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Storia: gli arabi prima dell'Islam

di Enrico Galoppini - 27/11/2007

 

Storia: gli arabi prima dell'Islam


La civiltà degli Arabi, per essere compresa appieno, va indagata anche in quell’epoca che precede l’avvento della religione dell’Islàm, dopo la quale, significativamente, essa viene indicata con l’espressione “civiltà arabo-islamica”. Il periodo preislamico è stato indicato a posteriori come Jàhilìyya, “l’età dell’Ignoranza”, naturalmente della “Verità” consegnata nel nuovo Messaggio (Risàla) d’origine divina contenuto nel Corano e trasmesso agli uomini dall’Inviato (Rasùl) Muhàmmad.
Ciò premesso, si potrebbe pensare di prim’acchito che tra le due epoche esista una cesura insanabile, una soluzione di continuità netta, eppure ad una riflessione attenta non possono sfuggire alcune connessioni, al punto che la conoscenza della Jàhilìyya rappresenta un importante tassello per la comprensione delle radici più propriamente indigene dell’Arabismo e dell’Islàm.
Gli studi in questa direzione sono fioriti parallelamente all’abbandono del dogma per cui l’indagine sugli Arabi prima dell’Islàm coincideva con lo studio delle “radici ebraiche e cristiane” di quest’ultimo, insistendo sui riferimenti coranici ai profeti biblici, a Gesù e Maria, mentre il fattore etnico arabo risultava fortemente sminuito se non addirittura ignorato. Certo, prima dell’Islàm vivevano nella Penisola Arabi cristiani (soprattutto nestoriani, nella regione del Najràn, prossima allo Yemen) e Arabi professanti il Giudaismo, sparsi un po’ dappertutto, in specie nelle ricche oasi dello Hijàz, la regione in cui sarebbe poi sorto l’Islàm (il significato di Hijàz è quello di “barriera”, poiché sta tra la striscia costiera lungo il Mar Rosso, la Tihàma, e l’altopiano interno digradante verso il Golfo Persico, o Arabico). Ma la maggior parte degli Arabi, che non avevano ancora una ben definita “coscienza nazionale”, seguiva una religiosità per così dire “politeista”, legata alle divinità del luogo e del clan.
Le notizie su questo mondo spazzato via dall’Islàm nel suo impianto di base ma sopravvissuto – come vedremo – in vari elementi “reinterpretati”, sono frammentarie ma non poche. Le fonti da cui partire per ricostruire la “visione del mondo” degli Arabi prima del VII sec. sono le epigrafi, alcuni passaggi di autori greci e siri, la storiografia araba d’epoca islamica (si pensi al Kitàb al-asnàm [Il libro degli idoli], di Ibn al-Kalbi - m. 819 o 820), la poesia preislamica, che per l’inestimabile apporto alla conoscenza della lingua araba (lingua della “Rivelazione”), avrebbe costituito l’unico vero “tesoro” degno di rispetto dell’“epoca dell’Ignoranza” anche per gli Arabi ormai islamizzati. Accanto a queste fonti primarie, sono poi utili le cosiddette discipline ‘ancelle’: archeologia, sociologia, etnologia, botanica, climatologia. Anche il Corano, per certi versi, è una fonte da cui attingere informazioni sull’Arabia prima dell’Islàm.
I primi “Arabi” di cui si ha notizia sono Arabi settentrionali, impiegati come ausiliari nelle guerre condotte da Assiri e Babilonesi. Qualche notizia più precisa la si ha per l’epoca del re babilonese Nabonedo sconfitto da Ciro nel 539 a.C.: la conquista achemenide comporterà la sistemazione (518-514 a.C.) della provincia Arabaya, situata nell’odierna regione della Jazìra settentrionale. Anche Erodoto descrive questi proto-Arabi, ed Alessandro avrà un distretto di frontiera denominato “Arabia”. La penisola araba era ovviamente nota anche agli egizi. I Romani, poi, si spinsero, con la spedizione di Elio Gallo (25-24 a.C.), fin nell’estremo sud della penisola, nell’“Arabia Felix”, ed anch’essi avevano istituito una Provincia di nome “Arabia”, che però coincideva con le odierne Giordania occidentale (Petra, Gerasa), Siria meridionale (Bosra) e parte del Sinai. Ma gli abitanti dell’Arabia vera e propria – quelli che daranno forma al primo Stato islamico - restavano pressoché sconosciuti. Vediamo adesso di capire qualcosa dei loro modi di vita, della loro “visione del mondo” e di quel che ne è sopravvissuto dopo l’avvento dell’Islàm.
