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Tv di sinistra, la critica del «manifesto» attacca vizi e degenerazioni, senza distinzioni di parte

di Conti Paolo - 27/11/2007

Piccolo schermo Norma Rangeri mette in evidenza vizi e degenerazioni, senza distinzioni di parte

 

«In televisione si nasce, si ama, si divorzia e si muore». Norma Rangeri, dal 1992 titolare della rubrica di critica televisiva «I Vespri» sul manifesto (l' idea di affidargliela fu di Luigi Pintor), sintetizza così il destino del teleutente. Tutto avviene nel piccolo schermo, che la Rangeri evidentemente ama come mezzo destinato alle masse: sul banco degli imputati, nel suo libro Chi l' ha vista? (Rizzoli, pagine 315, 17), però finisce il contenuto. Cioè la tv all' italiana. Il diario di bordo della giornalista (i brevi brani hanno il passo dei «Vespri», ma il materiale è interamente aggiornato e riscritto) assegna la responsabilità del degrado al nuovo corso dei tg: «Sono i "programmi" più visti. Senza l' assordante, pretestuoso, giornaliero tamburo sui fatti di Cogne non avremmo subìto l' ossessiva overdose dei talk-show sull' uccisione del piccolo Samuele». E chi cercasse la scorciatoia dell' antiberlusconismo per far quadrare i conti sbaglierebbe di grosso. Secondo Rangeri raccontare le vicende del Tg1 da Bruno Vespa a Gianni Riotta significa ripercorrere «la tumultuosa vicenda politica che da Tangentopoli al berlusconismo, ai governi del centrosinistra ha segnato il Paese. Purtroppo senza particolari differenze tra l' era televisiva del Cavaliere e quella del professor Prodi». Equazione che non piacerà a Palazzo Chigi. Per spiegarci bene: le accuse alle tv berlusconiane sono molte. Così come la contestazione di Bruno Vespa («sarto delle veline», autore di una tv che «gronda sangue»). Più sorprendenti gli attacchi alla tv dell' Ulivo. Per dirne una, il mito della Telekabul ai tempi di Sandro Curzi viene abbattuto a martellate: «I suoi giornalisti hanno il vizietto di parlarsi addosso, abituati a vivere in un recinto protetto dalla lottizzazione, prigionieri della sindrome da accerchiamento, con quelle camicie sbottonate dei mezzibusti sempre pronti a gratificarsi nelle autocitazioni». Addio all' aureola da martiri della libertà d' informazione, l' appunto viene da chi scrive su un «quotidiano comunista». Giulio Borrelli, ai tempi direttore del Tg1, è un «diessino che crede al potere del cerone» e che porge a Massimo D' Alema il microfono «come un innamorato». Nemmeno Giovanni Floris si salva: un «ragazzo molto prudente» che spesso «sembra Alice nel paese delle meraviglie». Ai tempi del suo «esordio stentato» appare troppo «insicuro». Rieccoci al Tg3 sotto la presidenza di Enzo Siciliano: «La Rai è una dépendance dei pidiessini. Una grande famiglia dove tutti si danno del tu. Lucia Annunziata si rivolge al segretario di Rifondazione comunista come fosse al bar davanti a un caffè: "Fausto dimmi...", "Fausto, cosa pensi"». C' è pure Michele Santoro, in verità molto elogiato per il suo coraggio. Ma non manca una goccia di curaro: «Mia madre si chiede perché si sia fatto biondo...».