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Massmedia: Afghanistan, la faccenda sporca

di Giancarlo Chetoni - 22/11/2007

 

Massmedia: Afghanistan, la faccenda sporca


Dopo il sequestro, la carcerazione preventiva, con la falsa accusa di terrorismo che colpirà il coordinatore di Emergency Hanefi e i diktat che il ministero degli Interni di Karzai ha imposto da aprile-maggio 2007 al personale medico e paramedico di Emergency, si sono completamente prosciugate anche le fonti di informazione che ruotavano intorno a Gino Strada, e alle sue strutture di assistenza sanitaria in Afghanistan.
Il chirurgo milanese che a ragione definirà l’arresto del suo più stretto collaboratore a Laskargah come “ritorsione di una banda di tagliagole” dopo aver contribuito con il suo prestigio alla liberazione del giornalista Mastrogiacomo, verrà sacrificato dalla troika Prodi, D’Alema, Parisi alla ragione politica dei rapporti tra Italia e Afghanistan, che lo consegnerà senza difese alla rappresaglia delle forze di sicurezza di Zmarai Bashari.
Il governo di Kabul da quel momento riuscirà a sigillare qualsiasi notizia attendibile diretta verso l’Italia proveniente dalla capitale e dall’interno delle province meridionali del Paese. Molto più difficile, se non totalmente impossibile invece per il “sindaco” di Kabul e i suoi Alleati dell’ “Occidente”, arrestare il passaggio a piedi e a dorso di mulo di uomini, armi e munizioni lungo una linea di confine a sud, sud est di 2430 km con il Pakistan.
L’ISI (il servizio segreto di Musharraf) permette da anni di rendere permeabili i confini tra i due Paesi, per allentare la tensione “islamica” sul governo centrale di Karachi.
Il Pakistan è unico stato del Centro Asia a possedere tecnologia e reattori nucleari ad acqua pesante, testate atomiche e missili a medio raggio con 2.500 km di portata.
Condizione che impone agli Usa di mantenere questo Paese con assoluta priorità nella sua permanente area di influenza politica e di assistenza economica e militare.
Gli Usa e la Nato in Afghanistan impediscono inoltre che il territorio dell’Afghanistan sia attraversato da linee energetiche che dall’Iran possano portare ogni anno milioni di mc di gas e di petrolio direttamente in Cina, il gigante dell’Asia che si sta affacciando sulla scena del XXI secolo come il competitore strategico degli Usa e dell’Europa.
Occorrerà riparlarne per poter spiegare con sufficiente chiarezza quali siano gli interessi in gioco nella Regione ben al di là del “terrorismo” del Mullah Omar, del suo alleato Osama Ben Laden e dei “centri di reclutamento dei terroristi” dell’11 settembre messo in campo dalla Cia come fattore depistante.
Torniamo al nostro argomento. Il giro di vite coinvolgerà anche le agenzie e i corrispondenti locali.
I comunicati dei giornalisti afghani destinati verso le città di Nok, Quetta, Zhob e Peshwar con notizie di attività di guerra, già ampiamente filtrati nell’accesso alle notizie da Isaf e Enduring Freedom, da quel momento verranno sottoposti ad un ulteriore setaccio della censura di Kabul.
Dalle province dell’Afghanistan la trasmissione di qualche notizia confusa e inattendibile, continuerà ad affluire per mezzo delle colonne dei profughi che varcano quotidianamente i confini del Paese delle montagne, per sfuggire ai bombardamenti e alla rappresaglie di Usa, Gran Bretagna ed Alleati della Nato.
Il black out verso il nostro Paese sarà totale. L’ambasciata italiana a Kabul e il PRT di Herat peraltro evitano dal 2003, e anche qui c’è un ottima ragione, di chiedere al ministero degli Esteri e alla Rai l’invio di corrispondenti dall’Italia, sia nella sede diplomatica che al West Rac.
La sofferenza e la morte che assediano l’Afghanistan, in una condizione di prolungata assenza di informazioni, verranno percepite nei mesi che seguiranno dall’opinione pubblica italiana come eventi di ricaduta di una guerra lontana, ovattata, che scivola nelle pieghe di ordinario, febbricitante quotidiano. Si perfezionerà il metodo Iraq.
