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Istantanea di Raimon Pannikar

di Ricardo R. Laudato - 27/12/2005

Fonte: gianfrancobertagni.it

 

Pennellate invitanti

Incontrai Panikkar in casa sua, una villa stupenda, affacciata su un pendio ripido e imponente (“cingles” in catalano) che permette di vedere la vastissima estensione del fondovalle. In autunno il precipizio appare sempre avvolto da una nebbia fitta accompagnata da una pioggia sottile, testarda, nordica. Tra il burrone e la nebbia, la dimora di Panikkar eclissa l’archetipo borgesiano della Biblioteca di Babele: tra i titoli multietnici si indovina la presenza di un locus amoenus adatto allo studio e alla meditazione. Le impressioni lasciate di quelle cinque ore ininterrotte di conversazione su Fatone (2) e temi affini sono innumerevoli e ciò risulta naturale se si pensa che Panikkar è uno degli ultimi esseri umani in cui tanto le conoscenze quanto il tempo sono parti costituenti dell’essere.

 

Le maschere di quel personaggio pubblico che è Panikkar non si possono descrivere in poche parole. Da una parte, i suoi quasi 83 anni rendevano più impressionante l’agilità mentale del pensatore: lo vidi commentare le bozze di un suo nuovo libro con alcuni membri di Vivarium (professori, intellettuali)  (3) e rimasi meravigliato dalla sua padronanza del dialogo e dal suo umorismo pungente e a volte un po’ acerbo (ma invariabilmente salace). D’altra parte, suppongo che gli anni di sacerdozio abbiano dato a Panikkar quell’equilibrio tra due tendenze temperamentali proprie di un certo tipo psicologico mediterraneo: l’alacrità verbale (nell’utilizzo delle lingue e delle idee) e la scaltrezza dell’uomo di mondo. Panikkar “la sa lunghissima”, e a mio avviso è riuscito ad amalgamare certi richiami della vita quotidiana con certe esigenze della vita monastica. Forse questo equilibrio non si accorda con le presunzioni del mondo contemporaneo; ma penso che gli sia riuscito magistralmente. In effetti, da meridionale accorto, Panikkar non può essere altro che un Janus bifrons.

Janus bifrons

In verità Panikkar è al contempo un catalano e un indiano, e questo fatto avrebbe dovuto far riflettere gli studiosi della cultura. Come mai un catalano può sentirsi a suo agio tra gli indiani quando “gli indiani” sono un insieme di razze e popoli diversi che peraltro non condividono nemmeno una lingua? Non basta accennare all’origine indiana del padre data l’esistenza del fratello, Salvador Pániker, scrittore, pensatore, proprietario della Casa Editrice Kairós e proponente della legalizzazione dell’eutanasia, il quale pare che non solo abbia romanizzato il suo cognome ma abbia anche schernito pubblicamente le scelte esistenziali del fratello teologo. Lasciando da parte i parametri emotivi di un lessico familiare, il quesito si dovrebbe avviare su criteri più antropologici che individuali. Come mai un catalano cresciuto secondo i principi razionalistici di una cultura urbana (c’è una città più squisitamente borghese - da “borgo”- di Barcellona?) può diventare un uomo che sente pensa e agisce secondo i principi intuitivamente intellettuali di una civiltà - insieme di culture - “pagana” (da “pagus”) come quella sviluppatasi in India?

La risposta appartiene allo sfondo comune dell’essere umano. Panikkar è semplicemente un vero uomo (almeno come immagino io gli uomini di una volta); un’anima viva, che sa godersi la vita suggendo la linfa vitale dalle diverse morti che tutti dobbiamo superare (una volta che abbiamo assaporato intellettualmente la vita). Uno solo è il compito del vero uomo: concertare il dissenso delle voci che spifferano tra le fessure del cuore.

Uomo magro e piccolo, di parvenza alquanto fragile (un Gandhi catalano), Panikkar è tuttavia capace di fissare sull’interlocutore uno sguardo vigoroso e penetrante mentre svolge la sua coloritura verbale e argomentativa, senza imposizioni né parole d’ordine. Nondimeno, paradossalmente, questo primo passo verso il silenzio può risultare fuorviante. Panikkar è, indubbiamente, un ometto imponente, ma l’imponenza dell’uomo pubblico viene spezzata ogni tanto da una certa disarmonia tra gesti e parole da una parte e il suo sguardo dall’altra. “Disarmonia”, in quale senso? Panikkar è capace di parlare con entusiasmo, con veemenza senza cadere nel soliloquio o nell’ammonimento, cioè prova a conversare con gli altri e attende la risposta dell’interlocutore consapevole delle imboscate del linguaggio. Ma all’improvviso, è facile percepire che il suo sguardo si allontana fulmineo dai gesti che scortano il discorrere della mente, palesando per conto suo un salto indietro delle potenze.

