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La caduta del dollaro: la vera sfida per l'OPEC

di Muriel Mirak-Weissbach - 27/11/2007


Al suo recente summit di Riyadh l’OPEC si è trovata di fronte ad un problema senza precedenti: il prezzo del petrolio si sta avvicinando ai 100$ al barile, mentre il dollaro stesso sta continuando la sua inesorabile discesa su tutti i mercati finanziari.
Nonostante l’ospite Saudita fosse desideroso di mantenere l’agonia del dollaro fuori dal dibattito, il presidente del Venezuela Hugo Chavez ha portato di forza l’argomento nell’agenda del summit, annunciando trionfalmente che il declino del dollaro indica la fine dell’impero americano. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha detto ironicamente che i produttori di petrolio stanno consegnando il loro bene vitale per ricevere in cambio solo “un pezzo di carta privo di valore”. E’ emersa quindi l’idea che l’OPEC debba studiare il problema, forse cercando una valuta alternativa o più valute alternative, con le quali scambiare il petrolio.

La parola dollaro non è stata citata nel documento finale, principalmente a causa della (giustificata) paura espressa dall’ospite saudita, per il fatto che una menzione nel documento avrebbe potuto causare un ulteriore crollo del biglietto verde. Ma il consesso ha deciso di creare una commissione, composta dai ministri del petrolio e delle finanze dei paesi aderenti, affinché studi il problema e si presenti al prossimo summit, previsto per il 5 di dicembre, con dei suggerimenti sul da farsi.

Chavez e Ahmadinejad sono stati quelli che più energicamente hanno fatto pressioni perchè si aprisse un dibattito sul destino del dollaro. “Non vedete come il dollaro sia in caduta libera senza paracadute?” ha chiesto Chavez. Nel suo discorso il presidente iraniano ha affermato : “a causa della svalutazione del dollaro, le transazioni petrolifere dovrebbero essere effettuate attraverso una combinazione di altre valute forti e la borsa del petrolio dovrebbe sostituire al dollaro altre valute” come riportato dall’agenzia di stampa Mehr. Egli ha anche espresso il suo accordo per un’idea che Chavez aveva ventilato in merito alla fondazione di una banca dell’OPEC, che tutelasse le valute forti dei paesi produttori.

Ahmadinejad ha detto ai giornalisti a seguito del summit, che i leader sono “infelici a causa della perdita di valore del dollaro” aggiungendo che “anche gli americani ci hanno rimesso”. Egli ha riferito che “tutti i leader presenti hanno mostrato interesse a cambiare le loro forti riserve valutarie in una valuta forte e credibile” e che “qualcuno” privilegerebbe un alternativa al dollaro. Questo “qualcuno” non include chiaramente l’Arabia Saudita, che in seguito ha rilasciato un comunicato, nel quale ha dichiarato che il Regno non ha assolutamente intenzione di abbandonare il dollaro.

Nonostante ciò il problema sollevato era abbastanza importante da conquistarsi ugualmente, sebbene indirettamente, il suo spazio nel documento finale del summit. La “Dichiarazione di Riyadh”, dopo aver sottolineato l’impegno dell’OPEC a mantenere la stabilità del mercato del petrolio, fornendo “adeguate, tempestive, efficienti, economiche e credibili forniture di petrolio al mercato globale”, fa un breve accenno al problema della valuta. Si dice che i membri dell’OPEC hanno deciso di “istruire i nostri ministri del Petrolio o delle Risorse Energetiche e i ministri delle Finanze perché analizzino le possibilità ed i mezzi per accrescere la collaborazione fra i paesi membri dell’OPEC, incluse le proposte di alcuni Capi di Stato e di governo esposte nei loro discorsi al summit”. Il Ministro iraniano del Petrolio Minister Gholam Hussein Nozari ha spiegato che questa commissione è stata istituita “per studiare l’impatto del dollaro nel prezzo del petrolio”, mentre la sua controparte irachena, Hussein al-Shahristani ha detto che la commissione deve “sottoporre all’attenzione dell’OPEC i suoi suggerimenti su un paniere di valute con le quali i paesi membri dell’OPEC tratteranno.”

