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Il paradosso della coscienza. Uno o molti?

di Francesco Lamendola - 29/11/2007

 

Uno dei problemi più affascinanti dell'ontologia è quello circa la reale natura della coscienza e, in particolare, se essa sia davvero sussistente e unitaria o se non sia che il temporaneo punto di equilibrio fra una pluralità di stati coscienziali, in presenza dei quali sorge il dubbio se si possa ancora parlare di una realtà unitaria. Non intendiamo qui parlare dei casi che la psicologia considera patologici, come la schizofrenia o la sindrome della personalità multipla; e nemmeno di quella tendenza dell'essere umano ad assumere maschere di volta in volta considerate socialmente necessarie, che Pirandello ha sintetizzato nella formula uno, nessuno e centomila. Intendiamo alludere invece a una più profonda e radicale condizione di lacerazione dell'io, dovuta alla sua stessa condizione ontologica: quella tra la condizione finita e l'aspirazione all'infinito; tra la dimensione fisica e corporea dell'esistenza e quella intellettuale e spirituale; tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.

A nostro parere, non è affatto esagerato parlare di una vera e propria ferita che caratterizza il nostro status originario di persone. La lacerazione tra opposti impulsi ed esigenze, non di natura temporanea e contingente, ma di natura globale, non è un qualche cosa che sia frutto di una condizione storica - anche se, non abbiamo alcuna difficoltà ad ammetterlo, il particolare clima spirituale della modernità, nel quale ci troviamo a vivere, contribuisce di per sé ad accentuare la lacerazione e a spargervi sopra, per così dire, il sale di una ulteriore  sofferenza. La ferita di cui parliamo è piuttosto di natura strutturale e caratterizza la condizione umana in quanto tale: non nel senso che essa sia ontologicamente disarmonica, ma nel senso che l'esercizio della libertà morale, senza il quale non si potrebbe neanche parlare di persona nel senso autentico della parola, reca con sé, inevitabilmente, l'angoscia della possibilità e, quindi, di una profonda disarmonia che è inseparabile dal nostro essere uomini, qui e ora.

A questo proposito si suol dire e ripetere che l'animale, essendo privo di libertà, è anche privo di angoscia e che l'angoscia, per conseguenza, è un fatto specificamente umano, una sorta di blasone di nobiltà della nostra specie. A dire il vero, noi non ne sappiamo abbastanza sulla natura della coscienza degli altri viventi per fare un'affermazione così recisa; e, tanto per fare un semplice esempio, un cane che abbaia alla luna potrebbe anche dar voce alla propria angoscia esistenziale, così come noi le diamo voce nelle forme che sono proprie alla nostra specie. Quanto alla libertà, potremmo avanzare qualche dubbio circa il fatto che gli animali - per limitarci agli animali; ma un discorso analogo vale per le piante e, forse, perfino per la natura cosiddetta inanimata - ne siano totalmente sprovvisti. Un cane che si lascia morire di fame sulla tomba del padrone, per fare un altro, semplice esempio, ci sembra indicare tutt'altro che una mancanza di libertà di scelta. Forse sbagliava Leopardi quando, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, affermava che solo l'uomo prova angoscia e inquietudine anche dopo aver soddisfatto le esigenze primarie della propria sopravvivenza. Ma non intendiamo approfondire la questione, che ci porterebbe lontano dal nostro assunto, e ritorniamo al punto.

A noi pare che lo statuto ontologico della persona sia caratterizzato da una incompletezza originaria che non è - propriamente parlando - frutto di disarmonia, quanto piuttosto segno e testimonianza di una aspirazione all'unità e all'armonia, di una nostalgia verso quell'Essere da cui promana e al quale anela a far ritorno. La persona, infatti, ha l'essere ma non è l'essere; possiede un essere contingente, non la pienezza dell'essere: quasi un pegno e una caparra d'infinito, che gli rende più acuto e struggente il desiderio di riconquistare ciò che gli manca; e che, tuttavia, in qualche modo - egli lo sente, sia pure in maniera oscura - gli appartiene.

