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La questione monetaria e l'emissione della moneta: l'Euro di chi è?

di Massimiliano Lucaroni - 23/11/2007

 

 

 

“Se gli Americani consentiranno mai a banche private di emettere il proprio denaro, prima con l’inflazione e poi con la deflazione le banche e le grandi imprese che ne cresceranno intorno priveranno la gente delle loro proprietà, finché i figli si sveglieranno senza tetto nel continente conquistato dai loro padri. Il potere di emissione va tolto via dalle banche e restituito al popolo, al quale esso appartiene propriamente” (Thomas Jefferson – 1776- Anno della dichiarazione di indipendenza degli USA).

 

Mi è sembrato giusto iniziare questo articolo con un doveroso tributo alla chiaroveggenza del terzo Presidente degli Stati Uniti d’America, la cui profezia, pur così lontana nel tempo, appare purtroppo davvero sorprendente per la sua attualità, come testimonia la recente crisi dei mutui americani, nonché la constatazione che oggigiorno lo stipendio medio di un’intera esistenza lavorativa si prospetta ormai come a mala pena sufficiente per l’acquisto di un monolocale in una delle nostre grandi città. 

 

Sebbene la questione monetaria, qui intesa essenzialmente nella sua relazione con il tema dell’emissione del denaro, abbia rivestito un’importanza cruciale nel corso degli ultimi due secoli e sia stata al centro di passioni, contese e importanti decisioni soprattutto negli Stati Uniti (vanno ricordati, a titolo di esempio, oltre al già citato Jefferson, anche Jackson, Lincoln e da ultimo J.E.L. Kennedy come i Presidenti che maggiormente hanno preso a cuore la questione) attualmente l’argomento sembra per qualche motivo uscito di scena e del tutto assente dal confronto pubblico e dall’agenda politica.

 

Eppure credo che probabilmente tutti noi, fosse anche solo a livello inconscio, avvertiamo qualcosa di profondamente sbagliato nell’attuale sistema monetario.

Poiché la principale funzione del denaro è quella consentire e facilitare lo scambio di prodotti e servizi, in sostituzione delle originarie e arcaiche forme di baratto, il semplice fatto che, a causa della mancanza di liquidità dei potenziali acquirenti, non si riesca a vendere una consistente quota dei beni offerti dal sistema produttivo, è da solo sintomo di qualche significativa anomalia.

Ma a ben guardare tutte le stranezze e anomalie del sistema monetario, vi è solo l’imbarazzo della scelta.

Il passaggio dalla lira all’euro, che doveva essere una semplice operazione di conversione tra due valute, si è nella realtà tradotto in una drammatica perdita di potere d’acquisto per la grande maggioranza delle famiglie italiane. Ogni bambino italiano che viene alla luce si trova sulle spalle un debito di circa € 30.000, oltretutto in costante crescita, quale quota parte del gigantesco debito pubblico nazionale. A livello internazionale le cose non vanno molto meglio. Anche i Paesi più ricchi del mondo registrano altissimi deficit pubblici, per non parlare di quelli più poveri, costretti a richiedere periodici azzeramenti del debito nazionale, solitamente in cambio della concessione allo sfruttamento delle proprie risorse naturali.

 

Ma come è stato possibile pervenire a un sistema che palesa tali e tante assurdità? Se tutti i Paesi del mondo, sia pur con diverse gradazioni, sono così pesantemente indebitati, chi sono mai i creditori di simili somme da capogiro?

 

Per cercare di rispondere a tali domande può essere utile ripercorrere brevemente le tappe che hanno condotto all’odierna situazione.

