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Bestie

di Linnio Accorroni - 25/11/2007

 

Una città come questa non è per viverci, in fondo: piuttosto
si cammina vicino a certi muri,
si passa in certi vicoli (non lontani
dal luogo del supplizio) e parlando
con la voce nel naso
avidi, frettolosi si domanda: non è qui
che buttavano i loro cartocci gli untori?
G. Raboni


Siamo più o meno una quindicina. Colti, benestanti, tolleranti e democratici, ben vestiti e profumati: uomini e donne, tra i diciotto e i cinquanta. Abbiamo belle auto, ci piace mangiare bene. Siamo appassionati di letteratura, cinema, musica, teatro. Ci riuniamo, una volta per settimana, per parlare di libri o per vedere insieme un film: siamo gentili, raffinati, educati anche negli interventi. Aspettiamo pazientemente il nostro turno, attendiamo che il nostro interlocutore finisca di parlare e riflettiamo, con lucida passionalità, sulla bontà delle idee altrui. Se ci capita di sovrapporre la nostra voce a quella dell’altro, è per un eccesso di fervore, non per emulazione della rissa televisiva che tutti vituperiamo. Il centro polivalente che ci ospita è posto appena fuori dalle mura cittadine: ha volte larghe e ampie, un soffitto arcuato e alto, con grandi simmetriche finestre che s’abbeverano di luce e inquadrano fotogrammi di un paesaggio che conserva ancora qualche precaria traccia di una bellezza primigenia, non del tutto devastato dalla cementificazione e dall’asfalto.

Se voltiamo lo sguardo ai lati possiamo vedere, infissi a distanza regolare, degli anelli di ferro: lì le bestie da macello venivano legate prima dell’esecuzione finale. Lì, legate com’erano, potevano contemplare ciò che stava accadendo ai loro simili e ciò che sarebbe loro accaduto, in un breve giro di tempo: una pausa di pochi secondi o di pochi minuti attendendo il loro turno, fra un massacro e l’altro. Se alziamo la testa verso il soffitto, vediamo ancora i buchi a cui erano attaccati i ganci: lì, le bestie venivano appese dopo l’esecuzione. Immagino i loro occhi spalancati e acquosi, la bava bianca, ai lati della bocca, irta di piccole bolle, la puzza degli enormi escrementi, il sangue, i muggiti, il dolore, la ferocia, il massacro, l’impassibile freddezza dei volenterosi carnefici. C’è una sequenza
Come ci spiega lo storico Enzo Traverso, nel suo saggio La violenza nazista. Una genealogia, la razionalizzazione dei mattatoi avvenne nella seconda metà dell’800: se prima infatti erano situati dentro la città, nel suo cuore (un tempo, nella macellazione, la dimensione del sacrificio e della festa si fondevano inestricabilmente: la carne significa un provvisorio congedo dalla miseria e dalla fame), a partire dal XIX secolo vennero collocati extra moenia, concentrati e ridotti, basati su di un funzionamento che assomigliava a quello della razionalizzazione tayloristica della fabbrica: concentramento nelle stalle, ammazzamento, svisceramento, recupero e trattamento dei resti. Lo scrittore americano Upton Sinclair, aggiornando Weber, scriveva nel suo La giungla che i mattatoi di Chicago erano “come il Gran Macellaio: l’incarnazione dello spirito del Capitalismo”. Il carattere metodico e pianificato del dispositivo di ammazzamento, l’organizzazione geometrica e ultrarazionale dello spazio, l’intuizione tragica che i morituri fossero costretti a vedere ciò che sarebbe stato di loro di lì a poco (un’anteprima crudele e angosciosa che nessuna ‘logica produttiva’ giustificava), ci porta direttamente dalle parti di quei macelli per esseri umani, che erano i lager nazisti. Anch’essi, del resto, come i mattatoi, dovevano essere lontani dagli sguardi della gente, anch’essi erano segmentati in varie tappe nettamente distinte: concentramento, deportazione, spoliazione dei beni delle vittime, recupero di alcune parti dei loro corpi, massificazione e cremazione dei cadaveri che somigliavano, nella concentrata efficacia di una rigida scansione, al percorso pianificato e allucinato di morte che veniva realizzato nei mattatoi.

La settimana scorsa, un giorno dopo l’altro, sullo stesso quotidiano (“Il Corriere della Sera”), due grandi firme del giornalismo e della cultura italiana hanno parlato, con toni di empatica condivisione, della sofferenza animale: prima Raffaele La Capria, prendendo spunto da un libro di Margherita d’Amico (La pelle dell’orso, Mondadori), poi Claudio Magris, il 16 novembre. In quest’ultimo caso il libro era Un po’ di compassione di Rosa Luxembourg, un Adelphi che, oltre alla lettera scritta dall’autrice poco prima di venire ‘giustiziata’, racchiude altre testimonianze e riflessioni di scrittori sul dolore animale. Curioso il lapsus riportato nel titolo che campeggia sull’articolo di La Capria: “Se l’umanità diventa bestiale”. Un classico esempio di rovesciamento antropocentrista in cui, nonostante il contenuto dell’articolo dimostri esattamente il contrario, al mondo animale continuano a essere attribuite quelle caratteristiche di ferocia insensata, di crudeltà folle e smisurata, di sadico voyeurismo che sono nostra esclusiva e non degli animali.