In fondo, si tratta del grande problema della morte.

L'uomo sa con assoluta certezza, dal momento in cui viene al mondo, una cosa soltanto: che dovrà morire. Tuttavia, qualche cosa in lui non si rassegna: e non per cieco e irrazionale attaccamento alla vita (anche se in molti individui tale rifiuto assume una simile forma), bensì perché egli intuisce di essere il depositario di un bene incommensurabile che gli deriva dalla sua stessa condizione originaria. In altre parole, l'uomo intuisce di essere fatto per la vita e non per la morte; che il fatto di essere implica la promessa di poter partecipare all'unità e all'eternità dell'Essere; che il suo porsi nel mondo non può nascere da altro che da un movimento che dall'essere parte e all'essere vuole e può e deve fare ritorno. In un modo che essa non sa bene spiegarsi, la persona avverte che la sua vita corporea non è la vita vera, non è l'unica cosa che possiede; che il suo essere non si identifica con essa: ma sente, al contrario, di essere la beneficiaria di un lascito incommensurabilmente grande e magnifico, che qualcosa o qualcuno ha fatto a  suo favore nel momento stesso in cui essa èstata chiamata, insieme ad ogni altra cosa, all'esistenza.

Perché mai le cose si darebbero la pena di esistere, se fosse per il nulla? Perché, nella persona, l'esistente avrebbe raggiunto l'autocoscienza, se dovesse contemplare solamente la propria nullità e  il proprio camminare verso l'annientamento totale?

 

C'è una bella pagina del teologo francese Réné Le Troquer (pochissimo noto in Italia, ed è un peccato), che illustra l'aporia fondamentale della condizione umana e, da un punto di vista quasi esistenzialista - l'esistenzialismo di Gabriel Marcel, non quello di Sartre - apre un potente squarcio d'azzurro e di libero cielo nella opprimente atmosfera che caratterizza la presa di coscienza di essa da parte dell'individuo (R. Le Troquer, titolo originale Homme, qui suis-je?, Fayard, Parigi, 1957; traduzione italiana di Maria Teresa Garutti, Chi sono io?, Catania, Edizioni Paoline, 1958, pp. 84-89):

 

“Dal momento in cui l’uomo si sveglia alla coscienza di sé, vale a dire non appena egli è capace di assumere, almeno in parte, la propria esistenza, egli sembra essere soggetto a un doppio movimento che gli rivela in qualche modo l’ambiguità del proprio essere e gli fa sentire il paradosso della sua condizione fisica e spirituale, la complessità della sua situazione. (…) La realtà umana, la cui unità è tensione e lotta,  nasconde in sé germi di lotta e di rottura  che possono diventare effettive ferite. In quanto complesso, l’uomo corre il rischio di accordare privilegi all’aspetto fisico e temporale del suo essere, senza che peraltro egli possa eliminare l’aspetto spiritual;, come dice eroe di Dostojevsky: «Sì, veramente, io mi divido in due e proprio di questo ho paura. È come se il vostro sosia stesse vicino a voi». Questi rischi hanno radici nella nostra natura, spirito e carne, nella nostra vocazione che su svolge nella libertà, nella nostra fondamentale limitazione di esseri creati; per ognuno di noi essi diventano realtà quotidiana.

"Una prima evidenza ci si impone: siamo in una situazione, cioè in un intreccio di relazioni, nell'universo e nel mondo degli uomini.