La domanda è: cosa potrà ottenere una tale commissione? Questo dipende da come essa affronterà il problema. Se i ministri pensano alla semplice sostituzione del dollaro con un’altra valuta o con un apniere di altre valute, non risolveranno nulla. Sebbene Chavez celebri la caduta del dollaro come la “caduta dell’impero americano” e guardi al giorno in cui l’America Latina e il mondo sarà liberato dalla valuta americana, egli allegramente ignora una semplice realtà: il dollaro non è solo la valuta degli Stati Uniti, ancora l’economia più grande del mondo, esso è la base dell’sistema finanziario mondiale. Il dollaro è la valuta principale nel commercio internazionale e domina le transazioni della finanza internazionale. E’ ancora la principale valuta di riserva per le banche centrali, anche se la percentuale di dollari posseduti è scesa dal 71% del 1999 al 64,8% di oggi. E’ vero, le banche centrali stanno trasferendo le loro valute di riserva, specialmente in euro e yen. In agosto, per la prima volta da tempo, c’è stato un netto calo del dollaro e degli investimenti americani, dell’ordine di 150 milioni di dollari, rovesciando un trend che vedeva centinaia di miliardi di dollari affluire in America, per finanziare i suoi multipli deficit. Tra quelli che hanno attratto i dollari fuori dagli Stati Uniti c’è la Cina; il vice governatore della Banca della Cina, Yi Gang ha detto il 15 novembre che il dollaro rimarrà la valuta principale nelle loro riserve del valore di 1,4 trilioni di dollari, aggiungendo però che la Cina vorrebbe diversificare le sue riserve. Cheng Siwei, vice presidente del Comitato Permanente dell'Assemblea Nazionale del Popolo sul “People’s Daily” dell’otto novembre ha detto: “Noi (la Cina) favoriamo valute più forti rispetto a quelle deboli e agiremo di conseguenza” cioè continuando a diversificare le valute. La Russia ha diversificato come hanno fatto diversi paesi del Golfo Persico, compreso l’Iran.

Ma ciò, da sé, non risolve nulla. La crisi del dollaro è la crisi del così chiamato, sistema del dollaro. A meno che la situazione non venga guidata, nessuna misura-cerotto potrà essere d’aiuto. Basta immaginare cosa accadrebbe se la Cina uscisse completamente fuori dal sistema del dollaro. Ciò provocherebbe un’ulteriore caduta del dollaro, con il risultato che i guadagni della Cina dovuti al suo commercio con gli Stati Uniti crollerebbero.

Un serio approccio per guidare la crisi del dollaro deve affrontare il problema fondamentale: il sistema è in bancarotta e deve essere radicalmente riformato, per evitare che il collasso del sistema del dollaro porti ad un crollo dell’economia mondiale – la produzione ed il commercio di beni reali e servizi dai quali dipende il benessere delle nazioni e dei popoli. Ahmadinejad ha attribuito la colpa del collasso del dollaro all’Amministrazione Bush – tutto bene finché le cose vanno. Ma le insane politiche finanziarie, monetarie ed economiche che hanno raggiunto il picco massimo con Gorge W. e i suoi seguaci Alan Greenspan e Ben Bernanke, sono solo la continuazione di un orientamento politico fallimentare che parte dai primi anni del ‘60. E’ stato dopo l’assassinio di John F. Kennedy che la politica economica degli Usa (e degli inglesi) è radicalmente passata dall’enfasi degli investimenti nella produzione di beni reali e di infrastrutture vitali, alla pura speculazione. Lo svincolamento del dollaro dall’oro, avviato da Richard Nixon nell’agosto del 1971, ha creato le basi per il sistema fluttuante di cambi, in base al quale le valute nazionali potevano diventare, e infatti diventarono, la preda di voraci speculatori. Da allora in poi, il sistema ha generato uno dopo l’altro selvaggi sistemi speculative che hanno portato all’attuale esplosivo mercato da 750 miliardi di dollari di derivati, obbligazioni collaterali sul debito, mutui a tasso variabile e prodotti del genere. Adesso si è stabilito un sistema opposto di interessi, per il quale il croupier si dichiara in debito. E le tasche dei giocatori sono vuote. Le più grandi banche negli Stati Uniti, guidate da Merryll Linch e da Citigroup, hanno riportato decine di miliardi di dollari in perdite, mentre le loro azioni crollano sui mercati. Nessuna somma immediatamente immessa né le ripetute iniezioni di centinaia di miliardi di dollari nel sistema bancario può salvarle. Ben “l’elicottero” Bernanke può credere di poter volare sull’America in aereo e “inondare” la nazione con la liquidità, ma è destinato a rimanere molto presto senza benzina.

