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La montagna è un essere vivente dotato di anima e volontà?

di Francesco Lamendola - 26/11/2007

 

Il Monte Bivera, nel cuore delle Alpi Carniche, non è molto alto (m. 2.473) ma dalla sua cima, raggiungibile in circa quattro ore di marcia partendo da Sauris di Sopra, si gode di un panorama stupendo, purché si abbia la fortuna di giungervi col favore di una bella giornata (anche in piena estate, infatti, questa zona è frequentemente innaffiata dalle piogge). Sotto i raggi del Sole, l'occhio può vagare liberamente dalla catena dei Tauri a quella delle Alpi Tridentine e spingersi, verso mezzogiorno, fino al verde della  pianura e friulana e perfino intravedere il luccichio azzurrino della Laguna di Grado e del lontano Mare Adriatico. Anche il vicino Clap Savon (letteralmente, Sasso di Sapone; m. 2.462) è una meta interessante, mentre le acque di un verde-azzurro intenso del Lago di Sauris spiccano sulle mille gradazioni di verde delle vaste foreste di abeti circostanti, alternate alle macchie dei prati e dei pascoli.

L'ascensione al Bivera, in anni ormai lontani, ha rappresentato il nostro primo faccia a faccia con la montagna, e la nostra prima rivelazione di quel mondo incantato e infinitamente affascinante; ascensione e non "scalata", perché non presenta particolari difficoltà tecniche, ma richiede solo buone gambe e buoni polmoni e, pertanto, è la palestra ideale per un ragazzo alle sue prime esperienze alpinistiche. L'unico pericolo (oltre, come vedremo, quello dell'imprevisto) è legato, in effetti, ai frequenti capricci meteorologici: è possibile partire con il bel tempo e poi, giunti in vetta, trovarsi avvolti da banchi di nuvole e improvvisi piovaschi; allora le rocce diventano scivolose per l'acqua che scende in mille piccoli rivi e ciò può costituire un rischio da non sottovalutare.

Pare che le montagne, ad ogni modo, attirino irresistibilmente le persone portate al misticismo e fortemente incuriosite dal mistero: alpinisti di buon livello, fra gli altri, furono Julius Evola, Arturo Reghini e perfino il "mago" e occultista Aleister Crowley; e non parliamo di Francesco Petrarca e della sua storica ascensione al Monte Ventoso, in Provenza.  Ma anche fior di scienziati - quali geologi, botanici, zoologi, paleontologi-  hanno avvertito con prepotenza il richiamo delle altezze, e non solo per motivi strettamente professionali. Celebre è rimasta l'espressione del fisico e naturalista svizzero Horace Bénédict de Saussure (1740-1799), pioniere dell'apinismo scientifico: "Voglio levare i miei occhi ai monti", che sembra uscita dalla penna di un poeta.

Ma torniamo al Monte Bivera, che si innalza maestoso, pur non essendo molto alto, fra la valle superiore del fiume Tagliamento e il Rio Lumiei, con le sue nevi bianche e le sue rocce grigie che spiccano sopra il mantello degli abeti e dei larici. Appena due anni dopo la nostra ultima ascensione, esso fu teatro di una tragedia improvvisa e imprevedibile, che spezzò la vita di tre persone: ma per una di esse, condannata da un male incurabile, fu forse un evento provvidenziale e generoso; in ogni caso, si trattò di una di quelle vicende che la nostra parte razionale stenta ad accettare in tutte le sue possibili implicazioni. Le tre persone erano due giovani geologi, il bolognese Giulio Pisa e il milanese Riccardo Assereto; la terza era il figlio di quest'ultimo, un ragazzino appena undicenne. Era la fine dell'estate del 1976 e il destino aspettava i tre escursionisti in una giornata calma e in apparenza assolutamente tranquilla, sotto forma di una frana improvvisa e micidiale, che non lasciò loro alcuna possibilità di scampo.

Cediamo la parola alla geologa Silvia Metzeltin, che ha rievocato quella misteriosa vicenda in una pagina commossa e ispirata (sulla rivista Le Alpi Venete, Venezia, 1998, n. 1, pp. 57-59):

 

"(…) in montagna esistono anche storie non strettamente alpinistiche - benché sia difficile dire dove abbia inizio o termine quello che noi chiamiamo alpinismo - e si tratta di storie intime dei luoghi in rapporto con il destino umano.