Innanzitutto, bisogna considerare quali sono i valori dominanti nella società araba dei secoli appena precedenti l’Islàm. Tutto ruota attorno al clan (qabìla), mentre l’individuo in quanto tale non conta affatto. Si “esiste” in quanto inseriti in una qabìla e vi si appartiene per nascita, affiliazione o alleanza. Fuori della tribù l’uomo è finito, e l’unica alternativa resta il banditismo, per cui non erano rari i casi di gruppi di predoni che mettevano a repentaglio le carovane commerciali che solcavano la penisola dallo Yemen (dove venivano in contatto con le linee di navigazione dell’Oceano Indiano) a Damasco e viceversa, passando per innumerevoli città-mercato, tra cui, nello Hijàz, Mecca e Yàthrib (poi Medìna). Se vogliamo privilegiare gli elementi di continuità tra prima e dopo l’Islàm, si possono già svolgere alcune considerazioni: il clan, nella visione islamica, si è trasformato nella “comunità dei credenti” (umma); l’appartenenza per filiazione è nient’altro che l’istituto della walà’ (“clientela”), da cui mawlà (pl. mawàli), attraverso il quale, soprattutto in epoca umayyade (661-750), ma anche dopo, non Arabi musulmani si affiliavano a clan Arabi in modo da permettersi un’ascesa sociale altrimenti difficile; l’ostracismo dalla qabìla corrisponde all’irtidàd, impropriamente tradotto con “apostasia” (meglio sarebbe dire “ribellione” all’Ordine decretato da Allàh), che comporta l’uscita dalla comunità da parte di chi (il kàfir, negatore dell’Unità e dell’Unicità divine) se ne rende colpevole.
Il legame clanico, inoltre, è stato valorizzato anche in epoca islamica, pure dal punto di vista teorico, tant’è che ‘abd ar-Rahmàn ibn Khaldùn (1332-1406), nella sua Muqàddima (“Prolegomeni”), l’ha elevato a fattore-chiave che spiega la maggiore o minore tenuta delle compagini politico-sociali. Evidentemente la ‘asabìyya (il “legame sociale”) non è più quello ‘etnonazionalista’ del clan, ma quello che sta alla base della umma.
Nell’Arabia preislamica grande importanza veniva attribuita ai gruppi genealogici (il primo califfo Abu Bakr ne aveva una profonda conoscenza), e ciò si trasfonderà, in chiave spirituale e non più etnica, nelle catene di maestri del Tasàwwuf (Sufismo), con l’autocoscienza di stirpe che, tuttavia, resterà forte soprattutto nel periodo delle prime conquiste, quando i nuovi arrivati tenevano a marcare la differenza con gli autoctoni, di cultura greca ed iranica, utili però per la gestione di uno Stato divenuto improvvisamente troppo complesso per chi, al massimo, aveva amministrato una città-Stato.
Le città dello Hijàz, infatti, erano una sorta di repubbliche commerciali (la figura del re, nel mondo arabo, così come nell’Islàm, è mal vista), dove il vertice fa esattamente quello che gli altri si attendono: ciò perché il sàyyid (il “Signore”) è un primus inter pares eletto che incarna al meglio (e dimostra ciò con l’esempio) i valori condivisi dalla qabìla: il Califfo, successivamente, non solo sarà eletto (almeno i primi quattro, con la “teoria” che confermerà il principio elettivo), ma dovrà, non a caso, garantire al-amr bi-l-ma‘rùf wa n-nahy ‘ani-l-mùnkar, ovvero “ordinare il bene e proibire il male”, meglio ancora “ordinare il ‘modo noto’ di vita, quindi la ‘buona consuetudine’ ed impedire ciò che la nega. Questa ‘buona consuetudine’ dopo Muhàmmad, sarà proprio il suo “esempio virtuoso”, raccolto nella Sunna (“Tradizione”) definitasi sulla base delle raccolte di ahàdìth (sing. hadìth – da una radice che porta con sé i significati sia di “evento” che di “discorso”), di cui le più autorevoli sono quelle di al-Bukhàri e Mùslim.
