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Filosofia greca e pensiero cinese: una comparazione filosofica

di Giangiorgio Pasqualotto - 27/12/2005

Fonte: Simplegadi

 

 

1. Prima di affrontare direttamente la comparazione tra alcuni nuclei fondamentali delle riflessioni prodotte da eminenti protagonisti del pensiero greco (Eraclito, Parmenide, Empedocle, Platone) e alcuni aspetti contenuti nelle considerazioni sviluppate dai maestri taoisti (Lao zi, Zhuang zi, Lieh zi) e dal maestro del buddhismo cinese Fa zang, è necessario fare alcune precisazioni di carattere metodologico sul senso e sui limiti entro cui viene qui assunta la comparazione filosofica.

La dizione 'filosofia comparata' può essere fatta risalire al 1923, anno in cui apparve l'opera di Masson Oursel La philosophie comparée. Questo lavoro ha avuto il merito di contenere il primo tentativo di definire in termini scientifici l'ambito e il metodo di una ricerca comparata; ma ha anche mostrato i difetti derivanti dal continuare a riconoscere il carattere scientifico solo nei limiti di una prospettiva dichiaratamente positivistica. In tal modo il lavoro comparatistico viene liberato, certo, dagli 'interessi' e dalle ipoteche di natura religiosa o ideologica che avevano afflitto i precedenti esperimenti comparatistici -per esempio quelli effettuati dai Padri della Chiesa o, in campo laico, quelli prodotti da Hegel e da Schopenhauer- ma cade nell'illusione che vi possa essere una condizione di totale neutralità nel trattare pensieri e sistemi di pensiero appartenenti a culture e civiltà lontane nel tempo e nello spazio, come se fossero oggetti semplici o puri dati di fatto. In generale, si può dire che l'operazione di Masson Oursel risulta ancora guidata da pretese positivistiche che già da tempo alcuni scienziati ed epistemologi -quali Mach, Poincaré e Duhem- avevano contribuito a smascherare come largamente illusorie. Questa illusione 'positivistica' non appare del tutto estinta anche in lavori più recenti e più avveduti, dove la filosofia comparata, invece di continuare ad assumere le espressioni filosofiche di diverse culture come semplici dati di fatto, è passata a considerarle come risposte diversificate a medesimi problemi1.

D'altra parte, se la ricerca comparativa vuole abbandonare completamente le illusioni di un'osservazione del tutto disinteressata, pura, neutrale, rischia sempre di ricadere nel difetto metafisico in base al quale i risultati del comparare vengono utilizzati per dimostrare l'esistenza di una Verità Unica, Suprema e Perenne. L'approccio metafisico si mostra difettoso in quanto vittima di un circolo vizioso: esso, infatti, da un lato postula l'esistenza di una Verità Superiore a tutte le singole manifestazioni di pensiero, ma dall'altro pretende di dimostrare l'esistenza di tale Verità proprio utilizzando le concordanze rilevabili tra le diverse manifestazioni di pensiero. In questo circolo vizioso cadono tutti quei tentativi comparatistici che in modo esplicito assumono come mezzo un tertium comparationis che però utilizzano, in modo implicito, come scopo della comparazione: in questo vortice logicamente insostenibile sono caduti i sostenitori di una "filosofia mondiale" che dovrebbe produrre un corpus sintetico di idee orientali e occidentali; ma in tale vortice si collocano anche i più illustri esponenti della prospettiva tradizionalista -come Vallin, Guénon, Coomaraswamy- e Aldous Huxley con la sua riattualizzazione di una Philosophia Perennis2.

Se invece, da un lato, si evita di cadere nel circolo vizioso della prospettiva metafisica, e, dall'altro, si supera l'utopia di una pura scientificità che induce a fondare e a formalizzare una disciplina specifica denominata "filosofia comparata" finalizzata semplicemente a registrare analogie e differenze tra pensieri d'Oriente e d'Occidente, si può liberamente intendere la comparazione tra tali pensieri come un modo fondamentale del pensare stesso. In tal senso, allora, comparare, per esempio, i frammenti di Eraclito e gli apologhi di Zhuang zi non ha come obiettivo quello di catalogare asetticamente una serie di coincidenze e di differenze, né ha quello di dimostrare l'esistenza di un'unica Verità, ma è motivato da uno sforzo di chiarire e di approfondire problemi cruciali e vitali: sforzo che è presente ed attivo anche all'origine di quei frammenti e di quegli apologhi, come di ogni altra espressione del pensiero umano. Questo sforzo non è guidato dall'intento troppo disinteressato di registrare dissonanze e consonanze tra pensieri nati e vissuti in tempi e luoghi tra loro lontani; né è spinto dalla volontà troppo interessata a dimostrare un'unica Verità metafisica che starebbe all'inizio o alla fine di tali pensieri: esso è animato esclusivamente dall'amore per la ricerca, il quale coglie alla base di tutti questi pensieri altrettante tracce lasciate da problemi decisivi e dai tentativi di dar loro risposte. Perciò la filosofia comparata intesa in questa prospettiva mostra la sua estrema fedeltà all'idea che ci ha donato Platone, quella di philo-sophia, per la quale ciò che più conta non è sophia, ossia il possesso della verità, bensì philein, ovvero il movimento di ricerca della verità.

Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere perché il movimento di ricerca della verità dovrebbe mostrare maggior potenza ed efficacia esercitandosi nella comparazione tra pensatori d'Oriente e d'Occidente, invece che nella comparazione tra pensatori solo occidentali, o tra pensatori solo orientali, ovvero all'interno della filosofia di un unico pensatore, sia esso orientale o occidentale. Se è vero che la comparazione è un modo fondamentale del pensare stesso, se comunque si ha comparazione nel momento stesso in cui si pensa, ci si può domandare perché una comparazione inter-culturale sarebbe migliore.

Per dare risposta a questi interrogativi non occorre cimentarsi in ardite acrobazie speculative, in quanto risulta evidente che nell'affrontare un problema, come nel conoscere un oggetto, il ricorso a punti di osservazione in precedenza ignorati significa non solo un aumento quantitativo di oggetti e di strumenti d'indagine, ma anche e soprattutto un incremento qualitativo dei risultati dell'indagine stessa, un'intensificazione della comprensione. Nella storia della ricerca scientifica questo è successo e continua a succedere un'infinità di volte: per anni, talvolta per secoli, si gira attorno ad un problema partendo da una particolare prospettiva, fino al punto in cui tutta la gamma di conoscenze che questa può produrre risulta esaurita e si è costretti a trovarne una nuova. Nel caso della comparazione filosofica tra pensieri d'Oriente e d'Occidente le prospettive che accolgono un tema non sono affatto nuove -dato che quasi sempre appartengono a civiltà antichissime- ma nuovi possono essere i chiarimenti e gli approfondimenti che derivano dalla loro applicazione al tema affrontato, dove è ovvio ed implicito che il tema da trattare in realtà non si presenta come un semplice oggetto da analizzare, ma si impone come problema da risolvere. In tal senso la comparazione filosofica scioglie le rigidità delle discipline specialistiche che studiano tali prospettive tradizionali assumendole come oggetti inerti, come corpi separati, come fossili culturali: essa, partendo dalla necessità di risolvere -o almeno di chiarire più a fondo- alcuni problemi, ricorre a inediti punti di vista che quelle prospettive hanno prodotto e sviluppato. È allora evidente che la comparazione filosofica capovolge l'ordine di ricerca proposto dalla filosofia comparata: essa infatti non parte dai pensieri prodotti in Oriente e in Occidente come se fossero morti dati di fatto, compiuti e definitivi, ignorando la natura problematica che li ha fatti nascere; ma li assume come segni viventi di interrogativi antichi e tuttavia ancora aperti. Il suo interesse non è prevalentemente filologico o storiografico, né genericamente erudito, ma esclusivamente teoretico: 'teoretico', si badi bene, non nel senso formale di una conoscenza astratta, ma nel senso di una concreta, 'passionale' ricerca della verità; ossia, ancora una volta, nel senso di un inesauribile philosophein.

2.

Uno dei principali problemi che stringe insieme le riflessioni di Eraclito, di Empedocle, di Parmenide e dei maestri taoisti è quello della nascita dell'Uno e del rapporto tra l'Uno e i Molti.

In Eraclito questo problema si evidenzia con massima forza nella seconda parte del frammento 19: «Da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose»3.

In Empedocle se ne trovano le tracce nel frammento 4 del Poema fisico e lustrale: «Duplice argomento dirò: ché una volta si accresce l'uno da più elementi sì da esistere solo, l'altra volta poi germina, sì che più esistono dall'uno»4.

In Parmenide esso compare al verso 5 del frammento 8: «Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo»5.

