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Il pensiero laicista dell'illuminismo erede della struttura politica dell'assolutismo

di Francesco Lamendola - 25/11/2007

 

 

Nel libro assai stimolante di Renhart Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese (edizione originale Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Phatogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg-München, 1959; traduzione italiana Il Mulino, Bologna, 1972) si prospetta la tesi che la struttura politica dell’assolutismo abbia costituito la premessa  del fenomeno culturale dell’Illuminsimo e, più specificamente, che l’autocoscienza degli illuministi, come ideologia critica della classe borghese, trovi nello Stato assoluto i suoi elementi fondanti. Con Locke, in particolare, l’elaborazione di una morale extrastatuale, anzi la teorizzazione della estraneità della morale alla natura dello Stato, avrebbe costituito il nucleo di un pensiero laicista sia nei confronti della religione, sia nei confronti dello Stato stesso - il Leviatano di Hobbes la cui funzione era stata quella di impedire e prevenire lo scoppio di una guerra civile omnium contra omnes. Al tempo stesso, la nascita e lo sviluppo della Massoneria avevano rappresentato il collaudo di una forma di potere indiretto - parallelo e segretamente conflittuale, o quantomeno alternativo - a quello dello Stato. Le premesse di un tale “esperimento” risalgono alla separazione tra morale e politica e, quindi, a molto prima della realizzazione della monarchia assoluta: per lo meno al Principe di Machiavelli. Ma se il segretario fiorentino aveva teorizzato esplicitamente la netta separazione della sfera dell’etica da quella della politica, con lo sviluppo delle sette massoniche e, in particolare, con quella degli Illuminati quella rottura trova il suo significato politico, e la sua più coerente realizzazione, nella fondazione di una critica borghese al sistema dell’ancien régime. La Massoneria, inoltre, e più ancora gli Illuminati di Baviera, elaborarono un progetto di presa del potere contro lo Stato assoluto dissimulandone però il significato politico mediante il dualismo tra morale e politica, che consentiva di occultare i loro veri obiettivi dietro la facciata di un laicismo apparentemente "neutro" in senso politico o quantomeno presentato come apartitico.

Seguiamo i passaggi salienti del ragionamento di Koselleck:

 

"Hobbes ha inequivocabilmente sviluppato la sua dottrina dello Stato dalla situazione storica della guerra civile. Per Hobbes, che assistette alla formazione dello Stato assolutistico in Francia, che vi si trovava quando fu assassinato Enrico IV e di nuovo quando La Rochelle capitolò davanti alle truppe di Richelieu, non esistette altro scopo che quello di prevenire la guerra civile che vedeva addensarsi sull'Inghilterra; oppure, quando fu scoppiata, di concluderla. E ancora nell'opera della sua vecchiaia affermò che non vi era nulla di più istruttivo per il lealismo e la giustizia che il ricordo della passata guerra civile. In mezzo ai disordini rivoluzionari, Hobbes cerca un fondamento sul quale si possa costruire uno Stato che garantisca tranquillità e sicurezza." (op. cit., p. 25).

"La pace è garantita soltanto se la morale politica, che induce gli uomini a rimettere i propri diritti al sovrano che li rappresenta, nell'atto della formazione dello stato di trasforma in un dovere d'obbedienza. Il comandamento decisivo della morale nello Stato, se e affinché possa essere fornita la protezione necessaria, è il dovere d'obbedienza. Ciò che fa dello Stato lo Stato non è soltanto il potere assoluto del principe, ma la relazione tra protezione e obbedienza. Soltanto in questa relazione si può creare uno status neutrale nel quale le leggi, benché diverse per contenuto - provvedono da sole con la loro legittimità alla tranquillità, alla sicurezza e al contentment. Così la ragione crea uno spazio neutrale della tecnica statale, nel quale la volontà del principe è l'unica legge. In un simile Stato è razionale soltanto la legittimità formale delle leggi, non il loro contenuto; è razionale il comandamento formale della morale politica di obbedire alle leggi indipendentemente dal loro contenuto. Lo Stato non è soltanto un Dio mortale, diventa anche un automation, una gigantesca macchina, e le leggi sono la leva  che mette in funzione la volontà assoluta del sovrano per tenere in movimento la macchina dello Stato. Nei binari indicati dalla ragione, lo Stato si realizza soltanto nella misura in cui mette fine alla guerra civile, e dopo la sua fine la neutralizza costantemente e durevolmente. A questo modo lo Stato, al pari della morale politica degli individui, corrisponde alla ragione."(p. 33)

