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Perché decongelare i "conflitti congelati" nell'Eurasia postsovietica?

di Sergej Markedonov - 22/11/2007




Dal 4 al 5 Novembre a Berlino è stato organizzato un forum speciale sul tema dei cosiddetti “conflitti congelati”.
Lo spazio geografico dei conflitti analizzati è stato limitato alla sola area postsovietica, escludendo quindi Kosovo e Cipro Settentrionale dal campo di indagine; si tratta di una scelta che potrebbe indurre a pensare che tali zone non siano degne del massimo interesse e pertanto non meritevoli di conferenze o dibattiti in Germania o all’estero; il forum di Berlino in realtà non è stato solo un nuovo evento in programma; si è trattato di qualcosa di differente.

Il forum è stato organizzato dal PAEC Monitoring Committee e dall’Istituto Tedesco per lo Studio della Sicurezza e Problemi Internazionali (un influente think tank a cui si rivolge lo stesso governo federale tedesco).

A prendere parte alle due giornate di discussione sono stati Peter Semnebi, inviato speciale dell’Unione Europea per il Caucaso meridionale, Thomas Markert, Segretario aggiunto della Commissione di Venezia del Consiglio Europeo, persone di diversi comitati e strutture del PAEC e del Consiglio Europeo, nonché influenti esperti europei (Bruno Koppiters, Uwe Halbach, Swante Cornell e Stefan Wolf).

Secondo Edward Lintner, responsabile del Comitato Internazionale del PAEC, il problema dei “conflitti congelati” è costantemente all’attenzione del Consiglio Europeo. Inoltre, secondo il curatore del rapporto principale della riunione Uwe Halbach (Istituto Tedesco per lo Studio della Sicurezza e Problemi Internazionali), ad oggi uno stato di tregua vice nelle zone di conflitto, di fatto però molti problemi rimangono irrisolti.

Per tale ragione Halbach ha detto: “dobbiamo considerare tutti questi conflitti come congelati.

L’inclusione degli Stati del Caucaso Meridionale nella “Politica di Avvicinamento all’Europa” (European Neighbourhood Policy) potrebbe essere un impulso per la risoluzione di questi conflitti.

L’Unione Europea è interessata a tutto ciò ed è alla ricerca di una loro rapida soluzione”.
In generale si tratta di dichiarazioni che aggiungono poco al fatto che l’Europa presti grande attenzione ai focolai di guerra nello spazio postsovietico.

Nel 1995 il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato un progetto di “posizione comune” sul Caucaso Meridionale, rilevando il bisogno di dare assistenza a tutto campo all’ex repubblica della Transcaucasia finalizzata allo sviluppo di istituzioni democratiche.

Nel 2004 Armenia, Georgia ed Azerbaijan sono stati inseriti nel progetto riguardante la “Politica di Avvicinamento all’Europa”.
Quando il 14 Settembre 2006 gli Stati del Caucaso Meridionale hanno adottato i Piani d’Azione per la “Politica di Avvicinamento all’Europa” si è compiuto un nuovo passo nella “europeizzazione” di questa regione.

Le politiche dell’UE nel Caucaso stanno raggiungendo un più alto grado di coordinamento ed “integrazione”.
A partire da gennaio 2007 la regione del Mar Nero è diventata una delle frontiere dell’Europa unita; come ha sottolineato lo studioso turco Mustafa Aidyn, incorporando la Romania e la Bulgaria l’Unione Europea, al contrario degli Stati Uniti, è diventata un attore sia nella regione del Mar Nero che nel Caucaso meridionale.

Oggi è possibile parlare di due progetti racchiusi in uno solo, la “Politica di Avvicinamento all’Europa” e la “Zona Estesa del Mar Nero”.