Per quanto riguarda il taoismo filosofico, lo stesso problema appare concentrato nei primi due versi del capitolo XLII del Daodejing: «Il Tao generò l'Uno, l'Uno generò il Due»6.

Si può cominciare l'esperimento di comparazione filosofica partendo proprio dal contenuto di quest'ultimo passo. Qui, infatti, emerge con evidenza che il principio, il Tao, non va confuso con l'Uno; o, meglio, se si vuole intendere il Tao come equivalente dell'Uno, bisogna specificare allora che l'Uno generato dal Tao è diverso da quello che lo genera: l'Uno che genera è in realtà oltre tutte le distinzioni, oltre la stessa definizione che lo nomina e lo limita con la parola 'uno'; mentre l'Uno generato è l'Unità che risulta da un lavoro di distinzione, di definizione, di nominazione: quando si dice o anche solo si pensa 'uno' vuol dire che c'è già in atto una distinzione tra chi dice o pensa 'uno', e l''uno' come ciò che viene detto o pensato. È per questo, tra l'altro, che si può capire come l'Uno generi il Due: l'Uno detto o pensato implica infatti il Due, perché comporta necessariamente il riferimento al soggetto che lo dice o lo pensa.

Nella filosofia occidentale chi ha colto con maggiore chiarezza e penetrazione la distinzione tra l'Uno come principio assoluto e l'Unità come principio delle cose è stato Platone (Parmenide, 142c-d) e, ancor più, Plotino: «Quanto all'uno se si tratta dell'uno assoluto al quale non appartiene nulla, né anima né intelligenza né altra cosa, esso non è predicato di nulla e perciò non è genere. Ma se si tratta dell'uno che appartiene all'essere, dell'uno che noi chiamiamo l'uno che è, questo non è affatto l'uno primo»7.

Tra i maestri taoisti, quello che riuscì ad esprimere la medesima distinzione in modo meno sintetico e criptico di quello usato dal Daodejing fu Lieh zi: «Se ciò che ha forma prende vita da quel che non ha forma, da dove hanno preso vita il Cielo e la Terra? Io dico: vi fu il grande indistinto, il grande primordio, il grande inizio, la grande semplicità. [...] L'indistinto si evolse e divenne l'Uno»8.

L'idea di questo "grande inizio" risuona nel frammento di Parmenide che definisce l'Essere ingenerato (agheneton) e imperituro (anolethron): senza inizio e senza fine, proprio come il Tao che «ad andargli incontro non ne vedi l'inizio, ad andargli appresso non ne vedi il poi»9.

Ciò è quanto ritroviamo detto anche da Empedocle a proposito dello Sphairos, il quale è infinito nello spazio, perché «da ogni parte uguale e senza confini per ogni dove, lo sfero circolare che gode della ricurva unicità»10, così come nel tempo, perché «come era, così sempre anche rimane, uguale a se stesso»11.

Il carattere di "grande inizio" lo ritroviamo in Eraclito, che qualifica il Logos come ciò che "sempre è" (aei eontos)12.

Pertanto il Tao, l'Essere di Parmenide, lo Sfero di Empedocle e il Logos di Eraclito mostrano di avere in comune il carattere dell'Uno che è oltre ogni qualificazione sia spaziale che temporale: in tal modo essi risultano essere tutti Principio; tuttavia non nel senso banale di punto d'inizio fisso, ma nel senso più profondo di origine attiva di ogni determinazione, sia spaziale che temporale. Esso è ciò che, in ogni momento e in ogni luogo, fa essere le cose come sono: perciò, se si potesse 'definirlo', si dovrebbe dire che esso è condizione di ogni possibilità, non principio creatore. Affatto esplicito, a tale proposito, è il contenuto del passo del Daodejing dove si dice che il comportamento del saggio (sheng ren) si uniforma all'azione senza intenzione (wu wei) propria del Tao: «Le diecimila creature sorgono ed ei non le rifiuta, le fa vivere ma non le tiene come sue, opera ma nulla s'aspetta»13.

A questo punto, dopo il problema della distinzione tra l'Uno assoluto e l'uno relativo, si apre quello del passaggio dall'Uno alla molteplicità: perché il Tao che è perfetto, l'Essere che è immobile, lo Sfero che è autosufficiente, il Logos che è dovunque hanno tutti la necessità di articolarsi in creature imperfette, in esseri mutevoli, in cose contingenti, in manifestazioni localizzate? La natura di tale problema viene indicata 'drammaticamente' in uno stupendo passo della Brhadaranyaka Upanisad: «In principio l'universo era il solo Atman in forma di purusa [uomo cosmico]. Guardandosi attorno, non vide nulla all'infuori di sé. [...] Egli non provava gioia: per questo chi è solo non prova gioia. Allora desiderò un secondo»14.

