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Kyoto: l'Islanda non chiede sconti

di Marinella Correggia - 24/11/2007

 

La signora Thorunn Sveinbjarnadottir, ministro islandese dell'ambiente, dev'essere una persona seria. Di recente ha dichiarato che nei prossimi negoziati sul clima (il primo e cruciale appuntamento a Bali, in dicembre, con la conferenza dell'Onu), il suo paese non dovrebbe più chiedere la «Iceland Provision», un provvedimento ad hoc che, entrato in vigore nel 2005, esentava l'Islanda dagli obblighi del Protocollo di Kyoto per il contenimento del surriscaldamento climatico. Perché questo trattamento di favore?
Ce lo spiega l'agenzia stampa internazionale Inter Press Service. L'Islanda copre il 72% del proprio fabbisogno energetico con fonti rinnovabili, e inoltre al tempo in cui fu deciso il Protocollo, non aveva che una piccola industria pesante. Così, fu l'unico paese occidentale a ottenere il permesso di aumentare le emissioni di gas serra del 10 % rispetto ai livelli del 1990; per i principali paesi industrializzati firmatari del Protocollo, invece, è prevista una riduzione media, rispetto ai valori del 1990, del 5,2% nel periodo 2008-2012 (anche se diversi paesi fra cui l'Italia ne sono ben lontani). La Iceland Provision permette annualmente 1,6 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica, da industrie a elevato consumo energetico, che non esistevano prima del 1990. Risultato: «Ora l'Islanda è indietro agli altri paesi, quando a riduzioni di gas serra», ha ricordato la deputata della sinistra verde Kolbrun Halldorsdottir durante una recente discussione parlamentare; «siamo a 12 tonnellate annue pro capite di gas serra, mentre la media europea è di 11» (già elevatissima rispetto alle necessità dell'ecologia e dell'equità). Le tonnellate pro capite potrebbero arrivare a 17 quando agli inizi del 2008 inizierà pienamente a lavorare la gigantesca fonderia Fjardaal nella parte orientale del paese.
Ma adesso basta, la ministra dell'Ambiente dichiara: «Dobbiamo addossarci le nostre responsabilità, e vale lo stesso per le altre nazioni». Il suo punto di vista non è però condiviso dal primo ministro islandese, Geir Haarde, che rispondendo durante la discussione parlamentare ha sostenuto che l'Iceland Provision dovrebbe essere chiesta anche per il prossimo round negoziale, probabilmente a Copenaghen nel 2009. La ministra dell'Ambiente è della Broad Left Alliance, che condivide il governo con l'Independence Party di Haarde, di destra; e non ha mai approvato questo favore inquinante, accordato al suo paese quando al governo c'era solo la destra. In totale l'Islanda si è vista allocare 10,5 milioni di tonnellate di gas serra - ossidi di azoto, metano, idrofluorocarburi, perfluorocarburi, biossido di carbonio - per il periodo fra il 2008 e il 2012. Il grosso di queste emissioni, 8,6 milioni di tonnellate, è stato di recente assegnato a cinque impianti industriali: quattro fabbriche di alluminio e una fabbrica di cemento. Due settori effettivamente fra i più energivori. Fra le industrie alle quali invece sono state negate le concessioni c'era, stranamente, la raffineria di silicone Tomahawk Development, destinata a produrre pannelli solari; questa se vorrà operare dovrà acquistare sul mercato i permessi di emissione e lo stesso avverrà per ulteriori fabbriche di alluminio, una volta che avranno ricevuto le autorizzazioni.
L'ambientalista Arni Finnsson dell'Iceland Nature Conservation Association ha criticato questa monocoltura dell'alluminio, mentre lo stesso ministro dell'Industria, Ossur Skarphedinsson, ha commentato sul giornale Morgunbladid che il suo governo non ha alcun controllo sulla sua espansione. Ma di recente sembra che la Landsvirkjunh, l'azienda elettrica nazionale, ha deciso di fornire ad altri clienti - appunto raffinerie di silicone e indotto, settori comunque meno inquinanti ed enervigori rispetto alle fabbriche di alluminio -l'energia che sarà prodotta da una serie di centrali idroelettriche sul fiume Thjorsa. Del resto l'Islanda si propone di ridurre le emissioni di gas serra del 50-75% rispetto al 1990.