 

 

 

 

Breve storia della cartamoneta

 

Il sistema attuale basato sulla cartamoneta iniziò a prendere forma alla fine del XVII secolo. Fino ad allora il denaro circolante era costituito da monete di metalli pregiati, quali oro o argento. Nel 1694 però il re d’Inghilterra Guglielmo d’Orange, in cambio di un consistente prestito concessogli, autorizzò la neonata Banca d’Inghilterra, prototipo e antesignana delle moderne banche centrali, a stampare e mettere in circolazione banconote di carta quali titoli rappresentativi di riserve d’oro, quello stesso oro che la Banca aveva appena prestato al sovrano. Tale avvenimento ebbe un’importanza capitale, in quanto per la prima volta uno Stato nazionale moderno, oltretutto estremamente potente, iniziava a privarsi della possibilità di battere nuova moneta, delegando tale prerogativa a un ente privato, la Banca Centrale. Il funzionamento del nuovo sistema monetario venne efficacemente e sinteticamente descritto dallo stesso fondatore della Banca d’Inghilterra, William Paterson, nei seguenti termini: “Il Banco trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla”.

Rapidamente la nuova Banca Centrale d’Inghilterra ottenne il monopolio dell’emissione di sterline e, in considerazione del ruolo di grande potenza coloniale rivestito allora dal Regno Unito, il sistema basato su cartamoneta emessa da una banca centrale privata e convertibile (almeno in teoria!) in oro, iniziò a diffondersi su scala mondiale.  In quasi ogni Paese venne istituita una Banca Centrale deputata all’emissione di banconote, un processo che scatenò irrefrenabili appetiti da parte dei banchieri privati, impegnati in una dura lotta fra di loro e con lo Stato per la conquista del monopolio della moneta e che fu costellato da scandali finanziari di ogni tipo. In Italia, ad esempio, può ricordarsi il grande scandalo della Banca Romana, che nel 1893 costrinse alle dimissioni il governo allora presieduto da Giolitti.

Con l’andar del tempo, venne a costituirsi, a seguito di accordi a livello internazionale, un sistema basato sulla cosiddetta doppia convertibilità o “gold standard “. Venne cioè stabilito che le banconote emesse dalle singole nazioni fossero convertibili non più in oro, bensì in sterline inglesi, e che solo nei confronti di queste ultime rimanesse l’obbligo di convertibilità in oro. Di conseguenza le Banche Centrali dei singoli Paesi si impegnavano a emettere nuova moneta nazionale solo a fronte di corrispondenti riserve di sterline, mentre la Banca Centrale d’Inghilterra a sua volta avrebbe potuto emettere nuove sterline solamente a fronte di adeguate riserve in oro. Tutto ciò, si ripete, almeno in teoria!

Alla fine della seconda guerra mondiale, a seguito degli accordi internazionali di Bretton Woods, il dollaro USA sostituì la sterlina inglese come moneta internazionale di riferimento per la convertibilità in oro, quasi a simboleggiare l’avvenuto passaggio di consegne tra le due superpotenze mondiali.

Dopo alcune difficoltà sperimentate già negli anni ’60, il sistema del “gold standard” entrò definitivamente in crisi nel 1970, quando i paesi appartenenti al cartello petrolifero dell’OPEC, forse insospettiti dall’elevato numero di biglietti circolanti, iniziarono a richiedere il pagamento dei barili di petrolio non più in dollari statunitensi ma direttamente in oro. Divenne allora chiaro in breve tempo che, contrariamente agli impegni assunti, solamente una minima parte dei dollari emessi dalla Federal Riserve, la Banca Centrale USA, era effettivamente coperta da riserve di oro e che non era possibile far fronte alle richieste di conversione che cominciavano ad arrivare dai quattro angoli del pianeta. Preso atto della situazione, il 15 agosto del 1971 il Presidente americano Nixon dichiarò unilateralmente decaduti gli accordi internazionali di Bretton Woods, abolendo qualsiasi obbligo di convertibilità in oro del dollaro e di fatto, a cascata, abrogando l’obbligo di convertibilità di tutta la cartamoneta del mondo.

Veniva in tal modo a inaugurarsi l’era del cosiddetto “corso forzoso” della cartamoneta, ormai priva di riserva aurea, non garantita più da alcunché e, soprattutto, senza più limiti o vincoli rigidi per la sua emissione.