In Eraclito questo problema viene risolto nel modo enunciato nella seconda parte del frammento 19: «E da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose». Ciò significa, da un lato, che quel Logos comune (xynos) che stringe (leghei) insieme tutte le cose, che produce "la più bella armonia" (cfr. frammento 24) non è separato dalle cose che unifica, ma si identifica con le loro forze unificanti, coincide con la potenza delle infinite connessioni (syllapsies); dall'altro, che le cose non sono meri 'accidenti' e pure contingenze rispetto all'Uno, ma sono ad esso essenziali e necessarie, espressioni dirette della sua potenza.

Ora, ciò che qui più interessa è notare che queste connessioni non indicano un semplice 'mettere insieme', ma esprimono un collegare divergenze, un congiungere differenze. Tanto è vero che Eraclito, sempre nel frammento 19, così specifica il contenuto delle syllapsies: «Intero e non intero, convergente divergente, consonante dissonante». L'Uno, pertanto, non solo non esiste indipendentemente -prima o dopo, al di qua o al di là- dalle sue manifestazioni, ma anche si determina in modo differenziale: rappresentandolo come un sole, si dovrebbe dire che esso non è prima un nucleo di luce il quale poi si espande in una serie infinita di raggi luminosi, ma che coincide con la serie infinita dei suoi raggi; non solo: è ancor più importante notare che questi raggi risultano luminosi, necessariamente, solo in senso relativo, ossia solo in rapporto all'oscurità da cui, per contrasto, emergono. In breve: (1) il Principio non sta mai oltre le sue determinazioni, e (2) queste si costituiscono per differenza. Il Principio stesso, dunque, non può mai essere assoluto, perché si fonda e si esplica nella forma della differenza.

Lo stesso schema logico presiede, in Empedocle, all'andamento del passaggio dallo Sphairos agli elementi e poi ai corpi da questi composti. Lo Sfero infatti non coincide affatto con la condizione statica dell'armonia assoluta, del dominio incontrastato di Philie (Concordia, Armonia), ma con la condizione di equilibrio tra Philie e Neikos (Odio, Astio): «Così non finiscono mai questi elementi che si permutano di continuo, a volte concorrendo tutti quanti nell'uno per la concordia, a volte poi dalla sfida dell'astio ciascuno per vie distinte trasportato»15. Lo Sfero non può coincidere con Philie, altrimenti vi sarebbe un'unità immota che non consentirebbe la molteplicità degli esseri; ma esso non può coincidere nemmeno con Neikos, altrimenti vi sarebbe una molteplicità indistinta che non consentirebbe la determinazione di ciascun essere particolare. Lo Sfero è dunque quella perfezione della potenza naturale che lavora tanto con la forza unificante di Philie, quanto con la forza differenziante di Neikos: lo sfero circolare è allora «tripudiante della beata unicità» (frammento 30) non perché goda dell'immobilità dovuta al raggiungimento definitivo di un'armonia assoluta, ma perché vive dell'infinito movimento provocato dall'azione reciproca di Neikos e di Philie, forze opposte e complementari.

Dimostrare l'esistenza di un simile schema logico che illustri il nesso tra l'uno e i molti risulta apparentemente più arduo per Parmenide, ritenuto il più rigoroso ma anche il più rigido assertore dell'unicità e dell'assolutezza dell'Essere. Tuttavia, se si presta sufficiente attenzione al contenuto del frammento 9 del Poema sulla natura, è possibile rintracciare notevoli elementi di consonanza con la struttura logica che tiene assieme, in Eraclito, Logos e gioco dei contrari e, in Empedocle, Sfero e lotta tra Neikos e Philie. Dice dunque Parmenide: «E poiché tutte le cose sono state denominate luce e notte, e le cose che corrispondono alla loro forza sono attribuite a queste cose o a quelle, tutto è pieno ugualmente di luce e di notte oscura, uguali ambedue, perché con nessuna delle due c'è il nulla»16.