"Prendiamo coscienza di noi stessi all'interno di questo universo materiale che ci circonda e ci avvolge. Infatti, nel momento in cui ci svegliamo all'esistenza, perché il mondo fa irruzione in noi, ci rendiamo conto di essere diversi da tale mondo e al tempo stesso uguali., dato che partecipiamo della stessa misteriosa realtà, l'esistenza. Siamo in un clima fraterno con l'universo in cui dobbiamo operare, non solo per trarne i nostri mezzi di sussistenza, ma anche per trasformarlo, umanizzarlo e spiritualizzarlo. Immediatamente, tuttavia, sorge l'ambivalenza di questa relazione con il mondo. "Nel risveglio della nostra coscienza in seno all'universo, non possiamo non risentire degli strani limiti e scopriamo tosto un elemento di debolezza e fragilità che nessun diversivo potrà farci evitare. Sappiamo di correre il rischio di lasciarci dominare da ciò che pensavamo di aver padroneggiato, e questo rischio sembra oggi diventare una dolorosa realtà sotto la spinta di una scienza e di una tecnica che sembrano aver perso ogni legame con l'umano in ciò che esso ha di profondo. Il 'suicidio cosmico' di cui parlava il filosofo Nicolai Hartmann può ben verificarsi, poiché la semplice virtù scientifica non è certo sufficiente per impedire a tale pericolo di diventare una realtà. Siamo colpiti da questo paradosso che manifesta la profonda disarmonia dell'uomo e dell'universo: la paura dell'uomo di fronte alla natura progressivamente dominata sembra accrescersi di pari passo con il suo potere su di essa. La lotta è diventata il centro delle relazioni con l'universo; l'uomo è il padrone ma può diventare lo schiavo; egli si erge quale prodigioso dominatore al di sopra del mondo visibile, ne capta le più segrete energie; ma gli è tanto sottomesso da cedere finalmente alle forze congiunte della materia, senza poter intravedere contro di essa una rivincita sicura o appena possibile. L'armonia fraterna delle origini sembra essere diventata davvero una profonda disunione.

"Nel mondo degli uomini sperimento lo stesso paradosso. Sappiamo certo che la grandezza della nostra esistenza è di non essere solitaria; 'l'uomo non è un'isola', Noi tendiamo essenzialmente all'unione e alla comunione fra gli uomini; sappiamo di essere solidali gli uni con gli altri, non solo nell'indigenza della nostra vita materiale, ma, anche e più autenticamente, sul piano della sovrabbondanza della nostra vita spirituale, per mezzo della conoscenza e dell'amore. Sappiamo così che nella nostra relazione all'uomo sorge la nostra autentica e personale esistenza, questo è il dritto, ma ben presto si presenta il rovescio della medaglia. Se siamo capaci dei migliori sentimenti e dei più efficaci slanci verso il bene e l'amore, siamo egualmente capaci di malizia e di egoismi che rovinano ogni amore; succede inoltre che il nostro amore per l'uomo non venga ricambiato, ma tradito., e che i nostri intimi sentimenti siano male interpretati, «Egli scaccia i demoni in nome di Belzebù, principe dei demoni» (Lc., 11, 15).Gli uomini dovrebbero mirare a questa unione e comunità di esseri fraterni, partecipi della stessa vita e animati dallo stesso spirito, ma sul piano politico ed economico la lotta delle classi è un fatto che nessuno può negare, fra le nazioni la guerra è allo stato endemico, e su tutti gli orizzonti l'uomo è spesso oppresso dal suo simile. In effetti la storia dei rapporti umani è forse semplicemente la storia dei loro conflitti. La società, sotto la spinta di ideologie, non è più dell'uomo, ma, servendosi dell'uomo, lo riduce a strumento, la cui unica libertà è di entrare in quel movimento che lo rende schiavo. Ha forse ragione Sartre quando scrive: «L'essenza dei rapporti fra coscienze non è il 'mit-sein' (essere con), ma il conflitto» (L'Etre e le Néant), oppure ancora, nella rase diventata celebre: «L'Inferno, sono gli altri» (Huis Clos)?

"Se dalla sfera più evidente della nostra esistenza, quella delle relazioni, ci volgiamo verso l'intimità del nostro essere, nel suo dinamismo e nella sua realtà, proviamo un identico sentimento. D'altronde, questo conflitto che l'uomo prova nella sua situazione, nell'universo e nel mondo degli uomini, ha radici nella alterità dell'uomo con se stesso. Attraverso tutti i nostri atti proviamo una strana indigenza basata su un sentimento d'impotenza e, al tempo stesso, su un'aspirazione mai colmata e tuttavia reale.