 

Riepilogando, le caratteristiche essenziali del sistema monetario odierno possono essere così sintetizzate:

-          l’emissione di nuova moneta non è più garantita in alcun modo da riserve di oro o di altre valute straniere e di fatto attualmente la creazione di moneta avviene dal nulla;

 

-          il valore della cartamoneta si basa perciò attualmente solo su una convenzione legale dello Stato, riconosciuta dai cittadini che accettano la moneta come mezzo di pagamento;

 

 

-          la cartamoneta viene emessa da una Banca Centrale, solitamente privata, che la presta allo Stato o alle altre banche, mentre allo Stato stesso è rimasta solo la prerogativa di poter battere monetine metalliche, altrimenti denominate “spiccioli”.

 

Per quanto riguarda la zona euro, attualmente è competente all’emissione di cartamoneta la Banca Centrale Europea (BCE), che può però delegare tale compito alle singole banche centrali nazionali. La BCE è una società partecipata da tutte le banche centrali nazionali dell’Unione Europea, alcune delle quali sono pubbliche e altre private. La Banca Centrale italiana, la Banca d’Italia, è un istituto posseduto al 95% da soci privati (banche commerciali e assicurazioni) e solo al 5% da enti pubblici (per la precisione enti previdenziali quali Inps e Inail). Giova ricordare che la compagine sociale della Banca d’Italia è stata resa nota solo nel 2005, a seguito di un’inchiesta giornalistica che ha rintracciato gli effettivi proprietari, mentre per ben 112 anni dalla sua fondazione (avvenuta nel 1893) per sconosciuti e incomprensibili motivi l’elenco dei soci della Banca d’Italia è stato secretati.

La Banca Centrale di gran lunga più potente del mondo, la Federal Riserve Americana (FED) è una banca interamente privata, posseduta a sua volta da dodici banche commerciali, americane ed europee e con sede legale nel confortevole paradiso fiscale di Porto Rico.

 

Il debito pubblico e i guadagni del signoraggio: due facce della stessa moneta.

 

Dopo questa premessa, dovrebbe essere più agevole affrontare quello che in effetti è uno degli aspetti cruciali della questione monetaria, ovvero la nascita e la crescita esponenziale del debito pubblico.

A seguito della progressiva rinuncia alla propria, un tempo sovrana, prerogativa di battere moneta, lo Stato si è visto costretto a rivolgersi alla Banca Centrale nazionale ogni volta che si è trovato ad aver bisogno di denaro. La Banca Centrale concede quindi in prestito allo Stato, al tasso d’interesse da lei stessa stabilito, la moneta di nuova emissione, ottenendo in cambio obbligazioni o altri buoni del tesoro che lo Stato emette per l’occasione, generando quindi debito pubblico, e che cede in contropartita alla Banca Centrale stessa. Ciò che rende abnorme la crescita del debito pubblico è il fatto che la Banca Centrale presti denaro allo Stato non sulla base del costo di produzione delle banconote (in media, pochi centesimi di euro cadauna) ma sulla base del loro valore facciale.

Per fare un esempio concreto, il costo medio di produzione e stampa di una banconota di € 100 ammonta, secondo le fonti più accreditate, a circa 30 centesimi; ciò nonostante ogni volta che viene emessa una nuova moneta di € 100 il debito pubblico che si crea è pari a € 104, dato dalla somma del valore facciale della banconota più l’interesse annuo stabilito dalla Banca Centrale emittente (in questo esempio ipotizzato al 4%).

Da tutto ciò se ne deduce che la causa principale della genesi del debito pubblico è da ricercarsi nella semplice emissione del denaro, che con l’attuale sistema monetario è stata fonte di un enorme e impagabile debito statale. Enorme perché di fatto pari alla maggior parte del circolante emesso più gli interessi, impagabile perché costantemente crescente per i suddetti interessi, cosicché alla scadenza di ogni prestito lo Stato non può far altro che richiedere un prestito ulteriore per coprire il pregresso, originando così un processo senza fine.

Per dare un’idea delle dimensioni del fenomeno, basti pensare che il debito pubblico italiano ha oltrepassato la soglia dei 1.600 miliardi di euro. Al tasso attuale d’interesse del 4%, tale debito genera ogni anno una spesa per interessi per le casse statali di circa 65 miliardi di euro, vale a dire oltre il doppio dell’importo dell’ultima legge finanziaria “lacrime e sangue” elaborata dall’ex banchiere centrale e attuale Ministro dell’Economia Padoa Schioppa. Ciò sta a significare che una parte molto consistente del prelievo fiscale a carico dei cittadini non va a finanziare la produzione di servizi pubblici, bensì a pagare gli interessi annui su tale inestinguibile debito pubblico di cartamoneta.