"(…) per l'uomo in quanto cittadino, la prima causa delle leggi morali non deve più essere cercata in Dio ma in una grandezza temporale, cioè nel potere che mette fine alla guerra civile. Queste legi sono morali  non perché corrispondano aduna legalità eterna della morale - per quanto ciò possa avvenire - ma perché sono l'imperativo che discende direttamente dalla situazione politica. Sono le leggi della morale politica, sulle quali - sulla base appunto di questa morale - è il sovrano a decidere. Non l'opinione o la giusta misura, ma il motivo politico fa della virtù una virtù. Invece per l'uomo in quanto uomo l'opinione, cioè la sua coscienza, rimane il criterio ultimo della morale. Resta soltanto da sperare che questa opinione si orienti anch'essa secondo la necessità politica.

"Così l'uomo in Hobbes si spezza in due, viene diviso in una metà privata e in una metà pubblica: azione ed opere sono incondizionatamente subordinate alle leggi dello Stato, l'opinione invece è libera, «in segreto». Da qui in poi sarà possibile all'uomo rifugiarsi nell'opinione senza doverne rendere conto. Nella misura in cui partecipò al mondo della politica, la coscienza divenne l'istanza di controllo del dovere d'obbedienza. (…) Se invece l'individuo si arroga una competenza che lo Stato riserva a se stesso, deve mascherarla per non essere chiamato alla resa dei conti.  La scissione dell'uomo tra il campo privato e quello statale è fondamentale per la genesi del segreto. L'Illuminismo allargherà successivamente lo spazio interno dell'opinione, ma qualsiasi pretesa avanzata dallo Stato resterà automaticamente avvolta dal velo del segreto.  La dialettica tra segreto e Illuminismo, tra smascheramento e mistificazione si trova già alla radice dello Stato assoluto. È l'eredita delle lotte di religione, che con la dualità consapevolmente accettata fece il suo ingresso nel principio dello Stato assolutistico." (pp. 37-38).

 

È chiaro, a questo punto - a grandi linee - lo schema interpretativo proposto dallo studioso tedesco. La società è minacciata continuamente dallo scoppio della guerra civile, stante la natura ferina dell'uomo e la sua aggressività innata nei confronti dei propri simili (homo homini lupus). La concezione dell'assolutismo nasce appunto dall'esperienza della guerre civili del tardo Cinquecento in Francia e del primo Seicento in Inghilterra; per porvi un argine, anzi per renderne impossibile la ripresa, si invoca e si teorizza lo Stato "Leviatano", diretto da un'unica volontà e forte abbastanza per incutere terrore ai violenti e costringere ciascuno al rispetto dei propri simili: non in nome di un principio morale superiore e assoluto, ma in nome dell'onnipotenza della legge. Sulla scia di Machiavelli, morale e politica si separano per sempre; però, se la morale ammessa dallo Stato e controllata dalla coscienza è quella dell'obbedienza alla politica, le opinioni personali dei sudditi devono per forza venir relegate in interiore homine, mimetizzarsi, occultarsi.. Da questa frattura nasce un dualismo: come Cartesio ha tenuto a battesimo il dualismo di res cogitans e res extensa, così Hobbes tiene a battesimo il dualismo di  publicus e privatus, di obbedienza formale alle leggi dello Stato e di libero pensiero coltivato in segreto, come una colpa ma anche come l'unico mezzo per conservare integra la propria dignità di soggetto dotato di libero arbitrio.

Nasce un nuovo tipo umano, doppio, astuto, dissimulatore, ossequiente nei confronti dello Stato ma, al tempo stesso, animato da una segreta avversione, da un odio profondo verso di esso, tanto più forte quanto più costretto a dissimularsi e a nascondersi nell'ombra. Ed ecco prendere corpo, come frutto di questa scissione e di questa frustrazione, la propensione al segreto e, contemporaneamente, a una radicale riforma della politica: i due elementi che sono alle origini del fenomeno della Massoneria e di quello degli Illuminati di Baviera. Si trattava, in sostanza, di un rifiuto dello Stato, divenuto troppo potente e coercitivo, in nome di un ritorno al rango di uomini liberi; di un innalzamento morale e politico da sudditi a cittadini - non cittadini di questo o quello Stato, perché lo Stato è divenuto un idolo da abbattere, ma cittadini del mondo: l'ideale cosmopolita proprio dell'Illuminismo maturo.