La conversazione di Panikkar, il suo sorriso e i suoi gesti sono spontaneamente sociali e cordiali; anzi a volte risultano fraterni e affettuosi senza previe condizioni; tuttavia il suo sguardo non si lascia mai trascinare dalle convenzioni né dai sentimenti fraterni né dal rispetto dovuto all’individuo. Ogni tanto, quasi in maniera fulminante, i suoi occhi diventano di una durezza adamantina senza ragione manifesta; ecco il salto indietro, naturale e impulsivo, verso il sancta sanctorum della coscienza. Ed ecco anche il nocciolo più esteriore del personaggio: lo sguardo del Panikkar pubblico rivela la presenza di un altro Panikkar più irraggiungibile e meno bonario, meno loquace e più sommerso nella maestà del silenzio. Perciò, sarebbe un’impresa ciclopica descrivere tutte le maschere dei personaggi pubblici che è Panikkar; ma sarebbe infinitamente più arduo fare un commento su quell’altro Panikkar; sul Panikkar che istiga alla distorsione della sua figura, distorsione emanata dalle opinioni contrastanti sulla sua persona.

C’è un canto dentro di me

In effetti, durante il mio soggiorno catalano, la menzione di Raimon Panikkar destava reazioni colorite ma sempre sottovoce: un mormorio, un bisbiglio leggero ma persistente. Mettendo da parte il fastidioso rumore dei particolari, le critiche vanno condensate in questa frase di Salvador Pániker, rivolta pubblicamente al fratello: “eres el hombre menos desnudo que conozco” (4) (se la mia memoria è fedele). D’altro canto, e di fronte ad una figura pubblica di questa portata, certamente non mancano giudizi laudatori, alcuni veramente inconsueti. Il miglior esempio in questo senso potrebbe essere l’asserto di Silvano Panunzio, tratto da un suo saggio, dove si discute la necessità di un essere come Panikkar per il mondo:

(...) secondo gli indù, un occidentale che disponesse di ‘talento metafisico’ non può essere realmente un occidentale: egli (Panikkar, ovviamente) è un indù che è ridisceso tra i barbari per illuminarli ed elevarli.  (5)

Di proposito la mira fende l’immagine trasformando la bifrontalità nel baratro di contrasti logici: mancanza di nudità e talento metafisico. Esisterebbe una maniera di accordare queste intuizioni contrapposte? La questione sembra irrilevante. Un labirinto di specchi può fuorviare solo quelli che ne ignorano il disegno e vengono sempre più affascinati dalla molteplicità dei riflessi. Del resto, siccome ignoro effettivamente questo particolare disegno, non posso permettermi congetture molto profonde; posso comunque azzardare una prima ipotesi basilare non troppo rischiosa.

L’ipotesi è legata all’isolamento attuale e inevitabile d’ogni uomo dotato di talento metafisico. Panikkar non è una eccezione, è la regola; è un uomo isolato per forza (tra le tantissime persone che gli girano attorno) come accade a tutti quelli che, senza badare al canto delle sirene ideologiche che risuonano da più o meno trecento anni tra di noi, hanno accettato seriamente le relative imposizioni di Mâyâ in ogni campo della prassi cosmica. Non a caso, il perno della sua laboriosità intellettuale si trova nell’espressione “esperienza cosmoteandrica”. Secondo il ritmo dei tempi, quindi, Panikkar subisce l’isolamento riservato dalla meschinità e dalla pusillanimità a quelli che ancora sono in grado di spargere i doni della carità e della generosità. In realtà, la storia non è stata compagna di Panikkar esattamente come non lo è stata di un altro paio di veri uomini che ho avuto il privilegio di conoscere o di studiare. Basti pensare che, bambino cresciuto alle soglie di una civiltà oggi scomparsa, di una civiltà in punto di morte - ma civiltà ancora -, oggi Panikkar è invece un naufrago sano e salvo, una sensibilità e un’intelligenza superstiti che attraversano le rovine cantando un canto antico, incomprensibile, un canto che “non può adagiarsi in nessuna forma e che spezzerebbe qualsiasi linguaggio | un canto che nessuno potrebbe ascoltare senza che la sua anima fosse sgomenta dalla sorpresa e ricolorata da un altro sole”, come diceva un vecchio poema dimenticato. (6)