A fronte del suddetto enorme debito pubblico viene a crearsi un corrispondente guadagno per la Banca Centrale derivante dall’emissione di moneta, il cosiddetto guadagno da “signoraggio monetario”, consistente nella differenza tra il costo di produzione del denaro e il suo valore facciale. Riprendendo l’esempio sopra esposto, tale guadagno per ogni banconota emessa di € 100 è in effetti pari a € 103,70 (€ 100 per il titolo di stato ottenuto in contropartita + € 4 per l’interesse annuo – 0,30 per il costo di stampa della banconota).

Potrebbe quasi dirsi che lo Stato e la Banca Centrale si siano “equamente” suddivisi gli effetti derivanti dall’emissione del denaro, caricando tutti gli oneri sul primo e tutti i benefici sulla seconda!  

Il meccanismo sopra decritto di è sviluppato allo stesso modo in quasi tutti i paesi del mondo, con pochissime eccezioni. Per quanto riguarda il caso specifico italiano ed europeo va precisato che da alcuni anni, a seguito della stipula del Trattato di Maastricht, la Banca Centrale, all’atto dell’emissione della cartamoneta, non presta più direttamente allo Stato ma solo alle altre banche commerciali (in cambio di titoli o valuta possedute da queste ultime) le quali poi a loro volta prestano agli stati e ai cittadini. Ciò ha portato negli ultimi tempi a un trasferimento dei debiti pubblici europei dalle Banche centrali alle banche commerciali, che attualmente, per restare allo specifico caso italiano, detengono oltre l’80% dei titoli di stato rappresentativi del debito nazionale.

 

 

La contabilità creativa delle banche centrali

 

Abbiamo appena visto qual è il reale guadagno della Banca Centrale in conseguenza del suo diritto di signoraggio sulla moneta. Se però si andassero a esaminare i bilanci delle banche centrali non si troverebbe quasi traccia di questi enormi profitti. Ciò dipende dal fatto che le banche centrali registrano contabilmente come ricavo nel conto economico solamente l’interesse annuo derivante dal prestito (nell’esempio sopra citato, quindi, solamente € 4) e inseriscono nel passivo dello stato patrimoniale, come fosse un debito verso la collettività, l’intero valore facciale della cartamoneta messa in circolazione, in tal modo quasi pareggiando l’importo dei titoli e della valuta che ricevono in cambio della nuova moneta e che vengono inseriti nell’attivo dello stato patrimoniale.

Una tale, a dir poco bizzarra, procedura contabile è evidentemente un residuo del periodo della cartamoneta convertibile in oro, in cui i cittadini possessori delle banconote potevano recarsi dalla Banca Centrale e chiedere oro in cambio di fogli di carta. Sulle vecchie lire, ad esempio, era riportata la scritta “pagabile a vista al portatore” e quindi, con un po’ di fantasia, potevano forse essere considerate dei debiti della Banca d’Italia verso la collettività. Come abbiamo già visto, però, a partire dal 1971 tutto ciò non è più possibile, essendo stato definitivamente abolito ogni obbligo di convertibilità e se oggi qualcuno provasse a recarsi presso una Banca Centrale chiedendo qualcosa in cambio delle banconote possedute non otterrebbe altro che dei sorrisi di compatimento.  Tutto ciò non sembra però aver turbato più di tanto le Banche centrali, le quali hanno tranquillamente proseguito a inserire il denaro emesso tra le passività di bilancio, qualificandolo come “debito inesigibile” (!!). A parte il pregevole umorismo di tale gioco di parole (il mondo sarebbe davvero un luogo meraviglioso se tutti avessimo la potestà di considerare inesigibili i nostri debiti..!) resta il fatto che un debito inesigibile in realtà NON è un debito e che una tale apposizione in bilancio comporta in pratica l’occultamento di utili elevatissimi. Se una qualsiasi società per azioni estranea al settore bancario adottasse principi contabili così “creativi” molto difficilmente potrebbe sperare di sfuggire a pesanti incriminazioni per falso in bilancio, evasione fiscale e forse addirittura per riciclaggio, giacché è ben noto come la sopravvalutazione o addirittura l’insussistenza delle poste passive del bilancio degeneri facilmente nella costituzione di fondi neri.