"Perché non vada è perduta una di tali storie, vi propongo di seguirmi in questo racconto intorno al Monte Bivera, il quale come detto non offre grandi interessi per l'alpinismo, ma è situato nel cuore di un paesaggio dal particolare incanto, ed esprime una situazione geologica di grande interesse.(…)

"Il Monte Bivera non voleva mollare i segreti della sua storia geologica. Occorse ancora qualche anno e tutti avevano riunito le loro forze. Nel frattempo Pisa si trovò segnato da un destino angoscioso, che lo costrinse al confronto con una malattia incurabile. Cercava  di nascondere le sue preoccupazioni dietro gli interessi per la ricerca, e durante le uscite passava silenziosamente ad altri le pietanze preparategli dalla moglie perché il suo stomaco non le reggeva più. La sua fretta di concludere finalmente l'opera sul Monte Bivera cresceva.

"Per un'ultima estate docenti e studenti assediarono geologicamente la regione. Il quadro stratigrafico e paleogeografico stava per completarsi in serenità. I docenti volevano però lavorare senza pause, sfruttando ogni momento, e una mattina i due studenti di Milano che li seguivano per la tesi dichiararono forfait e decisero di concedersi un giorno di riposo. Fu la loro salvezza.

"Quel giorno a mezz'altezza delle falde del Monte Bivera, Giulio Pisa e Giorgio Assereto accompagnato dal figlio undicenne si erano seduti per prendere gli ultimi appunti sul libretto di campagna. Con una scarica di pietre, improvvisa e mirata, il monte li colpì alle spalle, scaraventandoli giù per un canalone, uccidendoli tutti. Le salme vennero ricomposte a Casera Razzo, che Pisa aveva profondamente amato. A lui il Monte Bivera non fece forse una grazia? Gli risparmiò le sofferenze di una morte per tumore ritenuta prossima, ma troncò con una terribile tragedia familiare la brillante carriera di Assereto.

"Ambedue i docenti non avevano ancora compiuto quarant'anni. Quando l'assistente rivelò che poco tempo prima Assereto aveva affermato di 'dover morire giovane', premonizione ovviamente ritenuta senza alcun fondamento ragionevole, la tragedia pose a ognuno interrogativi che vanno al di là del lutto e del compianto. Altrettanto ovviamente  non si può però credere che il Monte Bivera abbia un'anima sotto i colori della carta geologica, né che abbia voluto inserirsi in umane vicende.

"Ho percorso dopo molti anni questi luoghi e i sentieri della geologia, nella malinconia della nebbia d'autunno. Ancora non ho saputo darmi una qualunque interpretazione razionale dei fatti. Esistono trame  del destino che sfuggono alla nostra comprensione. Forse tanto vale immaginare che il Monte Bivera abbia davvero un'anima. Solo che quanto vi ho raccontato non è frutto d'immaginazione: questa storia è drammaticamente vera. La sua tragica conclusione, anche se permane misteriosa nelle sue pieghe esistenziali, si è consumata sulle falde del Monte Bivera il 15 settembre 1976."

 

Questo episodio pone almeno due grossi interrogativi ai quali non è facile dare una risposta. Il primo è, naturalmente, se il nostro destino sia stabilito da qualcuno o da qualcosa in base a un piano preordinato: concetto che tutte le religioni ammettono, sia pure con diverse accezioni e sfumature, e che il cristianesimo, ad esempio, identifica con quello di provvidenza.

Lo scrittore americano Thornton Wilder scrisse, a questo proposito, un breve, suggestivo romanzo: Il ponte di San Luis Rey, incentrato sul perché un antico ponte di liane del Perù, nel XVIII secolo, si spezzò sull'abisso senza alcun preavviso, gettando nel vuoto cinque viandanti che transitavano su di esso, apparentemente a caso. Perché proprio quei cinque? Un frate francescano, affascinato dal mistero, volle ricostruire le loro vite per tentar di scorgere in quella fine drammatica un segno di qualcosa, un indizio di un piano provvidenziale. L'Inquisizione non gradì tali ricerche e mise al rogo il fraticello; l'autore delromanzo, dal canto suo, non esprime esplicitamente un'opinione circa il dilemma fra caso e destino, ma suggerisce che neanche una piuma può cadere dalle ali di un passero senza che Dio lo permetta.