I passaggi da un’epoca all’altra, tuttavia, non si fermano qui. Vi è chi ha parlato, in relazione all’Arabia preislamica, di una sorta di “democrazia comunitaria”, tant’è che anche la religiosità autoctona non prevedeva un Giudizio individuale dopo la morte. Quello che contava era il “consenso comunitario”, rielaborato in epoca islamica nell’ijmà‘ (dalla radice jîm-mîm-‘ayn: “riunire”, “raccogliere”, “mettere insieme”) degli esperti di Legge, che è, dopo il Corano e la Sunna, la terza delle “Fonti del Diritto”. Questo “consenso” o “magistero collegiale” svolge nell’Islàm – oltre che un ruolo di contrappeso rispetto all’operato del califfo - la funzione di quel Papa la cui assenza viene sovente rilevata nell’Islàm positivamente o negativamente a seconda della tendenza dello studioso di turno. Il Califfo, inoltre, sovrintende tutto ciò che ha a che vedere con la Giustizia, in ciò svolgendo le funzioni dello hàkam, il “giudice”, l’“arbitro” dell’Arabia della Jàhilìyya, mentre l’applicazione pratica della Giustizia è affidata nell’Islàm a giudici (qudàt; sing. qàdi) indipendenti.
L’elemento “comunitario” risalta in alcuni valori di questi Arabi non ancora musulmani per i quali la murùwwa (“virilità”) compendiava tutte le qualità positive di un uomo: ospitalità, coraggio (l’etica del guerriero), rispetto del capo e delle regole del gruppo. A titolo d’esempio, citiamo il diritto collettivo al bottino in occasione delle razzie (l’Islàm reinterpreterà la “razzia” – ghazwa – nel senso di “spedizione militare per la fede”, stabilendo precise norme per la divisione del bottino di guerra), che però non dovevano condurre all’omicidio altrimenti si sarebbe innescata la logica della faida in base al principio che la pena detentiva era all’epoca inconcepibile. Una degenerazione di tale tendenza “comunitaria” era invece una poligamia (o meglio, poliginia) senza limiti, e sono stati rilevati anche casi di poliandria.
Se poi vogliamo svolgere una rapida indagine etnologica sui “popoli dell’antica Arabia”, vanno distinti gli ‘Arab al-‘àriba (quelli del Sud, il cui progenitore sarebbe Qahtàn) e gli ‘Arab mustà‘riba (di origine settentrionale, discendenti da ‘Adnàn): l’ascendenza meridionale sarà sempre vista come più nobile, per cui anche clan spostatisi a Nord elaboreranno genealogie meridionali.
Nord e Sud dell’Arabia sono comunque due mondi che si conoscono, che si contaminano e che talvolta (specie il Sud nei confronti del Nord) tentano di controllarsi a vicenda. A nord si ricordano vari “popoli” menzionati anche nel Corano (dov’è spiegato perché “scomparvero”), quali i Thamùd, gli ‘àd (questi due destinatari di due profeti non menzionati nella Bibbia), gli ‘Imlàq (gli Amaleciti), i Lihyanìti eccetera. Questi dettero vita anche ad alcuni piccoli regni di sedentari nel nord dello Hijàz (nelle oasi di Khàybar e di Wàdi l-Qura, “La valle dei villaggi”, dove sono state ritrovate varie iscrizioni). Tutti costoro, però, erano sprovvisti di una coscienza comunitaria “araba”, poiché al massimo giungevano a concepire una “città Stato”. Tale particolarismo sarà sempre condannato dall’Islàm, il quale vi vede, tra le altre cose, un elemento foriero di disgrazie (nell’Islàm, la fitna – vocabolo difficilmente traducibile che compendia i significati di “sedizione”, “ribellione”, “anarchia”, “guerra civile”, “contravvenzione ai dettami divini” – sarà definita “peggiore dell’omicidio”). Dell’epoca preislamica, come detto, verrà salvata, per motivi linguistici, la sola poesia: la raccolta per eccellenza è quella delle Mu‘àllaqàt (che alcuni studiosi, in passato, hanno definito un enorme falso), ovvero le “Appese”, poiché appunto venivano affisse alla Ka‘ba (l’edificio cubico posto al centro del santuario meccano ne quale è incastonata la Pietra Nera) dai vari aedi che, lì pervenuti per i riti del pellegrinaggio e per la grande fiera (di ‘ukàz) che contemporaneamente vi si svolgeva, declamavano le gesta dei loro clan gareggiando coi loro pari in incruenti tenzoni letterarie.