E’importante evidenziare che una tale, assurda, procedura contabile ha avuto come conseguenza quella di generare un enorme debito nazionale anche in quei Paesi in cui, a differenza dell’Italia, la Banca Centrale è di proprietà pubblica, in quanto contabilmente il debito dello Stato a seguito dell’emissione di moneta non è stato pareggiato da un analogo credito della Banca Centrale.

 

Ma l’euro di chi è?

 

Un altro aspetto fondamentale della questione monetaria è quello di chiarire chi sia l’effettivo e legale proprietario del denaro al momento della sua emissione. Abbiamo visto che la Banca Centrale presta il denaro emesso al tasso d’interesse da lei stessa stabilito, mettendo in tal modo in atto il tipico comportamento del proprietario pur procedendo poi, illogicamente, a contabilizzare la moneta emessa tra le passività di bilancio. Per restare in Europa, la BCE nel suo statuto afferma tranquillamente che il reddito da signoraggio spetta a lei stessa, in compartecipazione con le singole Banche Centrali nazionali, implicitamente avallando la tesi della proprietà bancaria della moneta all’atto dell’emissione.

Ma tutto ciò è legale? La BCE si appropria legittimamente dell’euro o agisce come una tipografia che pretendesse di usurpare la proprietà degli stampati ai legittimi proprietari?

 Per quanto possa sembrare paradossale, non vi è alcuna norma, né italiana né comunitaria, che stabilisca chi debba essere considerato il proprietario della moneta al momento dell’emissione.

In assenza di una legislazione specifica, non rimane che rifarsi ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, in particolare alla nostra Costituzione. L’art. 1 della Costituzione afferma che la sovranità appartiene al popolo, senza prevedere eccezioni per la sovranità monetaria. Eppure in tale ambito la sovranità popolare è pressoché pari a zero, tutte le decisioni al riguardo essendo assunte da enti sovranazionali, che appaiono ormai al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo, sia politico che legale. Anche l’art. 42, che garantisce l’accesso dei cittadini alla proprietà privata appare in palese contrasto con l’attuale sistema monetario, che di fatto fa nascere la moneta come proprietà privata bancaria e come debito per la collettività e i cittadini.

Oltre ai rilievi di ordine costituzionale, anche in base alla logica e al buon senso appare chiaro che da quando è stata abolita la riserva aurea e la convertibilità in oro la Banca Centrale non può più continuare a considerarsi proprietaria della moneta che emette, giacché il valore della stessa è ormai determinato esclusivamente dagli Stati e dai cittadini che l’accettano e che vanno di conseguenza considerati come i legittimi proprietari. Di conseguenza la moneta, all’atto dell’emissione, andrebbe accreditata dalla Banca Centrale allo Stato e non più addebitata dalla stessa Banca alla collettività com’è accaduto finora. Dal canto suo lo Stato dovrebbe limitarsi a rifondere la Banca Centrale dei costi di stampa, aggiungendo tutt’al più una commissione per il servizio reso, come accade con una qualsiasi normale tipografia.

 

 

Dollari rosso sangue

 

