Vedi Annapolis e poi muori
di Roberto Zavaglia - 27/11/2007
D
ella Conferenza internazionaledi martedì prossimo ad
Annapolis, nel Maryland,
rimarrà una bella foto di gruppo se la
maggior parte degli Stati e delle
organizzazioni invitati (oltre quaranta
e c’è persino il Brasile) deciderà di
intervenire. Ben poco di concreto,
invece, ci si può attendere da un
appuntamento che, da quando Bush
l’ha annunciato, ha perso pure la sua
definizione roboante per trasformarsi
in una più conviviale “riunione”.
Non è questione di essere pessimisti,
ma non si comprende come si possa
decidere qualcosa sulla questione
palestinese se manca uno degli interlocutori
principali, cioè Hamas, il
partito che rappresenta la maggioranza
del suo popolo, come attestato
dalle elezioni del gennaio 2006.
Nemmeno il “disponibile” Abu
Mazen, del resto, è riuscito a sottoscrivere
con gli israeliani quel documento
congiunto che avrebbe dovuto
fungere da guida dell’incontro. Ehud
Olmert, il quale, al pari del suo interlocutore
palestinese, avrebbe tutto
l’interesse a mostrarsi desideroso di
un accordo, ha concesso talmente
poco che la carta delle buone intenzioni
è rimasta bianca.
La riunione, però, si terrà lo stesso
perché lo vuole fortemente l’Amministrazione
USA che intende spostare,
per un po’, l’attenzione
dai disastri in Iraq e
Afghanistan. Anche Bush,
come suo padre e come Clinton,
desidera lasciare, al termine
del suo mandato, l’immagine
di un Presidente impegnato
a risolvere l’annoso conflitto.
È ovvio che qualsiasi concessione
israeliana può essere
imposta solo con una forte
pressione degli USA. In questa
stagione elettorale, in cui nessuno
vuole inimicarsi la lobby
ebraica - che, come dicono gli
amici dei sionisti, forse non
esisterà, ma comunque funziona
benissimo - si può indovinare
quanta voglia avranno Bush
e la Rice di mettere alle corde
il Premier israeliano.
Il Quartetto (ONU, UE, USA e
Russia) che avrebbe dovuto
agevolare la trattativa fra le
parti in causa si è lasciato
governare dalla volontà di
Washington, come ha riconosciuto
l’inviato speciale dell’ONU,
Alvaro de Soto. Il pilastro
della politica statunitense è
stato la non accettazione del
risultato delle elezioni palestinesi,
svoltesi in modo regolare,
come riconosciuto da tutti gli
osservatori, con la conseguente
imposizione di severe sanzioni
economiche ai palestinesi.
Dopo gli scontri a Gaza che
hanno visto la vittoria delle
milizie di Hamas su quelle di
Fatah, gli israeliani hanno
aumentato le ritorsioni contro
quella che definiscono
un’“entità nemica”. Il blocco
della Striscia si è intensificato,
anche attraverso ripetuti tagli
all’energia elettrica e ai rifornimenti
di carburante, mettendone
in ginocchio la già precaria
economia. Il 60% degli impiegati
in attività private ha perso
il posto, le derrate alimentari
scarseggiano e il loro prezzo
sale di conseguenza, ma la
situazione più drammatica è
forse in campo sanitario. Si
pensi che, oggi, solo 5 malati
al giorno possono recarsi a
ricevere le necessarie cure in
Israele e Cisgiordania contro i
40 del luglio scorso.
Il piano, evidentemente, è
quello di tormentare i cittadini
di Gaza e allentare parzialmente
la morsa nella West Bank in
mano a Fatah, per indurre i
palestinesi ad abbandonare il
partito religioso e accettare il
male minore. Non è detto che
la mossa riesca, perché i palestinesi,
di solito, nella massima
sofferenza cementano la volontà
di resistenza. Secondo il
sondaggio più recente, infatti,
il capo del Governo di Hamas
è al 51,38% dei consensi nei
territori occupati, mentre Abu
Mazen si deve accontentare di
un modestissimo 13,73%. In
seguito agli scontri di Gaza, le
cancellerie occidentali hanno
accusato il partito religioso di
avere effettuato un golpe,
impossessandosi di tutto il
potere nella Striscia.