Entrambi i progetti sono fondati sull’assunto che il Caucaso meridionale “dovrebbe essere condotto più vicino all’Europa portando l’esperienza europea nel mantenimento delle relazioni di buon vicinato sul terreno caucasico”, un concetto sviluppato a partire dal 1945 e giunto al suo massimo livello durante la costituzione dell’Europa unita.

L’importanza dell’incontro di Berlino la rende adatta fornisce uno spaccato fedele “ai raggi X” circa le idee che l’Europa condivide sul tema dei “conflitti congelati”. Proviamo a spiegare queste idee attraverso un certo numero di tesi.
Le seguenti generalizzazioni dell’autore derivano dalle stesse considerazioni fatte dai partecipanti al forum di Berlino, esperti e politici europei.
Prima tesi. Riguarda la definizione dei “conflitti congelati”. Dal nostro punto di vista l’uso di questo termine ad oggi non è sufficientemente corretto. Il “decongelamento” attivo dei conflitti etnopolitici sta avvenendo nello spazio postsovietico, inteso come un cambiamento di struttura nella risoluzione del conflitto (o tentativo di modificarne la struttura attuale) ed uno sforzo mirato a distruggere (o almeno di violare) la base legale creata per prevenire la ripresa dei conflitti armati. Nel senso più stretto della parola attualmente non sarebbe corretto parlare di “conflitti congelati” nei focolai dell’ex URSS.

Tentativi di modificare lo status quo nei focolai di guerra sono stati intrapresi più volte sia alla fine del ‘900 che all’inizio del 2000.

Nel 1997-1998 simili tentativi si sono verificati in Abkhazia, tuttavia fino al 2004 questi non hanno rappresentato una strategia sistematica.
La situazione è cambiata nel 2004 quando l’Occidente ha posto l’accento sul riconoscimento internazionale dell’indipendenza del Kosovo, un atto in grado di generare un precedente per il riconoscimento de facto di numerosi Stati nello spazio postsovietico.

Malgrado il riconoscimento del Kosovo albanese sia considerato da Stati Uniti e Unione Europea un “caso particolare”, in Abkhazia, Ossezia del Sud, Transnistria e Nagorno Karabagh la “causa Kosovo” è vista come un precedente con valore legale.

Questo significa che le élites degli Stati de jure – Georgia, Armenia, Moldova ed Azerbaijan si sono posti l’obiettivo di risolvere il problema della “integrità” territoriale prima della dichiarazione di indipendenza del Kosovo, a prescindere dalla forma finale che questa potrebbe prendere.

L’Ossezia Meridionale è stata la prima vittima della “causa Kosovo” (molti funzionari a Tbilisi la considerano un “anello debole”). Nel 2004 Mikhail Saakashvili ha cominciato a violare apertamente gli accordi di Dagomys che nel 1992 avevano stabilito le regole ed il piano di risoluzione del conflitto. “Se sotto gli accordi di Dagomys la bandiera georgiana non può essere sventolata nel distretto di Tskhinvali (definizione ufficiale georgiana dell’Ossezia meridionale, nda), sono pronto a rinunciare a questi accordi”. Diciotto mesi orsono, il 20 luglio 2004 il Presidente della Georgia per la prima volta ha dichiarato pubblicamente di non escludere la possibilità di denunciare quegli accordi che oggi sono la sola base legale (!) per la risoluzione del conflitto osseto-georgiano.
Successivamente è stato il turno della Transnistria. Prima la Moldova e poi, nella primavera del 2006, l’Ucraina hanno deciso di usare la leva economica per far cedere i “malefici separatisti della Transnistria”.
Con l’appoggio a Kishinev, Kiev ha mutato unilateralmente il proprio ruolo nella risoluzione del conflitto moldavo-transnistriano. L’Ucraina che prima era stata garante del processo di pace si è trasformata in un alleato per una delle parti in causa.
Poi è tornata nuovamente alla ribalta la Georgia. Le operazioni militari che Mikhail Saakashvili ha condotto nella gola di Kodor tra fine luglio ed inizio agosto 2006 hanno un significato politico (lo sforzo per mutare lo status quo nella zona di conflitto tra Abkhazia e Georgia) e legale (o illegale, per essere precisi): una violazione unilaterale da parte georgiana degli accordi di Mosca del 1994 che avevano posto le basi per l’operazione di peacekeeping. Trasformare i territori superiori della Svanezia abkhaza in una specie di roccaforte politica e militare per la “riunione della Georgia” ha anche un importantissimo significato metodologico nel complesso dei conflitti postsovietici. In questo caso possiamo parlare della comprensione del fenomeno dei “conflitti congelati” e del costo politico del “decongelamento” di una contrapposizione interetnica temporaneamente azzerata.