 

"La libertà dallo Stato esistente - più ancora della sua uguaglianza sociale - fu il vero e proprio elemento politico delle logge massoni. La legislazione interna delle logge, la loro libertà e indipendenza erano possibili soltanto in u campo che fosse sottratto all'influenza tanto delle istanze ecclesiastiche quanto all'intervento politico del potere statale esistente. Perciò fin dall'inizio il segreto ebbe funzione di rifiuto e di protezione. «I segreti e il silenzio - è detto esplicitamente nel 1738 in un protocollo supplementare della Loggia di Amburgo, la prima ad essere fondata su suolo tedesco- i segreti e il silenzio sono il mezzo principalissimo per affermarci e per affermare e  rafforzare il godimento della massoneria». Al posto della protezione dello Stato subentrò la protezione dallo Stato." (p. 88).

 

E così la separazione tra politica e morale porta in un primo tempo all'onnipotenza dello Stato, in un secondo tempo alla reazione contro quella onnipotenza e, quindi, al progetto di un potere efficace, ma occulto, in grado di proteggere l'individuo contro di essa e di allenarlo a un esercizio del potere effettivo, che si sappia celare abilmente fra le pieghe stesse dello Stato: una sorta di Antistato (l'espressione non è del Koselleck, ma nostra) che ricorda, nelle sue linee generali, il concetto odierno di lobby ovvero di centro decisionale occulto.

 

“Nel continente, due formazioni hanno dato n’impronta decisiva all’età dell’Illuminismo: la République des lettres e le logge della Massoneria. L’Illuminismo e il segreto appaiono fin dall’inizio una coppia storica.” (pp. 77-78).

 

Il mistero, caratteristico delle logge massoniche e, in genere, delle società segrete, svolse una funzione notevole nell’attrarre nuovi adepti, in una vasta operazione che vide la borghesia “arruolare” numerosi esponenti del ceto aristocratico; esso fu quasi una versione moderna degli antichi Misteri eleusini, e la Massoneria ricorda per certi aspetti (sono sempre paragoni nostri) la setta orfico-pitagorica. Il giuramento di mantenere il segreto si accompagna a una forte volontà di rinnovamento spirituale della società, grazie ad una élite di saggi o “illuminati” che sanno interpretare gli autentici bisogni dell’uomo (ci par di avere già sentito simili concetti nella storia contemporanea; Lenin sarebbe dunque figlio adottivo di Lessing?). Scrive ancora Koselleck:

 

“Il mistero delle logge prima ancora che nei contenuti consistette nell’aureola che da esso si irradiava. Il segreto prometteva la partecipazione ad una nuova vita, migliore ancora sconosciuta. L’iniziazione significava «la scoperta di un nuovo mondo celato all’interno di quello antico».” (Adam Weishaupt, figura-chiave degli Illuminati di Baviera).

 

Quanto allo scopo ultimo della Massoneria, che - nota Koselleck - non dovevano essere apertamente rivelati al pubblico e nemmeno agli iniziati di grado inferiore, esso esisteva  nel rendere superflua, per quanto possibile, l’esistenza stessa degli Stati. Per Koselleck, la Massoneria non è affatto un aspetto marginale dell’Illuminismo, ne è la vera essenza, perché è l’essenza dello spirito borghese. All’interno delle logge, l’uomo non era più il suddito sottoposto al potere dello Stato, ma un uomo tra gli uomini, libero di  progettare e di operare al di fuori dello Stato. Riallacciandosi, in un certo senso, alla tradizione dei Templari, dei Rosa Croce e dei Filateti, i membri delle logge speravano di illuminare e riscattare l’uomo; ma, se quelli avevano fatto leva sulle scienze occulte, i massoni fanno leva sui “lumi” della ragione naturale. Scrive Lessing (citato a p. 87 e a p. 146) che

 

“Per sua natura, la massoneria è tanto antica quanto la società borghese.  Entrambe non potevano che nascere contemporaneamente, se addirittura la società borghese non è un rampollo della massoneria. (…)La massoneria non è niente di arbitrario, niente di inutile, ma qualcosa di necessario, che è fondato sull’essenza dell’uomo e sulla società borghese.”