Considerata questa realtà, cosa può fare una commissione di ministri dell’energia e delle finanze come quella costituita all’ultimo summit dell’OPEC? Dal momento in cui loro non controllano il mercato mondiale economico, non potranno produrre meraviglie. Ma loro potrebbero dare un contributo cruciale, mettendo a nudo i veri parametri della crisi, identificando le implicazioni del sistema del dollaro per tutto l’intero sistema internazionale. Potrebbero fare un passo avanti e proporre un’immediata conferenza internazionale delle nazioni guida – chiaramente includendovi le nazioni colpevoli, gli Sati Uniti tanto quanto la Russia e la Cina – per pianificare un programma per la riforma del sistema, che dovrebbe cominciare dal riavviare i migliori aspetti del sistema di Bretton Woods del 1944. Questo significa ristabilire tassi di cambio fissi tra le principali valute, come la precondizione per un commercio internazionale ordinato e un antidoto contro le speculazioni valutarie. Ciò richiederebbe anche un cambiamento nell’orientamento della politica economica, abbandonando le follie speculative del libero mercato liberale, per tornare ai saggi investimenti nelle infrastrutture, nella fabbricazione, nell’industria mineraria, nell’agricoltura e così via. Una volta stabilito un nuovo sistema monetario, sarebbe sostanzialmente irrilevante sapere quale valuta i produttori di petrolio usano per il loro commercio.

Se una commissione dell’OPEC affrontasse il problema da questo punto di vista globale, essa potrebbe andare avanti, e tanto per parlare, realmente prendere il toro dalle corna. I leader del summit dell’OPEC hanno dimostrato le loro responsabilità al mondo dell’economia, impegnando rifornimenti sicuri. Ma è innegabile che ognuno dei leader che si è incontrato a Riyadh per il terzo summit dell’OPEC sa che, non importa quanto vasti siano le riserve mondiali di petrolio, ma che esse sono limitate (e lo stesso potrebbe essere detto del gas). Questo pone una domanda: quale futuro?

Un sano approccio di politica economica direbbe: guardiamo oltre l’era dell’economia basata sul petrolio, verso l’era di un’economia mondiale basata sull’energia nucleare. Da un punto di vista economico, è chiaro che solo un massiccio uso della tecnologia nucleare può fornire l’energia per mantenere un’economia mondiale di crescita. L’industrializzazione dell’Africa, ad esempio, richiede questo genere di input energetico. L’insicurezza politica creata negli ultimi anni dalla guerra all’Iraq di Dick Cheney, ed ora, quella minacciata all’Iran, ha aggiunto impeto alla necessità di trovare risorse energetiche affidabili e alternative. Il recente documento del Consiglio di Cooperazione del Golfo, riguardante il desiderio di questo gruppo di sviluppare la tecnologia per l’utilizzo del nucleare a fini pacifici, può solo essere lodato. Egitto, Algeria e altre nazioni arabe, hanno dimostrato interessi similari. L’Iran, il cui programma nucleare viene strumentalizzato come un pretesto per scaturire una guerra, ha offerto di condividere le sue comprovate capacità tecnologiche con altre nazioni. La recente discussione in merito alla possibilità di stabilire stabilimenti per l’arricchimento dell’uranio in nazioni “neutrali” (ed esempio la Svizzera), è stata presa seriamente, fra le altre, dall’Iran. Nella prospettiva di un massiccio sviluppo dell’energia nucleare per obiettivi pacifici, i grandi produttori di petrolio dell’OPEC potrebbero pensare di utilizzare le loro preziose risorse come materiale grezzo per l’industria petrolchimica e per altri processi.

Se la nuova commissione immaginata dal summit dell’OPEC accoglie questi spunti, un nuovo fronte, potenzialmente molto potente, potrebbe aprirsi nello scenario della politica internazionali e delle relazioni politiche. Queste nazioni controllano le risorse dalle quali la maggiorparte del mondo dipende: perché non dovrebbero usare il loro peso per modificare l’agenda internazionale?

(Traduzione a cura di Massimo Janigro)

Fonte: www.globalresearch.ca/