica), e viene accanitamente avversata. C’è sempre un motivo che ne giustifica la continuazione dell’esistenza. Chissà perché una strada montana, all’interno di un territorio protetto, non debba essere smantellata? Se si chiedono finanziamenti economici per ristrutturare o aggiungere qualcosa di umano in più nel territorio, in genere vengono sempre trovati, se invece, si volesse dar corso ad un’opera reale di ripristino ambientale, come potrebbe essere l’eliminazione di una strada, fondi e interessi scendono nell’oblio. Non accade mai che si dia vantaggio univoco al mondo naturale. Che dire allora di questi “gestori” della natura? Occorrerebbe anzitutto cambiare la loro “forma mentis” che non sa sottrarsi alla politica “del fare”, dell’introdurre, dell’avviare, del ristrutturare, del trasformare, tutto con una sorta di febbrile attivismo che non riesce a concepire che il “non fare”, e lasciare in molti casi che la natura si riequilibri anche da sé, come è avvenuto durante qualche milione di anni, è il miglior modo per salvare le aree selvagge di questo pianeta. Con ciò non si vuole asserire che tutti gli interventi siano errati, ma si intende comunque dire che la natura dell’intervento e la sua intensità debbono ispirarsi ad un reale principio di conservazione, rispettoso del ritmo e delle ragioni della natura (il ripristino ambientale in molti casi sarebbe estremamente utile per ridare un po’ di selvatichezza al mondo gravemente antropizzato). “Molti degli obiettivi della conservazione dell’habitat di altre specie, compatibili con l’uguaglianza biocentrica sono sintetizzati nell’espressione ‘Lascia vivere il fiume’, ove il ‘fiume’ è una più ampia definizione degli esseri viventi, e comprende non soltanto gli esseri umani o gli alberi che crescono lungo il fiume ma l’intero ecosistema dell’energia vivente. Un’altra possibilità in armonia con lo slogan di Naess ‘semplicità di mezzi, ricchezza di fini’ è ‘non fare’” (Devall & Sessions, 1989).
Il punto 5 del Documento Programmatico dell’Associazione Italiana per la Wilderness recita: "...... La gestione dei Parchi e delle aree protette in genere, è una cosa complessa. E’ noto come i motivi che portano e continuano a portare alla loro costituzione, non sono sempre stati, ed anzi, salvo in passato, si può dire quasi mai, quelli della protezione di valori naturali, ma piuttosto la cosiddetta “valorizzazione” di beni ambientali. Già questo termine ci dice quali e quante implicazioni di varia natura agiscono conseguentemente a danno proprio del valore ambientale che le aree dovrebbero tutelare, ed anche delle esigenze interiori dei visitatori più sensibili.
Le pressioni economiche e di sviluppo tecnologico ed urbano sono tali e tante che spesso le scelte degli amministratori, per comodità o per demagogia, tendono a mettere gli interessi della natura in secondo piano, proprio perché la natura non ha la possibilità di gridare le proprie esigenze, di farle prevalere, nè di protestare quando le si fa torto o la si lede nei suoi diritti.
La funzione di controlli morali su queste gestioni dovrebbe essere di tutte le associazioni protezionistiche, ma sappiamo bene come spesso questo controllo venga 'indirizzato' o addirittura evaso a seconda di chi gestisce le aree protette. Troppo spesso si è guardato e si guarda non al bene della natura ma al bene di chi la natura ha il compito di gestire, e appunto per questo motivo non si è sempre fatto l’interesse della natura......".
Secondo dettami logici la creazione di un’area protetta, parco o riserva che sia, dovrebbe essere motivata, come abbiamo appena visto, dalla conservazione reale di quel luogo e di tutta la vita che in esso prospera. Dopo aver rigidamente operato in tal senso, eventuali risvolti economici e sociali, che positivamente ricadono sulle comunità locali, interne o limitrofe all’area, possono essere accettati anche da una severa logica di tutela. Ma questo tipo di vantaggio deve essere un eventuale riflesso che la reale politica della conservazione porta con sé. Nella realtà invece, in tanti casi, si opera esattamente all’opposto: istituire un’area protetta significa in primo luogo “sviluppo”, “benessere”, “prosperità”, “turismo”, “produttività”, strutture e attività “ecocompatibili”, “immagine” e quanto altro. Poi, eventualmente, se ne rimangono le possibilità, si parlerà di tutela del territorio. Ma poiché questa tutela arriva alla fine, rimane ben poca cosa e, per la natura, i frutti da raccogliere quasi non ce ne sono. Ovviamente i “gestori” dell’area si sono premuniti di apporre, come ultima beffa, il cartello “Qui la natura è protetta” - Rispettiamola!
Ricordiamoci poi che soventemente le aree protette acquisicono cospicui finanziamenti per attuare serie di studi e di eventuali interventi di tutela sui loro territori (anche se, ad onor del vero, una buona parte dei cosiddetti studi sono solo dei paraventi per scoprire alla fine “l’acqua calda” perché i risultati finali utili ad una vera conservazione erano sempre stati già noti da tempo ma mai attuati, forse perché scomodi, o perché “necessitavano” di ulteriori studi per attingere a nuovi opulenti finanziamenti; evidentemente le “abbeverate” non erano mai sufficienti), ma, malgrado la “pioggia” di miliardi, quasi mai, per fare un solo esempio, si è attuato un semplice quando efficace intervento: comprare, nel vero senso del termine, almeno ogni qual volta ciò sia possibile, territori da sottrarre ai vari danneggiamenti e porli sotto un rigido vincolo di conservazione che si ispiri ai dettami della wilderness dei luoghi (un esempio palese può essere quello per salvaguardare specie faunistiche a grave rischio di sopravvivenza o habiat peculiari che stanno per collassare). 
Dopo aver enumerato gli errori che molte volte emergono dalla gestione delle aree protette occorre porsi ora un interrogativo: a chi attribuire la paternità di tali errori? Certamente alla esasperata burocrazia, all’impreparazione, al disinteresse, all’arrivismo carrieristico, alla malintesa concezione del prestigio, alla spasmodica applicazione della “scienza” al mondo naturale che spesso non arreca a quest’ultimo affatto beneficio perché dissipa energie, finanziamenti e tempo, o finanche all’estetismo ambientale ma, più che altro, all'accettazione pragmatistica delle ferree regole della politica economica e alla visione strettamente antropocentrica di tutto il mondo naturale. La gestione “umana” delle aree protette è infatti una conferma di quella visione “superficiale” di tutto l’atteggiamento mentale dell’uomo occidentale.