La questione monetaria sembrò giungere a un improvviso punto di svolta nel 1963. Il 4 giugno di quell’anno infatti il Presidente degli Stati Uniti Kennedy firmava l’ordine esecutivo n. 11110, con il quale si autorizzava il Tesoro americano a stampare dollari di carta, garantiti dalle riserve d’argento possedute dal governo USA. Con uno scarno comunicato di una ventina di righe, rifacendosi ai poteri concessigli dalla Costituzione, Kennedy infrangeva il monopolio sulla cartamoneta esercitato dalla Federal Riserve ormai ininterrottamente dal 1913 e si inseriva a pieno titolo nella migliore tradizione americana, quella dei padri fondatori Jefferson, Adams e Franklyn e dei grandi Presidenti dell’800 Jackson e Lincoln, tutti indistintamente strenui sostenitori della necessità della proprietà popolare della moneta. Vennero stampati circa 4,3 miliardi di dollari, in biglietti di piccolo taglio e di colore rosso, per distinguerli dai biglietti verdi della FED. Ogni “nuovo” dollaro nasceva quindi come un’attività per lo Stato e non più come una passività com’era accaduto prima di allora e tutti i guadagni derivanti dal signoraggio monetario potevano iniziare a tornare al legittimo proprietario. Poiché all’epoca il dollaro era ancora la valuta di riferimento per la convertibilità di quasi tutta la cartamoneta mondiale, non v’è dubbio che il nuovo metodo di emissione, in caso di successo, si sarebbe rapidamente diffuso in tutti gli altri Paesi e il concetto stesso di “debito pubblico” nell’arco di qualche anno sarebbe stato confinato tra i ricordi legati a un periodo di transitoria follia dell’umanità.

Per inciso, era forse questo a cui si riferiva Kennedy nei suoi discorsi circa una non meglio identificata “nuova frontiera” che stava per dischiudersi? Una moneta di proprietà dei cittadini, finalmente affrancata da speculazione, interesse e usura, con la conseguente liberazione  da un’assurda e illogica schiavitù monetaria?

Purtroppo nel novembre del 1963 Kennedy venne assassinato e il primo atto del suo successore, Lyndon Johnson, fu quello di ritirare dalla circolazione tutti i dollari colorati di rosso, restituendo in tal modo alla Federal Riserve il monopolio sulla moneta.

L’ordine esecutivo n. 11110 non è mai stato formalmente abrogato e in teoria è tutt’ora vigente, ma nessun Presidente statunitense ha più manifestato la volontà (o forse il coraggio?) di tornare a stampare denaro in nome e per conto del popolo americano. Nel frattempo, il debito pubblico di quello che è il più ricco e potente Paese del mondo ha superato l’astronomica cifra dei novemila miliardi di dollari e si calcola che attualmente circa il 50% dell’imposizione fiscale statunitense serva a pagare il costo e gli interessi di tale enorme debito.

 

 

Il denaro virtuale e la riserva frazionaria

 

Tutto ciò di cui si è parlato finora riguardava il denaro inteso nella sua dimensione fisica di banconote di cartamoneta. Sappiamo però tutti che attualmente l’utilizzo di moneta contante è sempre più raro, a seguito dello sviluppo dei più disparati mezzi di pagamento, sia scritturali che virtuali (assegni, bancomat, carte di credito, pagamenti online etc.) al punto che si stima che il denaro contante non superi attualmente il 10% di tutta questa enorme massa monetaria.

Come viene regolata l’emissione di questo denaro virtuale?

Purtroppo i meccanismi non differiscono molto da quelli appena esaminati relativamente al denaro contante.

L’elemento chiave che consente l’emissione e la crescita esponenziale del denaro virtuale è la cosiddetta “riserva frazionaria”. Tale riserva sta a rappresentare la percentuale dei depositi dei clienti che le banche commerciali devono tenere accantonata a garanzia dei prestiti che concedono al pubblico. La percentuale di riserva frazionaria è stata via via abbassata negli anni, a seguito della crescente diffusione dei mezzi di pagamento sostitutivi del contante e attualmente è fissata al 2%.

Ciò significa che, grazie al meccanismo del moltiplicatore monetario, il sistema bancario, considerato nel suo complesso, è teoricamente in grado di prestare denaro al pubblico per un importo massimo pari a circa 50 volte l’ammontare dei depositi posseduti. Si tratta anche in questo caso di denaro creato dal nulla, di cui le banche commerciali si appropriano di fatto al momento dell’emissione, prestandolo a onerosi tassi di interesse ai propri clienti e senza nemmeno sostenere i pur irrisori costi di stampa relativi alla moneta fisica.

