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Giuliano Ferrara, gli eroi, le guerre e la retorica politica

di Carlo Gambescia - 27/11/2007

 

Consigliamo di leggere attentamente gli editoriali che Giuliano Ferrara scrive ogni qualvolta un nostro soldato, purtroppo, muore nel corso di una "missione di pace". Sono istruttivi per intendere quanto sia abborracciato il sistema di pensiero neocon all'italiana. Soprattutto a proposito delle guerre.
E ieri ne ha scritto uno prendendo spunto dal maresciallo Armando Fabi, caduto coraggiosamente in Afghanistan, come ogni vero soldato nell’adempimento del suo dovere.
Quel che però colpisce dell’editoriale di Ferrara, siglato come d’uso con l’Elefantino, è la sua assoluta certezza neoncon (e di certo realismo spicciolo) che le guerre, anche se definite “missioni di pace”, di regola cementino le nazioni. E che di conseguenza la classe politica debba fare tutto il possibile per renderle ideologicamente plausibili. E, in particolare, per rendere collettivamente accettabili le ragioni della spedizione italiana in Afghanistan. Soprattutto nelle situazioni - e ci dispiace veramente - di lutto nazionale, come quella di questi giorni.
Ora, diciamo pure che le guerre in genere non piacciono ai popoli, soprattutto, se come nel Novecento, coinvolgono ferocemente i civili e durano troppo. Il che spiega perché fino alla rivoluzione francese, le guerre venissero combattute da professionisti, a parte alcune eccezioni. Dopo di che con l’avvento della democrazia e dello stato-nazione si passò alla leva di massa e purtroppo alla guerra democratica per eccellenza: quella totale. Di qui però la necessità di giustificare la guerra sul piano democratico, attraverso il ricorso a quella retorica politica, così apprezzata da Ferrara, e che invece a suo dire mancherebbe all’Italia, giunta tardi all’ unità nazionale, divisa dalle ideologie resistenziali , eccetera, eccetera.
Il punto è che nella società di massa il consenso alla guerra (che poi in genere finisce sempre per affievolirsi in relazione alla durata e all'andamento del conflitto) deve essere “sentito” collettivamente. E sulla base di una chiara indicazione del nemico e degli scopi della guerra. Una designazione sulla quale i governanti lavorano in termini di idee-forza e di psicologia dei fenomeni collettivi. Di retorica politica, appunto.
Purtroppo si tratta di un elemento assente nelle motivazioni ideologiche alla base della cosiddetta “missione di pace” italiana in Afghanistan.
In primo luogo, perché il nemico ci è stato indicato e imposto dagli Stati Uniti. Mentre il nemico deve essere sempre scelto direttamente perché sentito come tale. E da tutti i cittadini. E non perché sono gli altri a imporci di combattere.
Di qui, e in secondo luogo, la faticosa ricerca di motivazioni ideologiche per giustificare un intervento imposto da altri. E così la guerra in Afghanistan, perché di questo si trattava, è stata ridisegnata dal governo italiano come missione di pace (anche perché, come stabilisce la Costituzione, l’Italia ripudia la guerra…). Al che la gente comune, quella meno ideologizzata, dopo i primi caduti ha iniziato a interrogarsi sulle ragioni delle morti di soldati nel corso di una missione di pace. Finendo per subdorare il “trucco” e per non condividere il senso di una missione che non afferrava, se non come un raggiro.
Pertanto quando Ferrara si dispiace perché gli italiani mostrano di non saper “compiangere” i propri eroi, dovrebbe interrogarsi più a fondo sulle ragioni di una guerra, pardon “missione di pace”, incomprensibili per la maggioranza degli italiani, come del resto asseriscono anche i sondaggi. Gli eroi, a prescindere dal valore individuale e dal nostro personale rispetto, per essere sentiti come tali dalla gente hanno bisogno di servire cause forti. E condivise collettivamente. Altrimenti la retorica politica neocon evocata da Ferrara al massimo celebra se stessa.