Quanto a noi, abbiamo già più volte espresso la convinzione che nulla avviene a caso, ma ogni cosa, anche la più drammatica, non può che rientrare in un vasto disegno rivolto al bene; e che ciò che a noi appare male, viene così percepito a causa della nostra impossibilità di vedere tutta la vasta trama  cosmica di cui ogni singolo evento non è che un punto.

Resta il secondo quesito, più specifico: se, cioè, i luoghi fisici  che fanno da sfondo alle nostre vicende, e specificamente le montagne, non possiedano una natura vivente, una forma spirituale e una intenzionalità capace di interagire con le vicende umane.

Prima di liquidare tale ipotesi con una alzata di spalle, si rifletta che nella regione dell'Himalaya tutte le montagne sono considerate esseri divini, viventi a tutti gli effetti, da temere e rispettare. Ora, le due grandi culture che lì s'incontrano e si confrontano, quella induista e quella buddhista, rappresentano altrettanti vertici della spiritualità umana, raggiunti in millenni di ricerca, meditazione e preghiera: il loro non è, quindi, l'animismo elementare delle culture native, ad esempio dei Siberiani o dei negritos delle foreste malesi (senza con ciò voler stabilire una graduatoria fra le diverse culture, ma solo prendendo atto delle differenze esistenti fra quelle che hanno inventato la scrittura ed elaborato complesse concezioni filosofiche e spirituali e quelle che sono rimaste più vicine a un rapporto immediato con le forze della natura).

Stabilito, dunque, che la domanda sulla natura spirituale delle montagne non è né oziosa né stravagante, ma che ha trovato una risposta positiva sia presso le culture cosiddette "primitive", sia presso alcune delle più evolute in senso filosofico e religioso, proviamo ad ascoltare l'esperienza di un moderno alpinista occidentale, il salisburghese Kurt Diemberger: uno dei non molti, anzi dei pochi, che sanno accostarsi alle culture dei popoli extra-europei con il dovuto rispetto e con forte sensibilità; e che, inoltre, nelle montagne non vedono soltanto una palestra per le loro ambizioni e per il loro ego narcisistico, ma delle occasioni di elevazione in senso spirituale. Il brano seguente è riportato nel libro di Kurt Diemberger, Gli spiriti dell'aria (traduzione italiana di Hildegard Diemberger e Maria Antonia Sironi, collana I Licheni dell'editore Vivalda, Torino).

A metà degli anni Settanta del Novecento, egli era impegnato in una spedizione alpinistica al Makalu, quando visse una vicenda alquanto singolare, circa la cui natura lasciamo il lettore libero di trarre le proprie conclusioni.

 

"Un sogno di primavera, divenuto realtà cinquemila metri sotto la cima del Makalu. Tutto è avvolto come da magia. Le lunghe barbe dei licheni si muovono lentamente come drappi di pizzo fra i rami degli alberi. Un cinguettio di innumerevoli uccelli scende dall'intreccio variopinto, mentre da un'enorme parete di granito precipita come un nastro bianco, una cascata che si polverizza nell'aria. Una radura, una casetta di tronchi, tante canne di bambù che ondeggiano nel vento, le bandiere di preghiera. Om mani padme hum, om mani padme hum…

"Un posto sacro.

"Fra le bandiere di preghiera ho scoperto una roccia su cui sono stati incisi, un tempo, i contorni di una figura. È un Buddha? Non lo so. So solo che questo posto, questa meravigliosa foresta deve essere incantata. La foresta incantata di una dea dell'Himalaya.