Eppure l’Italia ha da quelle parti 2.700 militari che fanno la guerra. Perché di questo si tratta.
Gli elicotteri d’attacco Mangusta A129 da settembre di quest’anno danno “appoggio tattico ravvicinato” sul campo agli Alleati.
Ad ogni attacco scaricano sul “nemico “individuato dalla propaganda di Washington e di Bruxelles come “terrorista”, missili anticarro Tow, razzi eplosivi, incendiari e perforanti da 70 mm e nastri di proiettili da 12, 7 mm.
Un’unità di 160 uomini addestrati alla guerriglia di Consubim e dei ROS dal maggio-giugno 2007 affianca SBS e Ranger in azioni di rastrellamento. Le azioni sul terreno contro i nuclei di combattenti “pathsum” sono supportate da armi anticarro, artiglieria e mortai e appoggio aereo di cacciabombardieri F18.
Quello che da più parti si era paventato con l’invio sul teatro di operazioni degli A129 e dei Predator è regolarmente successo.
Arrivati sui C130J ad agosto a Camp Arena e Vianini, dopo l’approntamento operativo, hanno cominciato ad effettuare ricognizioni armate sul territorio delle province di Herat e di Farah in funzione di protezione dall’aria delle pattuglie e dei convogli misti in “missione lontana”, provvedendo anche al controllo delle vie di comunicazione locali e del Centro Comando ISAF contro eventuali “infiltrazioni” ostili.
I pesanti, quasi quotidiani bombardamenti effettuati da Usa e Gb con F18 e Harrier nella provincia di Helmand, fanno uscire dal quella zona di combattimento per riorganizzarsi sempre più consistenti formazioni taliban.
E fin qui, anche se parlare di “missione di pace” diventa sempre più stretto, tutto regolare o quasi nell’intento di assicurare una cornice di “sicurezza” aerea al contingente nazionale e alla forza mista europea.
Finché, come doveva essere facilmente prevedibile, al West Rac non si è dovuto fare i conti con le richieste Usa di appoggiare dall’aria veicoli blindati, convogli e formazioni militari di Enduring Freedom in azione contro concentrazioni di forze “nemiche” sia nella provincia di Farah che in quella di Herat.
In assenza di un inequivocabile “no” politico del titolare del dicastero della Difesa all’impiego “esteso” degli Agusta A129 non si poteva non consumare lo sforamento dei caveat.
Insomma sono saltati tutti i criteri di impiego che avevano fatto da rassicurante giustificazione iniziale all’intervento di “pace” dell’Italia in Afghanistan.
Il West Rac non ha né l’autorità né tantomeno la forza di opporsi alle richieste del comando unificato di Enduring Freedom sia per “vincoli” operativi, di urgenza, sottoscritti da Palazzo Chigi sia per evidenti ragioni di costante subordinazione psicologica e militare della Repubblica delle Banane all’Alleato di oltreoceano. Gli “ita(g)liani brava gente”, volenti o nolenti, hanno perciò cominciato a sparare nel mucchio dal momento che è difficile separare su un terreno accidentato o dall’aria, il mujahiddin locale dal pathsum del Waziristan o del Beluchistan e il giovane dall’adulto, di un villaggio afghano che offre protezione e rifugio ai combattenti della Jahd.
Chi conosce l’orografia, la concentrazione e la tipologia dei villaggi del Paese delle montagne, sa che un velivolo ad ala rotante è spesso in termini bellici molto più micidiale di un cacciabombardiere con munizionamento laser per l’attacco al suolo. La manovrabilità, in assenza di missili antiaerei e mitragliatrici pesanti asservite a radar, e il volume di fuoco che può sviluppare un Agusta A129, sono in ogni caso devastanti negli effetti sul terreno, contro costruzioni e ricoveri di fortuna costruiti il più delle volte con mattoni di fango e tetti sorretti da assi precarie di legno.
E così sarà anche se non ci piace. Almeno per ora. Perché sull’abisso spalancato dell’oggi, la storia siamo noi.