Ora, se si tiene presente il contenuto del frammento 8 e, in particolare, quello del verso 24 -"tutto intero è pieno di essere" (pan d'empleon estin eontos)-, risulta chiaro che la luce e la notte non possono porsi al di fuori dell'Essere, per cui devono risultare come sue modalità essenziali, come sue articolazioni interne. Tanto è vero che lo stesso Parmenide, nel Proemio al suo Poema, indica il luogo dove lo accoglie la Dea per svelargli la verità con queste parole: «Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno»17. La porta è dunque unica, come unica è la verità dell'Essere, anche se diversi sono i sentieri della Notte e del Giorno; per cui non si può concludere, come fecero Aristotele e molti altri dopo di lui, che il Giorno corrisponda all'Essere e la Notte al Nulla: Giorno e Notte sono nel senso più pieno, si costituiscono cioè come modalità intrinseche dell'Essere. Pertanto, Giorno e Notte in Parmenide non solo possono venir intesi come estremi complementari di una polarità equivalente a quella dei contrari in Eraclito e a quella di Neikos e Philie in Empedocle, ma possono anche venir colti, nel loro rapporto all'Essere, come suoi modi costitutivi, proprio come in Eraclito il Logos non può esser inteso al di fuori dei contrari che esso 'lega', e proprio come in Empedocle lo Sfero non si dà indipendentemente dalle attività di Neikos e Philie.

A questo punto non è difficile notare che la medesima natura complementare che qualifica il rapporto tra questi 'generi' opposti qualifica anche, nel taoismo filosofico, il rapporto tra yin e yang; e che il costituirsi di quei 'generi' come funzioni intrinseche alla potenza del Logos, dello Sfero e dell'Essere corrisponde al fatto che per i maestri taoisti yin e yang funzionano come modalità con cui si esprime la potenza del Tao. Si veda, a tale proposito, quanto dice Zhuang zi: «Il sommo yin è algore, il sommo yang è calore: l'algore s'alza verso il Cielo, il calore si diffonde verso la Terra. L'intreccio di quei due forma l'armonia e le creature vengono alla vita»18. Ovvero quanto si trova nel Daodejing: «Le creature voltano le spalle allo yin e volgono il volto allo yang, il ch'i le rende armoniose»19, dove yin richiama ciò che è oscuro o in ombra e yang rinvia a ciò che è chiaro o al sole, e dove ch'i, il soffio vitale, è manifestazione empirica del Tao che tutto pervade ed alimenta. Anche in tal caso appare evidente sia che la complementarietà degli opposti yin e yang corrisponde a quella che vige tra i contrari in Eraclito, tra Neikos e Philie in Empedocle e tra Giorno e Notte in Parmenide, sia che yin e yang hanno un'esistenza e una funzione del tutto necessarie alla vita del Principio: esemplificando in termini fisiologici, si può dire che, come non può esistere la fase dell'espirazione senza quella dell'inspirazione, così la respirazione non può esistere senza entrambe. Ciò equivale a dire, in generale, sia che ogni elemento ed aspetto della vita deve la propria esistenza al suo opposto, sia che la vita stessa deve la propria esistenza all'azione degli opposti.

3.