A parte che si sarebbe trattato
di un autogolpe, essendo
Hamas a reggere il Governo,
sono emersi, negli ultimi tempi,
alcuni elementi, ovviamente
silenziati dal network mediatico
internazionale, che servono
per capire quanto sia successo.
Dopo il ritrovamento di grandi
quantità di armi fornite dagli
statunitensi e dagli israeliani e
per la stessa ammissione di
alcuni suoi collaboratori, si è
compreso che chi stava preparando
un colpo di mano era
l’“uomo forte” di Fatah a
Gaza, Mohammed Dahlan, il
quale se l’è data a gambe non
appena ha compreso che le sue
truppe, pur superiori militarmente,
stavano soccombendo
contro i più determinati avversari.
Si tratta dello stesso Dahlan
che, adesso, gli USA
vogliono presente all’incontro
di Annapolis e, secondo alcuni,
stanno cercando di imporre ad
Abu Mazen come suo vice.
Quando si dice le coincidenze…
È sconcertante che la più grande
potenza internazionale, con
l’assenso di tutte le altre, pensi
di ridurre le gravi conseguenze,
in tutto il Medio Oriente e
non solo, dell’irrisolta questione
palestinese con raffazzonati
accorgimenti cosmetici come
quelli che emergeranno dal
prossimo vertice. Non si vuole
capire che l’ascesa di Hamas è
stata causata da vari fattori, ma
quello decisivo consiste nella
delusione dei palestinesi per il
vicolo cieco in cui si erano arenate
le trattative di pace. Basta
anche un solo dato per chiarire
la situazione: dal 1993 al 2000,
mentre l’OLP riconosceva
Israele e firmava svariati
accordi di transizione, il numero
dei coloni ebrei nei territori
occupati è raddoppiato. Israele
“trattava” per restituire la terra
e intanto ne occupava sempre
di più.
Adesso, per l’ennesima volta,
un Governo israeliano promette,
imponendo ogni sorta di
condizioni, la nascita dello Stato
palestinese, ma quale Stato
può sorgere in una Cisgiordania
riempita di inaccessibili cittadelle
nemiche, con strade
vietate alla popolazione autoctona,
con un muro che entra
nei suoi confini e dove i posti
di blocco dell’esercito israeliano
sono saliti dai 376 dell’agosto
2005 ai 572 attuali? Si
riesce ad immaginare cosa
significhi nascere, vivere e
magari anche crepare perché
non si riesce a raggiungere l’ospedale,
in una nazione dove i
tuoi nemici impediscono o
controllano i tuoi movimenti,
ogni giorno dopo l’altro, da
ormai 40 anni?
Hamas, si dice, avrà pure vinto
le elezioni, ma non riconosce
Israele ed è un movimento islamista
di matrice terroristica. La
carta del riconoscimento del
nemico è, però, la sola che
resta al partito islamico e non
ha senso chiederla preventivamente,
ma solo dopo un accordo
finale. Inoltre, Hamas non
ha mai compiuto attentati all’estero
e ha sempre dichiarato di
non avere come nemico l’Occidente,
ma di voler condurre
solo la lotta di liberazione
nazionale. Anche se non mancano
ombre sui suoi princìpi
ideologici, è possibile che oggi
Hamas sia, invece, l’ultimo
baluardo contro un’infiltrazione
di terrorismo jihadista nella
disperata popolazione palestinese
che, finora, ne è stata
immune. Ma siamo proprio
sicuri che non ci sia chi trama
affinché la questione palestinese
venga espropriata da un
nuovo, improvvisato bin
Laden, per cancellarla definitivamente
dall’agenda politica
internazionale?