Giunti a questo punto dell’esposizione, è opportuno affrontare le forme della religiosità degli Arabi preislamici. Questo argomento riveste una duplice importanza, poiché permette di comprendere alcuni valori profondi degli Arabi prima dell’Islàm e, per certi aspetti, consente una conoscenza più approfondita dell’Islàm. Ciò premesso, è necessario riprendere la distinzione tra Arabia del Sud e del Nord (o meglio, del Centro-nord), poiché le differenze tra le due aree, in epoca preislamica, erano sostanziali.
Il Sud della Penisola araba vede, nel corso dei secoli, una successione di regni ed imperi (Saba, Ma‘ìn, Hìmyar, Hadramàwt, Awsàn, Qatabàn ecc., estesi su territori più o meno ampi dell’odierno Yemen), il cui potere si appoggia ad una casta sacerdotale mantenuta dal popolo che officia i riti in onore di divinità maggiori e minori. Ciascuna popolazione aveva un mukàrrib, o sacerdote-re, il quale “discendeva” dalla principale di queste divinità; inoltre, gli Arabi del sud osservavano culti sia domestici che in templi monumentali - assenti nel centro-nord - nei quali si tenevano pellegrinaggi (Hajj).
L’Arabia meridionale, per la sua posizione strategica (si pensi all’importanza di ‘Aden, dal 1839, nel dispositivo britannico di scali marittimi), fu sempre contesa dalle “potenze regionali” dell’epoca, ovvero Axum (l’Etiopia copta) e la Persia, tant’è vero che agli albori dell’Islàm i Persiani l’avevano occupata direttamente, senza più affidarsi ad intermediari (di regola di religione ebraica). Nel frattempo, si registra una progressiva infiltrazione di Arabi settentrionali, al punto che il sudarabico (del quale sono rimaste numerose iscrizioni eseguite con un sistema di scrittura detto “bustrofedico”) era già in crisi all’epoca del Profeta dell’Islàm, e non è perciò stato d’improvviso cancellato dall’arabo hijàzeno giunto con i conquistatori.
Nella regione dello Hijàz - dove risultano assenti le complesse entità statuali sviluppatesi nel Sud - verso il V-VI sec. pullulano gli hanìf (“monoteisti puri” che s’ispirano ad una divinità già identificata con gli epiteti di ar-Rahmàn e di ar-Rahìm – il “Misericordioso” e l’“Estremamente compassionevole” – che poi diventeranno i due nomi per eccellenza, tra i 99 della tradizione islamica, del Dio unico Allàh, al punto che ogni sura (capitolo) del Corano, tranne una, comincia con una formula sacralizzante detta bàsmala: bismillàhi r-Rahmàni r-Rahìm: “In nome di Dio…”). In questa regione disposta lungo la via carovaniera che dallo Yemen, capolinea a sua volta dei traffici dell’Oceano Indiano (a loro volta collegati alla Cina), prosegue fino alle terre bizantine del Vicino Oriente mediterraneo, i santuari sorgono nelle immediate vicinanze di fonti, alberi, rocce: la fonte di Zàmzam, inglobata nel santuario meccano ancora oggi, la cui origine è fatta risalire alle peregrinazioni di Agar (Hàjir) e del figlio Ismaele (Ismà‘ìl), testimonia l’importanza cultuale di alcuni elementi naturali che configuravano una sorta di topografia sacra nella regione. Non bisogna confondere però – secondo un pregiudizio evoluzionista - il supporto della devozione con la divinità, come purtroppo fanno anche diversi musulmani quando parlano dei “politeisti” come dei creduloni!
La religione degli Arabi centro-settentrionali era organizzata dunque senza una casta sacerdotale come al Sud, ma qua e là, in corrispondenza delle varie regioni abitate da clan nomadi o gravitanti attorno ad alcune città (Mecca, in primis, ma anche Yàthrib – la futura Medìna – e Tà’if) sorgevano santuari (hàram: di qui l’harem, uno spazio, appunto, “sacro”, “inviolabile”) sottratti alle normali leggi vigenti (lo stesso dicasi per l’odierno santuario della Ka‘ba), custoditi da sàdin che di norma si tramandavano ereditariamente quest’ambita carica ed attorno ai quali si effettuavano riti di circumambulazione del tutto simili a quelli in uso nell’Islàm. Era inoltre praticata l’astrolatria, e qui il Corano sarà netto nella proibizione di prostrarsi davanti a sole e alla luna data la loro natura transeunte (cfr. VI, 76-78 e XLI, 37).
