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Un dibattito, un grande interrogativo (“Occidentali go home?”)

di Giuliano Corà - 23/11/2007

     

 

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“Il Colonialismo classico depredava le ricchezze dei colonizzati, ma, pur imponendo le proprie leggi, rimaneva sostanzialmente estraneo alla loro cultura. Il Neocolonialismo – quello della globalizzazione – ha invece dichiarato guerra totale al mondo non occidentalizzato: ogni spazio va conquistato, ogni mente sottomessa, ogni cultura omologata. Quale posizione assumere, di fronte a questa situazione?”. Su questo concetto – che è più un dato di fatto che un’opinione – il Gruppo di Vicenza di Movimento Zero ha organizzato, venerdì 9 novembre scorso, un incontro pubblico a cui erano stati chiamati come relatori Padre Nicola Colasuonno dei Missionari Saveriani di Brescia e Francesca Casella, responsabile italiana di Survival (vedi link a lato). Intitolandolo, non a caso, “Occidentali go home?”.
Nei relatori invitati avevamo visto il contrapporsi di due posizioni che ci sembrano simboliche di quello che è oggi l’atteggiamento di buona parte dell’Occidente nei confronti del cosiddetto Terzo Mondo (intendendo con questo termine non solo le popolazioni “non sviluppate”, ma anche -  e questo è il campo d’azione specifico di Survival - quei popoli che rifiutano l’apporto della civiltà occidentale, preferendo mantenere stili di vita e culture ancestrali).
Nei loro confronti, la posizione e l’agire di Survival sono chiari. Non “difesa” di questi popoli dall’Occidente: come ha detto Casella in un suo intervento, “difenderli” da qualcosa, fosse anche ciò che noi identifichiamo come male, significa ancora una volta decidere per loro e al loro posto; quanto difesa, questo sì, del loro diritto di scegliere liberamente ed autonomamente la strada da seguire, anche qualora contemplasse l’acquisizione di elementi della cultura “bianca”. Così, per esempio, Casella ha raccontato di come siano stati fallimentari interventi occidentali che, sia pur attuati in perfetta buona fede, non avevano tenuto conto dell’adattamento all’ambiente e dello stile culturale delle popolazioni locali, ma anche di come molte culture indigene usino correntemente il computer per parlare di sé, per mantenere i contatti con culture diverse ed anche per combattere la loro battaglia in difesa della propria “diversità”. Secondo Survival, insomma, bisogna guardarsi dal riproporre una versione aggiornata, ma non meno pericolosa, del mito del buon selvaggio – figlio, del resto, proprio di quel razionalismo illuminista che teorizzò ad attuò la conquista e la “civilizzazione” dei popoli non europei.
Più “familiare” è apparsa la posizione dei Saveriani. Lontana e più moderna del missionariato classico, essa tuttavia ammette che un intervento sia possibile, in quelle realtà più critiche e degradate, magari proprio per effetto di politiche occidentali sconsiderate e di rapina. Rispettosi anch’essi della diversità culturale e perfino religiosa delle popolazioni indigene – Padre Colasuonno ha detto che la conversione non è più affatto un obiettivo primario, e che invece si guarda alle differenti espressioni religiose come a manifestazioni comunque della presenza divina – i Saveriani sembrano proporre un tipo di intervento che quasi ricorda, paradossalmente, un insegnamento maoista celebre negli anni Sessanta: non portare il pesce a chi ha fame, quanto piuttosto insegnargli a pescare.
Atteggiamenti, dunque, entrambi discutibili e proprio per questo interessanti. Che però si sono scontrati con un terzo punto di vista emerso dal pubblico. Attenzione, hanno detto infatti alcuni dei presenti - riferendosi soprattutto alla posizione di Survival - a non cadere nell’errore di considerare il Progresso come neutro, e le sue conquiste e i suoi prodotti come optionals che possono essere accettati o rifiutati senza danno e senza conseguenze. In realtà, il Progresso sarebbe comunque politico, sempre promosso da interessi economici di grandi aziende occidentali che mirano solo a impadronirsi di nuovi mercati installandovi il bisogno di consumare i nostri prodotti, ed in ogni caso veicola contenuti culturali diversi ed estranei rispetto alle culture locali. Difendere questi popoli dalla “infezione” occidentale non significa dunque praticare una specie di neocolonialismo antimodernista, ma salvaguardare una diversità culturale che è patrimonio dell’umanità intera (e sua futura e possibile risorsa e via di salvezza, ha aggiunto in un altro momento Casella, in questo d’accordo con le posizioni dei suoi obiettori).
Come si vede, un dibattito intenso e ricco di stimoli e suggerimenti.