 

Apolitico in senso stretto, perché mirante a vivere una vita del tutto indipendente da quella dello Stato, il massone è politico in senso ampio e indiretto, perché la sua teorizzazione di una istanza morale superiore a quella dello Stato (la “felicità”), e nella quale lo Stato trova eventualmente la sua unica giustificazione, è potenzialmente rivoluzionaria.

Curiosamente, infatti, per Koselleck, l’assolutismo compie una sorta di suicidio allorché Turgot, il potente ministro di Luigi XVI, afferma che “tutto ciò che danneggia la società è soggetto al tribunale della coscienza”, perché in questo modo le basi ideologiche dell’assolutismo, fissate da Hobbes, vengono rovesciate. La fonte del diritto diviene la coscienza, cioè l’istanza morale, e non più il potere dominante in quanto tale; mentre per Hobbes il potere si autogiustificava e diveniva soggetto di diritto, proprio in virtù di una istanza politica: quella di impedire la guerra civile. In Hobbes la morale è soggetta alla politica, in Turgot la politica è soggetta alla morale. Il sovrano assoluto si muove entro i confini che gli pone un diritto derivato dalla morale. Il re assoluto diviene l’esecutore di una giustizia assolutamente morale. Se egli, invece, dovesse agire contro le leggi della coscienza morale e contro i diritti dell’umanità, la sua legittima autorità decadrebbe automaticamente.

L’immoralità dei governi, dunque, giustifica la rivolta: Rousseau batte alle porte, e il suo discepolo Robespierre saprà trarne le logiche conseguenze. Il vizio non ha diritto di esistere, esso è intimamente contrario alla natura umana e inevitabilmente contro-rivoluzionario. La morale (della borghesia, della massoneria, degli illuministi) è divenuta l’unica fonte di legittimazione del potere: un potere che non vi si sottometta non è altro che un disordine costituito, così come un sovrano che non governi nell’interesse del bene collettivo è “uno schiavo ribelle” che merita l’eliminazione non solo politica, ma altresì fisica. Si va verso il totalitarismo etico, verso la “dittatura della virtù” e (sono sempre conclusioni nostre) verso la “santa ghigliottina” del 1793-94.

 

"La volontà una e incondizionata, cui veniva ricondotta la decisione sovrana del signore assoluto,  fu da Rousseau rivendicata alla società. Il risultato è la volontà generale assoluta, che si dà da sé la legge. Il signore visibile, condannato alla corruzione in quanto  portatore del potere, viene detronizzato , ma la volontà sovrana è mantenuta come principio della decisione politica. Essa viene consegnata ad una società che in quanto società non piò affatto disporre di questa volontà. Infatti la somma di individui  dotati di volontà non dà una volontà globale, così come la somma di singoli interessi non dà un interesse globale. Semmai la volonté générale è l'emanazione di una totalità, l'espressione del popolo-Stato che soltanto con questa volontà si costituisce in popolo-Stato. Il paradosso logico di Hobbes, che lo Stato poggia su un contratto ma poi continua ad esistere come grandezza autonoma, era politicamente realizzabile perché in tal modo veniva lasciata libera la volontà sovrana del signore che rappresentava lo Stato. Ma il paradosso di Rousseau, che il popolo-Stato ha una volontà generale  grazie alla quale diviene popolo-Stato, dal punto di vista politico non è direttamente realizzabile: esso suppone libera una volontà che per prima cosa non ha nessuno che la realizzi. Non delegabile, non rappresentabile, la volontà considerata sovrana scompare nell'invisibile. L'identità tra lo Stato e la società, tra l'istanza decisionale sovrana e la totalità dei cittadini è condannata a priori a rimanere un mistero.

"La volontà pura in quanto tale, che è essa stessa meta della sua realizzazione, è la vera sovrana. La metafisica della rivoluzione permanente è in tal modo anticipata. Il risultato è lo Stato totale. Esso poggia sulla supposta identità tra morale borghese e decisione sovrana. Ogni manifestazione di volontà della totalità è una legge generale, perché può intendere soltanto la propria totalità. Sopra lo Stato popolare regna la volonté générale, la volontà comune assoluta, che non conosce eccezioni. Soltanto grazie alla sua esistenza questo sovrano è sempre ciò che deve essere, e lo è sempre in modo totale. La volontà generale assoluta che non conosce eccezioni è l'eccezione e basta.