Questa religiosità avrebbe inoltre vissuto uno sviluppo per fasi. Se in un’era più antica gli studiosi rilevano un “polidemonismo”, in una fase successiva parlano di “enoteismo”, ovvero di una gerarchia delle divinità: forse Allàh (signore degli dèi e del fato) e Hùbal (divinità importata: si noti l’assonanza con Ba‘l) non avevano loro templi, ma ne avevano le cosiddette tre “figlie di Allàh” (Allàt, al-‘Uzza, Manàt), viste come divinità intermediarie perché meno “potenti” e perciò meno “temibili”. Una situazione, quella che precede l’Islàm, in cui ciascun gruppo clanico e/o cittadino segue il proprio culto senza che ciò implichi il disconoscimento del “potere” delle altre divinità.
Vale la pena di vedere nel dettaglio le tre “figlie di Allàh”, poiché nella storia dell’Islàm sono investite dell’immagine del vecchio mondo del sacro che lascia spazio al nuovo (riservando alcune insidie: le tre dee sono al centro della questione dei cosiddetti “versetti satanici”). Tutte erano venerate dai Banu Quràysh (in italiano Coreiscìti), il clan dominante di Mecca (è sbagliato dire “La mecca”, poiché in arabo è Makka, senza l’articolo “al”). Allàt, detta la rabba (la “Signora”, che è in pratica un femminile di Allàh), era in buoni rapporti con la fiorente città di Tà’if, situata non lontano da Mecca ma in posizione elevata e climaticamente più favorevole: era garanzia di buoni rapporti con tutti gli Arabi e, associata al sole, veniva simboleggiata da un masso bianco (che poi diventerà la soglia della moschea di Tà’if!). Al-‘Uzza aveva il suo santuario a Nàkhla: sostenuta anche dal clan dei Kinàna, veniva associata a Venere ed era simboleggiata da tre acacie (veniva adorata anche dai Làkhmidi, arabi settentrionali, con capitale sull’Eufrate, alleati dei Persiani Sasanidi). Infine, Manàt, il cui santuario si trovava a Qudàyd, con buoni rapporti con Yàthrib: era la dea del “fato”, della “fortuna” e della “morte”. Ad ogni modo, non è chiaro il rapporto di filiazione delle tre dee rispetto ad Allàh ed, eventualmente, tra di loro (cfr. Cor. LIII, 19-23). Infine, una curiosità: i colori associati ad esse erano il nero, il bianco e il rosso, che poi ritroveremo nella bandiera panaraba.
Vi erano poi altri idoli minori con i quali si aveva un rapporto più intimo (ad es. Wadd, una sorta di “Dio dell’amore”), i quali potevano essere abbandonati se non esaudivano le… suppliche del devoto. Quindi, una religiosità in un certo senso “utilitaristica” e non esclusivista, ma anche “disperante” perché non prevedeva una “vita dopo la morte”.
Veniamo ora a Mecca, il centro religioso dell’intera penisola già prima dell’Islàm grazie – si sostiene in sede storiografica - ad un’abile politica della locale “borghesia commerciale” che aveva saputo coniugare esigenze cultuali ad altre di tipo commerciale: le stagioni del Pellegrinaggio erano occasioni in cui veniva formandosi lentamente una coscienza panaraba che poi l’Islàm verrà a suggellare. A Mecca, come altrove, vi erano molti “amministratori del sacro”: kàhin con funzione oracolare (“indovini-sacerdoti”: corrisponde all’ebraico Cohen, Kahan ecc., che in italiano è reso con “sacerdote”, anche nell’onomastica), i cui responsi erano praticati tramite l’estrazione di frecce o l’esame delle viscere di animale o di una divinità ventriloqua e la cui ispirazione era ritenuta provenire dai jinn (i “geni”, molto svalutati dall’Islàm, che ricordano un po’ le “Muse” di cui bisogna anche aver paura) o da Shaytàn stesso (“satana”); hàkam (“arbitri”) che si esprimevano in una particolare prosa rimata (saj‘) che alcuni, all’inizio dell’Islàm, confusero con la “salmodia” (questo vuol dire Qur’àn, “Corano”) trasmessa da Muhàmmad ai suoi primi “compagni”; vi erano poi gli ‘àrif (i “veggenti”), interpellati per gli oggetti e gli animali smarriti, i quali facevano uso di tecniche induttive (mentre il kàhin ricorreva all’intuizione); gli hanìf (il termine è coranico ed identifica tutti gli “Inviati” latori di un nuovo Messaggio che “non erano né ebrei né cristiani”: l’esempio classico è Ibràhìm, che per l’Islàm non è l’Abramo “nazionale” dell’Ebraismo né quello dei “giudeo-cristiani” oggi in crescita), invece, erano in un certo senso degli ‘irregolari’, anime inquiete alla ricerca di un Dio unico, come s’è detto precedentemente. Infine, erano ampiamente diffuse le pratiche del màysir (condannata dal Corano - assieme al vino e agli idoli - in quanto “gioco d’azzardo”: V, 90-91) e del wa’d al-banàt, l’orrenda abitudine di seppellire impunemente vive le neonate femmine.