Per tre anni, a partire dal 2004, nessuno a parte la dirigenza georgiana si è preoccupato di “decongelare” i conflitti osseto-georgiano e abkhazo-georgiano. Il governo di Tbilisi non nasconde il proprio obiettivo di violare lo status quo che oggi vige nelle zone di conflitto congelate nei primi anni ’90.

I dirigenti azeri pure dimostrano il loro desiderio di “decongelare” il conflitto del Nagorno Karabagh. In ogni caso la “linea del fronte” (chiamiamola pure “linea di cessate-il-fuoco”) è parte della fase esecutiva di questi programmi, almeno per il momento.
Seconda tesi. Il metodo di valutazione per definire un “conflitto congelato”. Poniamoci una domanda. Avremmo ragione a parlare del maltempo, di una piacevole brezza oppure valuteremmo gli aspetti buoni o non buoni di una pianta in fioritura così come l’esistenza di predatori e di erbivori? Certamente no. Da ciò devo dedurre che un “conflitto congelato” in se non è né positivo né negativo. Dipende dall’espressione della realtà politica. Data questa realtà, in primo luogo non esiste soluzione di compromesso reciprocamente accettabile in grado di soddisfare entrambe le parti in conflitto. Inoltre, l’equilibrio delle forze non consente a nessuna delle parti una vittoria definitiva (o in una prospettiva storica).

Dopo il “congelamento” di tutti i conflitti armati nell’ex URSS, analisti politici e giornalisti (specialmente in Europa) hanno iniziato a diffondere la tesi che il mantenimento dello status quo nelle zone dei conflitti armati dal punto di vista politico non avrebbe portato da nessuna parte. In sé, il “congelamento” dei conflitti è stato visto come un fattore di prevenzione della risoluzione del conflitto piuttosto che un termine della fase armata finalizzato alla sua risoluzione. Esperti delle ex repubbliche sovietiche hanno subito appoggiato tale tesi.

Poi si è cominciato ad ascoltare dichiarazioni secondo le quali i “conflitti congelati” sarebbero essenzialmente uno strumento della Russia per mantenere un predominio geopolitico sull’Eurasia. È stato detto che la Russia intenderebbe mantenere artificialmente lo status quo per vincolare le élites dei nuovi Stati della CSI. Le dichiarazioni sul significato negativo del “congelamento” sono basate sull’ignoranza di numerose circostanze estremamente significative.

Mantenere lo status quo equivale ad attribuire alla soluzione del conflitto una fase ad interim. Usando i termini del diritto internazionale (parlando di conflitti simmetrici, c’è una situazione militare di stallo tra Stati differenti piuttosto che tra le parti di uno Stato e una formazione dello stesso Stato) possiamo dire che un “conflitto congelato” è una tregua piuttosto che una vera pace.

È noto che una tregua può durare all’infinito. Per esempio, Russia e Giappone non hanno ancora un trattato di pace ma questo non significa che il conflitto “congelato” tra Russia e Giappone abbia un impatto negativo sullo sviluppo dei paesi asiatici e del Pacifico. Al tempo stesso, ciò che è concepito in termini di conflitti simmetrici è ignorato nell’analisi di quelli asimmetrici, quali le situazioni di stallo armato nello spazio postsovietico.