"La sovranità di Rousseau si rivela così una dittatura permanente. Essa ha la medesima origine della rivoluzione permanente, in cui si è trasformato il suo Stato. Le funzioni della dittatura vengono assolte da colui che riesce a realizzare la volontà generale ipostatizzata. La presupposta volonté générale in quanto nuovo principio politico trasforma in nodo radicale il portatore di tale principio, cioè la società. Questa viene statalizzata trasformandosi in collettività. La collettività scaturisce dalla somma degli individui dopo che questi hanno assorbito lo Stato che li ha dapprima fatti nascere come individui politici. Lo Stato popolare, la collettività che governa se stessa, presuppone insomma la volontà generale, così come questa si fonda su una collettività che in precedenza ha essa stessa creato. Spiegando l'una grandezza con l'altra, Rousseau può far apparire la postulata unità di entrambe come una realtà in sé conchiusa. Ma questa totalità razionale ha una fessura attraverso la quale trapela la fattualità pura e semplice. Il cittadino ottiene la sua libertà soltanto se partecipa  alla volontà globale, ma come uomo questo cittadino non può mai sapere quando e come il suo io interno si fonde con la volontà globale. Gli individui possono sbagliare, la volonté générale mai. La totalità razionale della collettività e della sua volonté générale impongono perciò una costante correzione della realtà, cioè degli indivisui viventi che non sono ancora entrati nella collettività. Realizzare questa correzione della realtà è compito della dittatura." (pp. 206-207).

 

Questo passaggio è particolarmente significativo perché, ricollegando Rousseau a Trotzkij e la "volontà generale" alla rivoluzione permanente, mostra che il XIX e il XX secolo non hanno  inventato proprio niente, ma hanno semplicemente portato alle estreme conseguenze i presupposti impliciti nella morale totalitaria della borghesia illuminista permeata di spirito massonico; o, se si preferisce, della massoneria permeata di spirito borghese. I gulag e i campi di concentramento sono gli eredi diretti della ghigliottina e della repressione della Vandea; e le purghe staliniane stanno al terrore giacobino, così come il giustizialismo spiccio degli enragés precorre Guantanamo e la "guerra infinita" di Bush del Bene contro il Male. In ciascuno di questi casi si trattava e si tratta di far trionfare l'unica verità e l'unica morale possibile, quella della volontà generale, contro quelle forze che - vengano esse dall'alto o dal basso, residui del passato o embrioni del futuro - esprimono interessi e finalità disgiunti dalla società collettivizzata e dalla supposta volontà globale.

Il problema - aggiungiamo noi - è appunto che tale volontà globale, in realtà, non è così globale come vorrebbero far credere i suoi teorizzatori, Si tratta pur sempre di un'ideologia nel senso marxiano, e deteriore, del termine: ossia della concezione politica di una classe che si spaccia per concezione politica dell'intera società. Mutatis mutandis, è ancora il pensiero politico della borghesia che, da Locke a Montesquieu, da Rossseau a Robespierre, si prolunga fino ai giorni nostri. Mussolini, Hitler, Stalin erano tutti figli della piccola borghesia e i sistemi politici da essi creati spacciavano delle ideologie nate nell'ambito del ceto medio per la volontà generale. Nella seconda metà del Novecento e, più ancora, dopo la dissoluzione dell'URSS e la fine della "guerra fredda", la borghesia è divenuta la detentrice assoluta del potere mondiale e si appresta a difendere con le unghie e coi denti la posizione raggiunta. I suoi grandi nemici sono all'interno i cittadini che rifiutano di integrarsi ideologicamente o materialmente nella collettività e, all'esterno, il proletariato asiatico, africano e latino americano, la cui punta di diamante è costituita, attualmente, dal cosiddetto integralismo islamico.

