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La guerra in Iraq è diventata un disastro che abbiamo scelto di dimenticare

di Madeleine Bunting - 21/11/2007

Con i media assoggettati, i governi non sono stati chiamati a rendere conto della più grossa calamità politica del nostro tempo.


"Tu pensi di essere innocente, ma non lo sei”, ha detto l’attentatrice suicida britannica e musulmana nel dramma televisivo Britz la settimana scorsa su Channel 4. Nella sua coinvolgente interpretazione, l’attrice Manjinder Virk ha recitato la sua dichiarazione suicida davanti alla telecamera, parlando di migliaia di donne e bambini che muoiono ogni giorno in Iraq e in Afghanistan, e ciò nonostante i governi responsabili di questo sono stati confermati al potere.

La sua affermazione rimane in testa perché va dritta alla questione di come noi scegliamo di dimenticare, scegliamo di non capire; e come da scelte di questo tipo diventa possible immaginare la nostra innocenza.

Questo non significa che le sue scelte morali fossero difendibili – lei si è fatta saltare in aria, assieme al suo amato fratello, in mezzo a una folla di correligionari musulmani e moltissime donne – ma la sfida rimane, anche se viene da un personaggio moralmente imperfetto come questo. Possiamo sostenere la nostra innocenza rispetto alla caotica violenza dell’Iraq, ora normalizzata e ridotta a sfondo delle nostre vite? Le notizie di attentati suicidi da molto tempo sono diventate rumori di routine della radio. Siamo insensibili alle atrocità; fatta eccezione per alcuni determinati, l'attivismo iniziale contro la guerra è stato distratto da altre responsabilità. La vita continua, anche se a Baghdad spesso non è così.

E ad accompagnare l’indifferenza c'è lo strisciante diniego delle responsabilità. Ministri del governo ora parlano dell’Iraq come di una tragedia, come se fosse un disastro naturale e loro non avessero avuto alcuna parte nella sua creazione. C’è una repulsione pubblica nei confronti delle violente lotte confessionali, meglio descritte come “una peste su tutte le loro case” [espressione tratta da "Romeo e Giulietta" NdT], mentre persino l’orrore lascia il posto alla stanchezza.

L’ironia è che, in questa grande era delle comunicazioni, e di saturazione dei media, questa è forse la guerra più importante a diventare quasi impossibile da raccontare. A meno che il giornalista non sia "embedded" con le forze di occupazione, ci vuole o un coraggio terrificante o una straordinaria ingegnosità per portare sui nostri schermi immagini di coloro che sono presi nel terribile vortice di questo Paese imploso. Senza le storie umane che fanno vedere in modo così vivido le persone e le loro sofferenze, ci sono poche possibilità che l’opinione pubblica si coinvolga nuovamente nella più grande calamità politica del nostro tempo.

La guerra in Iraq rappresenta la fine dei media come attori rilevanti in guerra.

In Bosnia, i giornalisti commossero la coscienza dell’Europa occidentale con i loro vividi resoconti. Queste erano persone che imparammo a capire, riconoscere, e con cui imparammo a immedesimarci, e l’opinione pubblica obbligò i governi recalcitranti a prendere nota e agire.

Fu una lezione appresa dai kosovari: si assicurarono che i media vedessero ogni atrocità, e la copertura venne utilizzata per garantirsi un risultato paragonabile a quello della Bosnia – i governi occidentali vennero obbligati ad agire.

Ma in Iraq il numero dei giornalisti uccisi (adesso almeno 138) significa che questa guerra è quasi privata: le immagini e le persone che potrebbero renderne reale l’orrore non raggiungono i nostri schermi. Non è più una guerra accessibile a un controllo pubblico minuzioso o alla partecipazione democratica.


Potrebbe essere stato il sospetto degli iracheni nei confronti dei media occidentali ad avere garantito questo risultato, ma è un risultato che fa comodo agli interessi statunitensi. L’indifferenza, la stanchezza, e la difficoltà di raccontare lascia le forze Usa con una libertà di azione maggiore di quella che non abbiano mai avuto in qualunque campo operativo da decenni.

Mentre gli americani e i britannici continuano a cercare di convincere il loro pubblico che la guerra è finita – una abitudine iniziata da George Bush stesso quando annunciò la sua vittoria di Pirro su una portaerei nel Golfo nel maggio del 2003 – possono continuare a combatterla. E ci sono molte persone assai desiderose di sperare che i loro leader politici abbiano ragione, e che l’intero problema di un Paese di cui non hanno mai saputo molto, scompaia.