Oltre che creato dal nulla, si tratta in questo caso in larga parte di denaro davvero inesistente, in quanto rappresentato da un numero su un archivio di computer ma privo di un effettivo riscontro fisico.

Ma cosa accade al momento del rientro dei prestiti?  Se si ipotizza per semplicità un sistema bancario che, nel suo complesso, presta somme per un importo pari a 5 volte l’ammontare dei depositi in gestione è evidente che, al momento del rientro dei prestiti, i 4/5 di tali importi diverranno proprietà del sistema bancario stesso, essendo somme che erano state prestate dal nulla, generando un enorme guadagno effettivo in conto capitale.

I guadagni bancari non si limitano perciò al solo differenziale tra interessi attivi e passivi, pur di per sé già sufficiente a garantire giganteschi e a volte quasi imbarazzanti utili di esercizio.

Va inoltre ricordato che il rischio commerciale che corrono le banche è praticamente inesistente, giacché, se per caso un istituto di credito avesse “largheggiato” nei prestiti e si trovasse in difficoltà a rimborsare clienti che chiedessero la restituzione di depositi interverrebbe in suo soccorso la Banca Centrale, nella veste di cosiddetto “prestatore di ultima istanza”, stampando denaro contante dal nulla e chiudendo in tal modo il circolo vizioso.

Da quanto rappresentato appare davvero necessaria una riforma del sistema monetario virtuale (ad esempio, portando la riserva frazionaria al 100%) che riconduca gli istituti di credito alla loro natura originaria di intermediari finanziari, aventi la funzione sociale di facilitare l’incontro della domanda e dell’offerta di denaro già esistente, ma togliendo loro la possibilità di appropriarsi di fatto di tutta la gigantesca massa di moneta virtuale che attualmente creano dal nulla.

 

 

Aspettando il ritorno di Creso

 

A conclusione di questa breve rassegna sui principali temi della questione monetaria, il quadro che se ne ricava non è certo dei più confortanti.

Come in un gioco di specchi deformi, sembra quasi che nell’attuale sistema monetario ogni cosa occupi il posto contrario a quello suggerito dalla logica, dal raziocinio e dal buon senso.

Gli Stati e i cittadini, che sono gli unici a dare valore a una moneta (fisica o virtuale) attualmente creata dal nulla e che dovrebbero di conseguenza esserne i legittimi proprietari vengono espropriati di tutti i loro soldi, fino all’ultima banconota, al momento stesso dell’emissione e per riaverli indietro sono costretti a chiederli in prestito alle banche, pagando onerosi interessi calcolati sul valore nominale del denaro, mediamente pari a centinaia di volte il costo di produzione.

Gli enormi proventi derivanti dal signoraggio monetario vengono interamente incamerati dalle banche, secondo una “prassi” che ha perso ogni legittimità e residua ragion d’essere almeno dal 1971, anno di definitiva abolizione della riserva aurea, e che pertanto al giorno d’oggi non può essere definita altrimenti che usuraia e truffaldina.

Come corollario di questo sistema si è venuto inoltre a generare un enorme e inestinguibile debito pubblico, che i cittadini sono costretti a pagare (un’altra volta!) per mezzo di un’elevatissima pressione fiscale.

 

Nel VI secolo a.C. il re di Lidia Creso toglieva ai mercanti greci il monopolio della creazione di moneta, coniando monete d’oro effigiate dai simboli dello Stato. Per certi versi, l’attuale sistema monetario, riconsegnando il monopolio della moneta ai moderni commercianti di denaro, sembra essere tornato indietro persino rispetto alle opere di tale illuminato sovrano.

 

Nella speranzosa attesa che prima o poi si riesca a restituire a Cesare quel che è di Cesare, concludo ringraziando per l’invito e lo spazio concessomi e complimentandomi per l’apertura mentale dimostrata nella scelta del tema da trattare, tema che per le delicatissime implicazioni che comporta a tutti i livelli (economico, politico, istituzionale) è purtroppo oggetto di ferrea censura su tutti i media a rilevanza nazionale.

 

 

                                                                                                                                            Massimiliano Lucaroni

                                                                                                                                            Dottore Commercialista