Prima di affrontare, come ulteriore esperimento di comparazione filosofica -e non di "filosofia comparata"-, quello che intende mettere a confronto Platone e il maestro del buddhismo cinese Fa zang, appare opportuno fornire alcune informazioni su quest'ultimo, assai meno noto, almeno in Occidente, del pensatore ateniese. Fa zang (643-712), esponente della Scuola buddhista cinese Hua Yan, fu autore di un Trattato sul leone d'oro, celebre divulgazione sintetica del contenuto dell'Avatamsaka Sutra (Sutra della ghirlanda), che possediamo solo nella versione cinese (del V sec. d.C.) e tibetana. Questo sutra deve la sua importanza al fatto che riprende ed approfondisce un tema già affrontato e sviluppato negli insegnamenti originari del Buddha, quello della interconnessione tra tutti gli elementi della realtà. Di tale tema Fa zang fornì una lettura e un'interpretazione assai semplificate, al fine di renderlo comprensibile all'imperatrice Ze tian la quale, benché non superficialmente interessata all'argomento, stentava a coglierlo nella sua profondità: a tale scopo egli prese come esempio un leone d'oro posto all'entrata del palazzo imperiale e cominciò ad analizzare i rapporti logici esistenti tra l'elemento 'oro' e l'elemento 'leone'. In particolare, nel paragrafo settimo, intitolato Impadronirsi dei dieci misteri, il maestro compie un formidabile sforzo teoretico e linguistico per riuscire ad esprimere il perno centrale attorno a cui ruota l'intera prospettiva dell'interconnessione universale. Ancora più in particolare, trattando del terzo 'mistero', Fa zang mostra il nucleo centrale di tale 'perno' individuando Li e Shih come 'principi' che si includono a vicenda pur mantenendo la loro identità. Dice il testo: «L'oro e il leone si determinano entrambi e si includono l'un l'altro in armonia. Non c'è ostruzione alcuna tra uno e molti. [In questa completa inclusione reciproca] il Li e lo Shih, l'uno e i molti, rimangono sulle loro posizioni. Ciò è chiamato la reciproca inclusione e differenziazione di uno e molti»20. L'oro allude a Li, che si può intendere come Uno, o Principio, o Noumeno, o Sostanza; il leone allude a Shih, da intendersi come caso di molteplicità, come determinazione particolare del Principio, come fenomeno, come modo della Sostanza. In altri termini, Li e Shih sembrano poter corrispondere a ciò che intende Platone quando nel Parmenide (158b-d) parla di Uno (en) in rapporto al molteplice (plethos), o quando nel Filebo (16d) parla dell'Uno in rapporto ai molti (polla). Ora, quel che più interessa far notare è che Fa zang non attribuisce alcuna preminenza a Li rispetto a Shih; ciò significa che l'oro in sé e per sé, come materiale privo di forma, è assolutamente impensabile: anche se non assumesse la forma particolare del leone o di qualche altro oggetto realmente esistente, dovrebbe necessariamente -per poter essere percepito- avere una qualche conformazione; l'oro, anche come magma informe o come massa inerte, per poter esser ammesso come qualcosa che esiste deve presentarsi in una qualche 'forma', per quanto indeterminata, slabbrata o fluida. D'altra parte, anche Shih non può sussistere di per sé: nell'esempio di Fa zang non può sussistere indipendentemente dall'oro che lo costituisce, ma, più in generale, in quanto sinonimo di 'forma particolare', non può sussistere indipendentemente da una 'materia generale'. La forma 'leone' non esiste senza l'oro che la costituisce, ma, in generale, ogni forma non esiste senza una qualche 'materia' che la costituisce. In altri termini: non c'è figura senza sfondo ma anche, viceversa, non c'è sfondo senza figura; ovvero, secondo una metafora cara alla tradizione del buddhismo cinese: non ci sono onde senza mare, e non c'è mare senza onde.

Ebbene, il 'mistero' che Fa zang tenta di svelare consiste nel fatto che Li e Shih, pur implicandosi a vicenda, riescono a «rimanere nelle loro posizioni», ossia non si confondono, ma mantengono la loro identità.

Ora, questa duplice 'natura' di Li e Shih appare analoga a quella che possiamo trovare nella conclusione del Parmenide, dove Platone afferma: «Diciamo dunque questo ed aggiungiamo che, a quel che sembra, tanto se l'Uno è quanto se l'Uno non è, sia l'Uno sia gli Altri, da tutti i punti di vista, sono e non sono, appaiono e non appaiono, e in rapporto a se medesimi e nel rapporto reciproco tra loro»21.

L'Uno e i Molti -proprio come Li e Shih- 'sono' nel senso che ciascuno è qualcosa di definito che non si confonde con l'altro; ma, contemporaneamente, 'non sono' nel senso che ciascuno, per sussistere come qualcosa di definito, ha bisogno dell'altro.

Questa complementarietà dei 'principi' è resa possibile proprio dall'impossibilità per ciascuno di essi di venir determinato in modo autonomo: la complementarietà si radica e si sviluppa nell'assenza di autoconsistenza che connota ciascun 'principio'. In una parola, essa dipende dalla 'vacuità' (xu) dei 'principi'.