Dal punto di vista storico, prima dell’arrivo dei Banu Quràysh, di origine settentrionale e dalle spiccate qualità guerriere (difesero la Ka‘ba dagli himyarìti dello Yemen), Mecca era stata dominata, nell’ordine, dai Banu Jùrhum (yemeniti), dai Banu Khuzà‘a (andati in Yemen e poi tornati: introdussero il siriano Hùbal) e dai Banu Kinàna. La prima organizzazione della ‘umra (“piccolo pellegrinaggio”, conservato nell’Islàm) è riferita ad ‘amr bin Luhàyy dei Khuzà‘a (III sec.), mentre il grande riformatore ed unificatore dei Quràysh fu Qusàyy bin Kilàb, tornato dalla Nabatea (Petra) per assoggettare i Khuzà‘a in accordo con i custodi dei luoghi santi di ‘àrafa (luogo oggi inglobato nei riti dello Hajj) ed alleato dei Kinàna.
La tradizione accettata in epoca islamica ci dice che Qusàyy (400 d.C.) aveva sposato la figlia del sàyyid dei Khuzà‘a, poi dopo la morte di questi era diventato il capo di Mecca, dando vita al clan dei “Quràysh dell’avvallamento”, dai quali si fa partire la genealogia cui appartiene anche il Profeta dell’Islàm. Di lì in poi i suoi discendenti avrebbero fornito cibo e acqua ai pellegrini, con un impegno che Hàshim (da cui gli “hàshemiti” di Giordania), bisnonno del Profeta, avrebbe sviluppato ulteriormente (il nome stesso Hàshim significa “colui che sbriciola” il pane per la zuppa da offrire ai pellegrini). Hàshim – che aveva avuto anche rapporti con L’Imperatore bizantino - era dunque il sàdin (“custode”) di un santuario che nell’era precedente l’avvento dell’Islàm somiglia sempre più ad un “Pantheon panarabo”, attorno al quale si coagulavano gli interessi di popolazioni che andavano cercando un motivo unificante, sin lì identificato con la “visita” da effettuare durante i mesi nei quali vigeva una sorta di “tregua olimpica”.
Ma ancora manca un elemento per capire l’importanza della Ka‘ba e del suo santuario. Nell’Islàm si ritiene che la sua fondazione – come s’è accennato quando si è detto della fonte di Zàmzam – rimandi a tempi primordiali, poiché sarebbe stato proprio Adamo, “padre corporeo degli uomini”, a fondarlo, ed in seguito tutti gli altri Inviati non avrebbero fatto altro che ricostruirlo e, soprattutto, ripulirlo degli idoli che invariabilmente venivano progressivamente ad ‘inquinarlo’: la distruzione dei 360 idoli – tranne un’immagine di Maria col bambino – operata da Muhàmmad all’atto dell’incruenta conquista di Mecca (630), rappresenta l’ultimo atto di una vicenda antica quanto l’uomo al quale, Allàh, tramite gli Inviati, permette di riportare al punto di partenza, per un “nuovo inizio”, le lancette dell’orologio della storia. Una volta chiarito questo punto, si capisce l’insanabile contrasto con l’interpretazione “agnostica” storicistica (summenzionata per dovere d’informazione) che insiste sull’abilità dei Banu Quràysh nell’attirare a Mecca i vari clan arabi con un’abile politica religiosa, culturale e commerciale.