Questa situazione non sarebbe affatto anormale se la storia medesima non porgesse una sfida al naufrago; la sfinge funesta di altri tempi compare ormai sotto la forma dell’isolamento. L’enigma proposto dalla sfinge si può formulare entro i limiti di un simbolismo musicale-animale (ricordando Marius Schneider): come mai si avvera oggi che le aquile siano solo capaci di emettere spontaneamente sibili di serpenti? Entro i confini di un linguaggio moralizzatore, la formulazione del quesito semplifica troppo il gioco dei mondi: come mai il canto del naufrago, quel silenzio cantatore, può solo evocare la vigliaccheria nei cuori altrui? Purtroppo, l’enigma della sfinge non è altro che una delle giocate della Mâyâ prestidigitatrice, quel tangibile indebolimento dei ritmi interiori che forniscono l’unica fonte di lealtà nel mondo sublunare. La mestizia del Buddha morente e la disperazione del Cristo sul Monte degli Ulivi, la partenza definitiva di Laozi e la crocifissione di al-Hallāj sono esempi troppo sconvolgenti per insistere sui motivi ricorrenti di questa conturbante economia del cosmo.

Lo stile è l’uomo

Di conseguenza, la disarmonia tra il personaggio pubblico e la fonte che la instilla non risulta anormale; sarebbe la sfida logica imposta dal silenzio dei silenzi. Anzi, postulare che Panikkar è un naufrago non può affatto stupire, dato che la proposta offre una delle chiavi che spiegano la varietà, il volume e la profondità della sua opera. Uno dei tratti più evidenti dei suoi scritti è l’ansia di comunicare con il lettore. Sia la minuziosità pertinente delle spiegazioni che la forma dialogica della prosa, sia la varietà di temi e argomenti che l’interesse multiculturale, sono l’indizio sicuro dell’intenzione dell’autore: rendere evidente che l’unico atteggiamento peccaminoso è l’irrigidimento dell’intelligenza e l’inasprimento della responsabilità che ogni essere umano ha di fronte alle esigenze della coscienza, cioè al fatto di essere consapevoli di essere consci. Panikkar scrive e riscrive, modula, aggiunge e rispiega, in una parola, trita, schiaccia e riduce argomenti e argomenti con quell’unico scopo. Solo un naufrago, solo uno che è già andato oltre la strage può impegnare le sue forze a rendere evidente che solo la generosità è l’asse dei mondi.

L’opera di Panikkar è la sua maniera personale di comprendere il suo compromesso pubblico con il silenzio dei silenzi. Ritengo che il discutere con Panikkar, su ogni tipo di argomenti, deve essere una esperienza preziosa, indimenticabile, trasumanante. E giustamente ciò che rende trasumanante quella esperienza è proprio la menzionata disarmonia. Ovviamente, del suo impegno intimo col silenzio dei silenzi non si dà conoscenza oltre i limiti imposti dai tratti percepibili della personalità pubblica. Ma proprio quella impossibilità diventa la sfida per qualsiasi altra anima viva; incontrare un Proteo dell’intelligenza può essere incontrare “un uomo meno nudo” di altri uomini, giacché si tratta di uomo che campa in virtù della nudità. Indubbiamente, un incontro permanente con Panikkar può assolutamente diventare la realizzazione di quel richiamo permanente dell’universo: avere il coraggio di “vestirci di cielo” superando per sempre i furbissimi ghiribizzi del grande teatro del mondo.

[2000] 

 

 


(1) Raimon Panikkar, nato a Barcellona  nel 1918 da madre spagnola cattolica e da padre indiano di religione indù, si laureò in chimica, filosofia e teologia, e divenne prete cattolico nel 1946. Ha tenuto corsi e lezioni in molte università europee, asiatiche e americane. Oggi vive a Tavertet, vicino a Barcellona, nella Catalogna dov'è nato. Per maggiori ragguagli, cfr.nella pagina web http://www.estovest.org/ecosofia/panikkar.html la nota biografica dell'articolo di Paolo Vicentini "Panikkar e la crisi del mondo moderno".

(2) Dell'argentino Vicente Fatone (1903-1962), nell'eccellente studio di Ricardo R. Laudato: Vicente Fatone: un letrado cumplido en América, vien detto che «fue tal vez el primer latinoamericano, nacido en Argentina, dedicado honradamente al encuentro de Oriente y Occidente» [«fu forse il primo latinoamericano nato in Argentina che si dedicasse con serietà all'incontro di Oriente e Occidente»].

(3) Centro studi interculturale fondato da Panikkar.

(4) "Sei l'uomo meno nudo che conosco".

(5) da: Silvano Panunzio, Pax Profunda (L'universalità come pace e la pace come  universalità), in: Miquel Siguan (curatore), Philosophia pacis, Homenaje a Raimon Panikkar,  Editorial Símbolo, Madrid, 1989, p.165.
(6) da: C'è un canto dentro di me, in: Giovanni Papini, Cento pagine di poesia, 1915.