Ciò conduce ad una considerazione più generale che richiama il contenuto paradossale ed apparentemente contraddittorio del celebre passo del Sutra del cuore: «La forma è vacuità e proprio la vacuità è forma»22. Per riuscire a comprendere il senso di questo passo è necessario andare oltre il semplice significato letterale del passo: la proposizione "la forma è vacuità", infatti, non intende dire che forma e vacuità coincidono, ma che ogni forma è vuota di autoconsistenza; d'altra parte, nemmeno la proposizione "la vacuità è forma" intende sostenere l'identità di forma e vacuità, ma indica che la vacuità è la condizione di possibilità di ogni forma. A questo riguardo è importante ricordare che la vacuità, pur svolgendo la funzione fondamentale di "condizione di ogni possibile forma", non può esser intesa come sostanza, cioè come realtà che sussiste in sé e per sé: in altri termini, lo sfondo che consente il delinearsi di ogni figura non può esistere indipendentemente dalle figure che esso accoglie, così come il mare che è all'origine di ogni onda non è da esse indipendente. Ciò significa che vacuità e forma -al pari di Li e Shih- pur non essendo identiche sono equivalenti: nessuna delle due può vantare un primato -né logico, né ontologico- sull'altra. Il fatto che la vacuità non possa vantare alcun primato e alcuna indipendenza rispetto alla forma viene chiaramente esplicitato da un altro passo del Trattato sul leone d'oro di Fa zang: «La Vacuità non possiede nessun contrassegno suo proprio, è attraverso le forme che viene rivelata»23.

Ad analoghe conclusioni giunge Platone verso la fine del Sofista, quando riconosce al Non-essere (me on) la stessa necessità dell'Essere (on): «A questo punto bisogna dire con fermezza che il non-essere ha una sua stabile natura; di conseguenza, come al grande è stato dato di essere grande, e al bello di essere bello, allo stesso modo al non-essere è stato dato di essere»24.

Qui, tuttavia, non si è ancora giunti al culmine dell'itinerario speculativo che sembra accomunare il maestro cinese e il filosofo greco. Infatti, una volta stabilito che nessuno dei due 'principi' -né Li, né Shih; né l'essere né il non-essere- può vantare una qualche forma di prevalenza sull'altro, ci si può chiedere se vi sia un ambito, ulteriore rispetto ad essi, che permetta di connetterli, riconoscendo la loro identità e, nel contempo, la loro interdipendenza. I due pensatori sembrano incontrarsi, pur provenendo da due tradizioni profondamente diverse, anche al livello estremo di questa domanda radicale, oltre la quale è logicamente impossibile andare. Dice infatti Fa zang, sempre riferendosi all'oro e al leone: «Se parliamo di essi come Li o Shih, c'è la mente da cui essi sono formati ed esistono. Ciò viene chiamato la realizzazione universale attraverso la proiezione della Mente-unica»25. Quindi per Fa zang è chiaro, così come era già stato chiaro ai filosofi buddhisti della Scuola Yogacara -Maitreyanatha, Asanga e Vasubandhu-, che l'orizzonte massimo, oltre il quale non è possibile spingersi e nel quale rientrano tutte le realtà, è costituito dall'attività della mente come facoltà universale del pensare: attività per nulla limitata ai processi psicologici individuali, ma massimamente estesa come funzione trascendentale della conoscenza, ad ogni livello e ad ogni momento del suo procedere.

A conclusioni sorprendentemente simili sembra giungere anche Platone, laddove, nel Teeteto, individua nell'anima (psyche) il baricentro di ogni movimento conoscitivo: «Sarebbe incredibile, credo, ragazzo mio, se le varie percezioni se ne stessero sedute dentro di noi come dentro cavalli di legno e invece non tendessero tutte a un'unica determinata forma -si debba chiamarla anima o in altro modo- con la quale, per mezzo di occhi e orecchie, usati come strumenti, noi percepiamo tutte le cose percepibili»26. Fin qui sembrerebbe che Platone si limitasse ad evidenziare la funzione unificante dell'anima solo ai livelli più elementari del processo conoscitivo, quelli in cui vengono aggregate le percezioni; ma subito dopo precisa che l'anima è quella facoltà che «ti rivela l'elemento comune di tutte le cose» (Teeteto, 185c); che è essa, «per mezzo di se stessa, a esaminare tutte le cose, cogliendo gli elementi comuni» (Teeteto, 185e); che è sempre l'anima quella facoltà che, «prendendo e riprendendo in esame queste cose e confrontandole l'una con l'altra, cerca di esprimere per noi un giudizio sul loro essere, sul fatto che entrambe sono, sulla loro contrarietà reciproca e ancora sull'essere della contrarietà» (Teeteto, 186b). Ed è per questo che la scienza (episteme) non sta nelle impressioni (pathemata), ma nel ragionamento (sylloghismos) su di esse (Teeteto, 186d), ossia nella capacità di collegare ogni 'materiale' della conoscenza, dalle forme più elementari delle sensazioni alle forme più complesse dei teoremi matematici, fino a quelle più ampie dei 'generi sommi' come, appunto, 'essere' e 'non-essere'.