Tutto questo rende tanto più degni di nota i risultati ottenuti dai pochi che rompono questo blackout informativo: ad esempio, Ghaith Abdul-Ahad su questo giornale, e il film che ha vinto l'Emmy [un premio NdR] del Guardian, fatto da un medico iracheno sul suo ospedale a Baghdad. Questa settimana viene pubblicato un libro di un altro autore: Dahr Jamail, faceva la guida di montagna in Alaska, e nel 2003 ha iniziato a interessarsi della politica estera Usa e ha finito per raccogliere il suo zaino e scambiare le montagne americane con Baghdad e Falluja, guidato da un fiero imperativo morale che “come cittadino statunitense, lui era complice della devastazione dell’Iraq”. Dopo più di tre anni di attività giornalistica, soffre di un disordine da stress post-traumatico, ma non ha perso la sua convinzione che “se la gente degli Stati Uniti conoscesse la storia reale di ciò che il suo governo ha fatto in Iraq, l’occupazione sarebbe già finita”.

Quello che fa venire i brividi nei resoconti di Jamail è l'atteggiamento distruttivo di routine delle forze Usa; il modo in cui demoliscono le case vicine dopo l’esplosione di una bomba collocata sul ciglio della strada, in cui lasciano munizioni inesplose nei campi dei contadini che non danno informazioni, in cui distruggono i frutteti con i bulldozer. Mezzi di sostentamento distrutti, famiglie costrette ad andarsene ogni giorno, incubazione di odio. Uno degli episodi peggiori è accaduto allorché un amico di Jamail si è trovato casualmente all’ora della preghiera in una moschea quando i fedeli sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, con bambini intrappolati in mezzo al caos: un luogo sacro profanato in un'operazione militare Usa. Noi potremo non sapere nulla di questi dettagli quotidiani della continuazione di questa guerra, ma queste sono le storie che riempiono i media arabi. In tutto il mondo musulmano sono assunte a prove inconfutabili dell’umiliazione e della persecuzione della fede islamica. Noi possiamo solo far finta di non capire.

Nel frattempo, è in atto la più grande crisi dovuta a uno spostamento forzato di esseri umani in Medio Oriente da 60 anni, la crisi di rifugiati che aumenta in modo più veloce al mondo. Un iracheno su sei è adesso stato costretto a spostarsi, 60.000 al mese stanno lasciando il Paese, riversandosi in Siria (1 milione e 400.000) e in Giordania (750.000). In una amplificazione sovrannaturale delle nostre ansietà nei confronti dell'immigrazione e della pressione che essa produce sui servizi pubblici, le capacità di questi due Paesi mediorientali di educare migliaia di bambini traumatizzati o di fornire assistenza sanitaria di base sono state inondate. Il budget delle Nazioni Unite per i rifugiati in Siria per il 2007 è di 700.000 dollari – meno di un dollaro a persona. Ma questa crisi non offre immagini telegeniche – le persone sono ammassate negli appartamenti di amici invece che in tende in una ventosa pianura africana. Quindi riceve ancora meno attenzione. 

Di questi milioni [di rifugiati], la Gran Bretagna ha confermato la settimana scorsa che ne prenderà solo 500, fra quelli che hanno lavorato per le forze britanniche. Rinvia l'offerta di una qualsiasi ulteriore assistenza per la diffusione dei rifugiati, nonostante le richieste delle Nazioni Unite. Dei 123 rifugiati dalla Giordania che l’Onu aveva assegnato alla Gran Bretagna secondo i rigidi criteri che avessero parenti in questo Paese in grado di provvedere a loro, ne abbiamo accettati finora solo tre.

La Gran Bretagna si lava le mani delle conseguenze della sua invasione, fatta insieme agli Stati Uniti. Qui c’è un’orribile contraddizione: quelli che sono al potere non accettano alcuna responsabilità. Quelli che un senso di responsabilità potrebbero averlo si sentono completamente impotenti.

Potrebbe volerci una generazione o più perché la gente afferri il significato e la scala degli eventi storici. Fatti che sono infinitamente più bizzarri e terribili della fantasia – come documenta il libro di Naomi Klein - The Shock Doctrine [La dottrina dello shock] – richiedono molto tempo per essere assorbiti completamente. La guerra in Iraq ha riguardato il fallimento abietto della democrazia: i governi non sono stati chiamati a render conto di una guerra che ha sprecato vite, miliardi di soldi pubblici, e la stabilità di un’intera regione con una criminalità sconsiderata.

The Guardian

(Traduzione di Piergiorgio Rosetti e Kristin Anderson Rosetti per Osservatorio Iraq)