"È certo che il pensiero in noi non si realizza mai pienamente e che la nostra volontà incontra invincibili ostacoli in ciò che vuole e che penetrano di soppiatto incurabili debolezze in ciò che fa. Nella sua azione l'uomo sembra tendere verso l'infinito («non possiamo amare nulla - scriveva il filosofo tedesco Fichte - se non lo consideriamo come eterno»), e spesso non afferra che il finito; nella sua ricerca egli somiglia al fanciullo che corre dietro la propria ombra senza mai poterla raggiungere.

"Per la debolezza dei nostri sentimenti e l'incostanza dei nostri desideri, inseguiamo avidamente il possesso degli esseri e delle cose, ma la realizzazione delle nostre speranze ci lascia spesso a bocca asciutta. Vi è  in noi, con la nostalgia dell'eterno, una incostanza e capacità grandissima di oblio, e possiamo ripetere le parole di san Paolo: «Non il bene che voglio io fo, ma il male che non voglio questo io faccio» (Rom., 7, 19).

"Una frattura alla quale la nostra ragione non trova alcun rimedio, avviene alla giuntura stessa del nostro essere. La morte fa del personaggio umano un 'defunto', cioè qualcuno che non ha più alcuna parte da rappresentare sulla scena degli uomini, ciò che giustifica questo amaro discorso di Achille: «Non mi parlare della morte! Preferirei essere un bifolco e servire per un salario, essere un uomo povero che ha appena di che nutrirsi, piuttosto che comandare a tutti i morti i quali non sono più». Attraverso tutte le fluttuazioni del tempo, scopriamo che siamo degli 'esseri-per-morire'; e attraverso gli insuccessi, le separazioni e il nostro stesso invecchiare, nasce in noi il pensiero che la vita, dopo tutto, è forse solo un'attesa della morte. Tuttavia, in questa esperienza, ciò che d'altronde ne assicura la consistenza, si fa strada una profonda aspirazione a superare i limiti dello spazio e del tempo, a tendere verso un super-essere che altro non è se non l'aspirazione a non morire; veniamo allora, per così dire, respinti verso il mistero della nostra esistenza, e posti di fronte alla questione fondamentale, quella di sapere se la vita vale o non vale la pena di essere vissuta.

"Vi è nell'uomo una contraddizione interna in questa dialettica dell'assoggettamento er del superamento, della debolezza e della grandezza, dell'affermazione e della negazione, che crea conflitto e sofferenza nella coscienza umana. Tale conflitto sembra avere le radici nella limitazione del nostro essere, nella sua contingenza, cioè nel fatto che portiamo in noi il distintivo del nostro 'nulla' originale e che non godiamo di alcun genere di necessità. Ma si raggiunge così il fondo stesso del problema? Il conflitto non è forse il porre di fronte l'uomo all'uomo, nella coscienza della sua inadeguatezza e del suo frazionamento; non è il porre l'uomo di fronte a Dio?"

 

Ora, sono proprio la categoria della libertà e le sue inevitabili compagne, angoscia e inquietudine, che ci forniscono la bussola per orientarci nel mare nebbioso e tempestoso dell'esistenza. L'unità della coscienza si regge con fatica al di sopra del magma ribollente della ferita originaria. Quel che può far pendere la bilancia verso la dissoluzione irrimediabile dell'io oppure, al contrario, verso le forze centripete che preludono al reintegro della persona nell'essere, è precisamente la scelta che noi, posti nella situazione dell'esistenza, volta a volta operiamo per poterci determinare appunto come persone.

Dare la preferenza alla nostra componente transitoria e contingente significa aprire la strada a quella discesa verso le tenebre che caratterizza un'esistenza disperatamente rivolta ad inseguire la propria fine. Puntare, al contrario, sulla componente necessaria e imperitura del nostro io, significa gettare un ponte in direzione dell'unica possibile redenzione dal nostro essere-per-la-morte e creare le premesse, mediante il potenziamento della nostra spiritualità superiore, del nostro reintegro finale nell'Essere originario, nell'Assoluto e nell'Eterno.

A noi la scelta.