"Non so spiegare altrimenti perché sono guarito. Ero arrivato a Yang Lhe in preda ad accessi di tosse violenta, che mi squassavano, dopo aver dato addio alla cima. Ero sceso dal campo base, a 5.400 metri, ed era venuto giù da solo, a 3.500 metri in questo posto ove, un paio di volte all'anno, arrivano per una festa religiosa gli abitanti di Shedua, l'ultimo villaggio al di là del passo Kongma La. Al tempo del monsone c'è anche qualche pastore che gira fra prati e rododendri con i suoi greggi di pecore e di capre. Altrimenti la valle è solitaria. Gole profonde nre sbarrano l'accesso lungo il corso del Barun.  Solo una via è possibile, ma è pericolosa.

"Cosa significhi la tosse d'alta quota lo sanno tutti coloro che si recano in Himalaya. A suo tempo ne parlarono anche i francesi, che per primi salirono il Makalu. Una tosse che non si può immaginare, così terribile che la nostra compagna Dietlinde durante un accesso si ruppe una costola. Neanch'io la scampai, e nemmeno Nawang Tenzing, anche se lo sherpa guarì più in fretta. Per me l'unica soluzione fu quella di scendere giù, nella foresta.

"Disperazione non è abbastanza per esprimere ciò che provavo. Dopo aver trascorso tuta la vita fra le montagne, adesso, di colpo, davanti a una cima meravigliosa come il Makalu dovevo darmi per vinto. Era difficile da accettare.

"Aveva ragione Markus a Salisburgo, non dovevo venire. Ma come potevo non tentare di salire ancora sulle vette più alte?

"È duro dover riconoscere il proprio limite.

"Cercavo di persuadermi. Devo rassegnarmi, mi dicevo, potrò vivere anche senza le grandi montagne. Il segreto è anche al di là delle montagne, non solo sulla cima. Ci sono migliaia di segreti al mondo!

"Ma è terribile dover riconoscere che uno di questi segreti, il più bello forse, si è chiuso per sempre.

"Adesso comunque ero qui, in quel mondo incantato, in mezzo a tutto il suo splendore. E slo allora cominciai a capire veramente che cosa fosse. Come se una corrente d'amore venisse da ogni parte e fluisse dentro di me. Amore, non trovo altro termine adatto.

"Non voglio parlare di spiriti e di superstizioni, certo, però al mondo esistono molte cose che non si spiegano. E in quei giorni cominciai veramente a credere, ad accettare che Yang Lhe fosse un posto sacro. Penai all'ignota origine del nome Makalu, al dio nero, ai diversi significati che gli vengono attribuiti, ma mi convinsi man mano che quel bosco non aveva alcuna relazione col monte Makalu. Esisteva e basta.

"Fra i rami c'era qualcosa. Qualcosa che avevo già incontrato? L'Isis di un altro mondo? Nella mia mente tutto si riuniva.

"Ancor oggi non so esattamente cosa mi sia successo in quel bosco incantato. Non ho una spiegazione razionale. So solo che quando tornai su, in alto, ero un altro uomo. Ma soprattutto ero completamente guarito. Poco dopo, anzi, riuscii a salire il Makalu in una forma che fece sbalordire i miei compagni. E di ciò sono grato alla dea sconosciuta.

"Sul ramo di un albero appesi una campanella. L'avevo portata dal Monte Bianco e la lasciai lì, in mezzo alle bandiere di preghiera."

 

Forse, anche senza lasciare offerte votive o bandiere di preghiera, questo dovrebbe essere l'atteggiamento giusto da parte di coloro che si accostano alla montagna. Umiltà, ringraziamento, lode: una forma di preghiera, una relazione spirituale con la montagna stessa. Noi siamo gli estranei, gli ospiti, non certo i conquistatori. La montagna, in tutte le culture e in tutte le religioni, è simbolo di elevazione, di purificazione, di ascesi.

Ma forse non è solamente un simbolo. Forse è qualche cosa di più.

Forse è una creatura vivente, spirituale, benevola nei confronti di coloro che la avvicinano nella giusta disposizione di spirito.

Forse dovremmo imparare a fare silenzio, non solo fisicamente, davanti alla sua maestà, al suo mistero rarefatto: com'è rarefatto l'ossigeno nell'aria, quando si sale alle grandi altezze.