Generalmente un “conflitto congelato” è una sospensione (o un termine) dello stallo armato tra le parti in guerra. Il “congelamento” del conflitto nel Karabagh ha contribuito a fermare una guerra il cui conto delle vittime era giunto a 11.000 Azeri e 7.000 Armeni. Il numero totale delle vittime della guerra tra Abkhazia e Georgia è stato stimato pari a circa 7.000 unità.
Il “congelamento” dei conflitti caucasici ha permesso di non raddoppiare (o addirittura triplicare) il martirio di quei popoli. Lo stadio di “conflitto congelato” non può risolvere i singoli problemi dei rifugiati o delle migrazioni forzate, ma la sospensione delle ostilità mette fine alla pulizia etnica ed impedisce un incremento dei profughi senza casa.
Terza tesi. L’impatto negativo dello status quo. Al forum di Berlino questa tesi è stata ripetuta più volte. Il “congelamento” del conflitto ed il mantenimento dello status quo garantisce al tempo stesso un periodo favorevole e necessario a porre le basi di una soluzione politica. Se le parti in conflitto non sono pronte ad osservare questo scenario, la Russia (o qualsiasi altra parte impegnata nel processo di pace) non è la parte da biasimare. I critici dei “conflitti congelati” ed i sostenitori del loro “decongelamento” non tengono conto che l’opinione pubblica di un paese può essere molto più radicale nelle richieste che non la rispettiva parte politica.
Il segnale di partenza per la creazione di una “Georgia per i Georgiani” è stato dato a Zviad Gamsakhurdia in modo democratico senza ricorrere ad oscure tecnologie o a risorse amministrative.
In Armenia i rappresentanti del comitato “Karabakh” e i comandanti del Fronte Popolare in Azerbaijan, i quali avevano promesso di lavare i propri anfibi da guerra nel lago Sevan, sono giunti al potere allo stesso modo. La vittoria del 2004 di Mikhail Saakashvili è stata piuttosto conforme al sentimento della società georgiana avente come obiettivo quello di “riunire tutte le proprie terre”.

Che cosa è, dunque, il “decongelamento” di un conflitto? Se le parti opposte sono poco disposte a comunicare, a non dichiarare di voler scendere a compromessi. Se i leaders delle opposte fazioni non sono preparati ad accettare i termini della controparte, considerando il compromesso come un tradimento dei propri interessi nazionali. Se un conflitto è stato a lungo “strumentalizzato” ed usato per consolidare le masse nella lotta all’aggressore. In questi casi il “decongelamento” comporta inevitabilmente la ripresa delle guerre e la conseguente distruzione dell’equilibrio costituito tra le parti.

Sorge inevitabilmente una domanda: che cosa comporta il "decongelamento"? una soluzione del conflitto o una vendetta politico-militare ad opera della parte che si ritiene sconfitta? L’autore di questo articolo ha rivolto questa domanda molte volte incontrandosi con i politici di Georgia ed Azerbaijan. Sfortunatamente, nessuna delle risposte date si è dimostrata convincente.
Il “decongelamento” dei “conflitti congelati” per un cambio di equilibrio tra le forze è uno scenario molto peggiore nel suo sviluppo rispetto allo status quo. I conflitti eternamente congelati sono un fenomeno maggiormente positivo paragonato ad un “decongelamento” per una guerra lampo. Tanto più che, come dimostra la storia postsovietica e postjugoslava, una guerra lampo dopo un “conflitto congelato” è possibile (Krajna serba, 1955); tutto questo però non agevola affatto la pace. Se una piccola “guerra vittoriosa” fosse considerata un prezzo proporzionato per ottenere la pace le cose sarebbero diverse. Ma, ancora una volta, sarebbe così per una sola delle parti in conflitto.

(Traduzione a cura di Luca Bionda)

Articolo originale: http://en.fondsk.ru/article.php?id=1060