Si profila pertanto la possibilità di delineare in tal modo uno schema a tre valori che può essere utilizzato per le conclusioni ultime a cui giungono sia Platone che Fa zang: la Mente (xin) e l'anima (psyche) funzionano come 'campo' in cui interagiscono -distinti ma complementari- i due 'poli' opposti, denominati Li e Shih da Fa zang, on e me on da Platone.

In base a quest'ultime osservazioni è possibile concludere con una precisazione di carattere generale. Come in fisica non è possibile che
1) vi sia un polo senza l'altro,
2) vi sia campo senza poli,
3) vi siano poli senza campo,

così ai vertici tanto della metafisica speculativa greca quanto di quella cinese non è possibile che
1) ciascun principio si dia senza l'altro,
2) si dia attività della Mente o Anima senza riferimento ai principi,
3) esistano principi all'infuori dell'attività della Mente o Anima.

 


Note

1- Cfr., per esempio, H. Nakamura, Parallel Developments. A comparative History of Ideas, Tokyo 1975. torna al testo ^

2- Cfr.: G. Vallin, La Perspective métaphysique, Paris 1959; R. Guenon, Orient et Occident, Paris 1924, Les Etats multiples de l'Etre, Paris 1931, La Métaphysique orientale, Paris 1931, Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Paris 1945, La Grande Triade, Paris 1946, Formes traditionnelles et Cycles cosmiques, Paris 1970, Aperçus sur l'Esoterisme islamique et le Taoïsme, Paris 1973; A. K. Coomaraswamy, Selected Papers, Princeton 1977; A. Huxley, The Perennial Philosophy, London 1945. torna al testo ^

3- Eraclito, I Frammenti e le testimonianze, a cura di C. Diano e G. Serra, Milano 1980, p. 15. torna al testo ^

4- Empedocle, Poema fisico e lustrale, a cura di C. Gallavotti, Milano 1985, p. 17. torna al testo ^

5- Parmenide, Poema sulla natura, a cura di L. Ruggiu, Milano 1991, p. 99. torna al testo ^

6- Tao Te Ching, in Testi taoisti, a cura di F. Tomassini, Torino 1977, p. 129. torna al testo ^

7- Plotino, Enneadi, VI, 2, 9. torna al testo ^

8- Lieh Tzu, in Testi taoisti, cit., pp. 204-205. torna al testo ^

9- Tao Te Ching, cit., p. 67. torna al testo ^

10- Empedocle, cit., p. 39. torna al testo ^

11- Ivi, p. 43. torna al testo ^

12- Eraclito, cit., p. 7. torna al testo ^

13- Tao Te Ching, cit., cap. II, vv. 16-18. Si noti come in questi tre versi vi siano i principali motivi che distanziano la prospettiva taoista da presupposti creazionistici, da intenzioni possessive e da tensioni finalistiche: infatti nel primo verso si dice che le creature "sorgono", non che vengono create; nel secondo si aggiunge che il Principio "non le tiene come sue"; nel terzo si precisa che Esso "nulla s'aspetta". torna al testo ^

14- Brhadaranyaka Upanisad, in Upanisad, a cura di C. Della Casa, Torino 1976, pp. 69-70. torna al testo ^

15- Empedocle, cit., p. 17. torna al testo ^

16- Parmenide, cit., p. 111. torna al testo ^

17- Ivi, p. 87. torna al testo ^

18- Chuang Tzu, in Testi taoisti, cit., p. 512. torna al testo ^

19- Tao Te Ching, cit., p. 129. torna al testo ^

20- Cfr. Trattato sul leone d'oro, in Garma C. C. Chang, La dottrina buddhista della totalità, a cura di G. Mantici, Roma 1974, p. 260. torna al testo ^

21- PLATONE, Parmenide, 166c (tr. di M. Migliori, Milano 1994, p. 239). torna al testo ^

22- Sutra del cuore, in I libri buddhisti della sapienza, a cura di E. Conze, tr. di G. Mantici, Roma 1976, p. 73. torna al testo ^

23- Trattato sul leone d'oro, cit., p. 257. torna al testo ^

24- Platone, Sofista, 258c (tr. di M. Vitali, Milano 1992, p. 131). torna al testo ^

25- Trattato sul leone d'oro, cit., p. 262. torna al testo ^

26- Platone, Teeteto, 184d (tr. di L. Antonelli, Milano 1994, p. 153). torna al testo ^