Tuttavia, non è il caso di farsi illusioni. La logica della rivoluzione permanente essendo metafisica, non giungerà mai il momento in cui l'ultimo nemico verrà distrutto: sempre la borghesia dovrà creare un nuovo avversario per legittimare l'uso della forza da parte degli strumenti preposti ad imporre il rispetto della volontà generale. Ci sarà sempre un cow-boy texano di turno a indossare i pani dello Sceriffo universale, e ci sarà sempre un Bin Laden di turno a vestire i panni del cattivo "assoluto" per legittimare e rendere credibile tale uso della forza. E ciò - lo abbiamo già visto, e più volte - in una girandola senza fine, nella quale gli amici e i portabandiera della volontà generale diventano a loro volta i malvagi e i tiranni che ad essa si oppongono e che vanno perciò sterminati senza pietà. Trotzkij, grande teorico della rivoluzione permanente, diventa nell'URSS di Stalin il nemico pubblico numero uno, responsabile di ogni misfatto contro-rivoluzionario e perciò reo di morte: la sentenza viene eseguita a Città del Messico da sicari di Stalin che agiscono come emissari della volontà generale del popolo sovietico. Saddam Hussein, il prezioso alleato degli USA nel conflitto contro l'integralismo khomeinista negli anni '80 del Novecento, un decennio dopo è divenuto il grande nemico della pace e della sicurezza e perciò reo di morte: la sentenza viene eseguita in una Baghdad asservita agli Americani e stravolta da una violenza quotidiana che fa impallidire le loro  promesse di pace e benessere con le quali avevano giustificato l'aggressione all'Iraq del 2003.

Si potrebbe ricordare che sia il regime di Mussolini, sia quello di Hitler vennero inizialmente guardati con favore dai poteri forti della finanza e della politica occidentale, che non mancarono di sostenerne e favorirne l'ascesa; salvo, poi, scorgere in essi i peggiori pericoli per la sicurezza e per la pace mondiale. Nel processo di Norimberga, infine, si vide come la volontà generale volle trascendere i confini del popolo-Stato per imporre una morale globale internazionale, e ciò produsse il curioso spettacolo dei giudici sovietici - quelli stessi che avevano mandato a morte o nei gulag, durante le purghe, milioni di loro concittadini - condannare ora a morte, in nome dell'etica totale, i capi del Terzo Reich. Accanto a loro sedevano pure i giudici americani, che non avevano trovato nulla di moralmente discutibile nell'impiego della bomba atomica su due inermi città giapponesi piene di vecchi, donne e bambini; e quelli britannici, che non avevano fiatato quando Churchill, per fredda e deliberata malvagità, aveva fatto radere al suolo Dresda e le altre città tedesche nell'ultima fase della guerra, fuori da ogni utilità di carattere strategico-militare, trasformando in torce umane, mediante l'uso di bombe incendiarie, centinaia di migliaia di esseri viventi. E si potrebbe continuare a lungo con analoghi esempi.

Tuttavia, crediamo che sia sufficiente. Ci basta aver messo in evidenza come il principio della volontà generale, versione laica e immanente delle religioni che avevano ispirato le concezioni politiche pre-moderne, per l'ambiguità della sua stessa natura - non delegabile, non rappresentabile, in ultima istanza inesprimibile come lo è il concetto divino del giudaismo - non può non portare all'ipocrisia del suo uso strumentale e alle aberrazioni della sua violenza totalitaria.

 

Come si potrebbe uscire da un tale circolo vizioso? A nostro avviso, solo mediante la rinuncia a  subordinare l'individuo alla collettività e con una rifondazione del valore intrinseco della persona, che è soggetto di diritti naturali anche anteriormente, o indipendentemente, dal fatto di integrarsi nella supposta volontà generale. Si tratta, in ultima analisi, di demistificare il paradosso della modernità, la quale, dopo aver divinizzato l'idea di progresso, è costretta dagli automatismi che essa produce a rincorrere il fantasma di una legge sempre più generale e sempre più totalizzante. Ma, per realizzare una simile demistificazione, bisognerebbe rifondare il rapporto metafisico tra gli essenti e l'Essere, tra le persone finite e la Persona Infinita: perché solo da una morale che poggi le sue basi su una verità extra-umana e superiore all'umana, l'uomo - insieme a tutte le altre creature, soggette anch'esse di diritti naturali - può sfuggire alla tentazione di deificare la propria stessa morale, dimenticandosi che essa è sempre espressione di un gruppo, una classe o una civiltà e mai veramente universale. E se anche potesse divenire universale, per mezzo di un atto di forza planetario - il Nuovo Ordine Mondiale auspicato al gruppo Bildberg e da altri poteri occulti? - un'etica puramente laica e immanente non potrebbe che tradire la profonda, strutturale esigenza della natura umana di trascendersi e di cercare il proprio completamento e la propria realizzazione ultima in una realtà che eccede la dimensione del contingente, per puntare verso l'Assoluto.