Vai poi ricordato che dei cinque “Pilastri dell’Islàm” attraverso i quali si dipana la vita devozionale obbligatoria del musulmano, il Pellegrinaggio (Hajj), da effettuare almeno una volta nella vita (se si è nelle condizioni legali previste e se si ha la possibilità economica per svolgerlo), è quello che più riassorbe del passato preislamico, quando oltre ad un pellegrinaggio che cominciava nel mese di Shawwàl e toccava vari santuari dello Hijàz e della Tihàma, la ‘umra (“visita”) alla Ka‘ba prevedeva già il tawàf (la settuplice circumambulazione in senso antiorario), il sa‘y (la corsa tra Safà e Marwa), il lancio delle pietruzze a Mina (dove si trovano le “steli del Demonio”), i sacrifici (oggi, alla fine dello Hajj, vi è il sacrificio di un montone, le cui carni vengono distribuite tra i fedeli). Sembra che anche Ebrei e cristiani potessero, prima dell’Islàm, accedere nel recinto sacro, dove non era inusuale vedere pellegrini anche senza abiti (oggi, invece, la donna conserva il tradizionale abbigliamento islamico, mentre l’uomo veste l’ihràm – lett. “sacralizzazione” -, due pezzi di stoffa bianca non cuciti). Da quanto appena detto, si comprende che Ebrei e Cristiani erano una presenza consolidata in Arabia: i primi, in oasi dello Hijàz (la principale era Khàybar) e del sud, incapaci di darsi unità politica, ma colti, benestanti ed abitanti ‘fortezze’ separate dagli altri: l’ipotesi principale sulla genesi di queste comunità è che si tratti in prevalenza di Arabi giudaizzati; i secondi, nell’altopiano centrale del Najd e nel Najràn, nel sud, ma anche, a gruppetti sparsi, nello stesso Hijàz. Lontani dall’ortodossia definita da Bisanzio, questi cristiani erano perlopiù nestoriani, e temi del nestorianesimo sono presenti nel Corano: il Paradiso immediato per i martiri, l’umanità del Cristo, il giudizio dell’anima nella tomba. Vi erano anche gnostici, dai quali i fautori dei prestiti da una religione all’altra (in verità piuttosto fuori moda) l’Islàm avrebbe ricavato il tema delle “rivelazioni successive” da una originaria.
Questo era, nelle sue linee essenziali, il quadro della religiosità nell’Arabia prima dell’Islàm. Una religiosità dai dogmi ridotti ma dall’escatologia “disperante”, il che spiega il relativo successo dell’Ebraismo e del Cristianesimo, percepiti però da genti che andavano sviluppando una coscienza “nazionale” come religioni fondamentalmente estranee (ed anche, per quanto riguarda il Cristianesimo dell’epoca in cui i concili definivano di volta in volta i nuovi “eretici”, poco “tolleranti”). Si trattava comunque di una religiosità più radicata di quanto si potrebbe pensare, e la dimostrazione di ciò è che trovò molti disposti a difenderla (l’Islàm impiegò un ventennio ad imporsi). Nell’Islàm, anche coloro che l’avevano avversato trovarono poi una visione del mondo confacente alla mentalità araba del tempo, di cui vari elementi – come s’è visto – furono reinterpretati fornendo loro un nuovo senso. Ma questa religione non era sorta per soli Arabi, e la sua diffusione in un’area vastissima, dal Marocco all’Indonesia, sta a dimostrarlo. La storia di questa diffusione sarà l’oggetto di un prossimo articolo, nel quale verrà esposto il quadro generale della Penisola araba, delle regioni limitrofe e delle “superpotenze” del VII secolo, per poi avanzare alcune ipotesi sul repentino ed “inspiegabile” successo di quella prima espansione che portò gli Arabi a conquistare in pochi anni un’area sterminata al crocevia del “Vecchio mondo”.

Per saperne di più:
AA. VV. I primi Arabi, Jaca Book, Milano 1994.
C. Lo Jacono, Le religioni dell’Arabia preislamica e Muhammad, in G. Filoramo (a cura di), Islam, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 3-76.
C. Saccone, I percorsi dell’Islam, Edizioni Messaggero Padova, Padova 200321-42.