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Che ne sarà del Kosovo?

di Antonio Cantarella - 28/12/2005

Fonte: Continente Eurasia

 

Gli ultimi giorni del  2005
riservano un’altra sorpresa, oltre al
precoce maltempo che  investe  la
penisola. Siamo agli ultimi
sgoccioli di una decisione che avrà
impatti storici ed emotivi sul popolo e la nazione serba,
nostri vecchi vicini di  confine in tempi jugoslavi. A
quanto pare si sta decidendo per una “soluzione finale”
nei confronti del Kosovo e si parla  persino  di
indipendenza (che significa creare un satellite albanese
con usufrutto statunitense).
La preposizione che precede la  parola  Kosovo
nel titolo non è un errore di stampa,  bensì  la
personificazione di un referente culturale - linguistico
essenziale nel vocabolario storico e mitico dei Serbi.
È infatti in Kosovo che si  genera  l’idea  della
Serbia  come barriera della Cristianità nei confronti
dell’espansione turco-musulmana sin dal medioevo. È
là che si definisce il destino di tutto un popolo, che ha
abdicato alla gloria terrena perdendo parte del territorio
nonché  lo  status  di impero, per una gloria celeste
futura. La storia e la leggenda si sono mescolate qui in
Kosovo  creando  non  solo una letteratura di tipo
cavalleresco e patriottico, ma gettando le  basi per una
coscienza e un pensiero che fin dal secolo scorso sono
divenuti di natura principalmente politica.
Negli ultimi  anni la mistificazione mediale  ha
prodotto  ogni  sorta di informazioni sull’argomento: la
guerra  faceva notizia  e si è sentito un po’ di tutto. La
maggior  parte  di  queste erano però dettate da
accertamenti  di  seconda mano e comunque visti solo
da una delle parti, mai si è sentita  la necessità di una
informazione  e  conoscenza ulteriore delle cose. Pochi
gli inviati, ancor meno quelli preparati.
Quello che era visto come una semplice
rivendicazione di un territorio era in realtà il dramma di
una nazione che si vedeva cancellare le impronte della
sua storia dall’interno, senza che potesse fare nulla per
impedire  questo  eccidio culturale. Potere della
democrazia.
Per  lungo  tempo la  Serbia ha difeso le proprie
idee e non ha soddisfatto gli avversari, ma la situazione
economica sta peggiorando: l’inflazione galoppante,
l’Unione  Europea che minaccia  di isolare lo Stato,
l’occidentalizzazione  che i più giovani subiscono
attraverso una ridondante propaganda di consumi  che
abbiamo già avuto occasione di conoscere e non
approvare.  La disoccupazione è forte e molti sono i
sacrifici che vanno affrontando  per riacquistare  una
posizione degna di uno Stato sovrano di diritto.
Di una risoluzione per l’affaire  Kosovo se ne
parla già dal marzo dell’anno scorso quando la pulizia
etnica nei confronti dei serbi ha reso  necessario un
intervento (benché le forze di pace occupanti presenti
sul territorio non  abbiano mosso  un dito  durante  lo
svolgersi degli eventi).
Un  patrimonio  inestimabile di chiese ortodosse
distrutte, bruciate.
Ricordo che i nostri media ci hanno fatto credere
che il motivo del conflitto fosse stato l’assassinio  di
alcuni bambini albanesi e ovviamente  il  popolo  delle
nazioni civili ha ingollato la minestra senza sale e senza
olio. Potere delle parole in società dove c’è il culto  del
superfluo, delle giustificazioni legittimate e della fiducia
nelle istituzioni “indipendenti”: benché  le  indagini
dimostrassero una realtà  sconcertante, nessuno  ha
avuto un moto di fastidio. Che diamine, avevano ucciso
dei  bambini! Nonostante  la situazione i serbi non
cercarono di attaccare o di  difendersi  agli  occhi  della
Comunità Internazionale. Troppe cose non capirebbe di
una nazione dove il mito  ha  ancora  posto  nella
costruzione dei fatti sociali.
Nasce  il bisogno di elaborare un programma
risolutivo della questione. Il  governo  sottolinea  che
KFOR  e  MINUK  non sono in grado di proteggere gli
abitanti. Un anno e mezzo fa il Kosovo era considerato
“parte ineliminabile della Serbia” (o – se si preferisce –
dello stato serbo-montenegrino) come si  dichiara  nel
postulato di riferimento alle  azioni  propositive  della
risoluzione.
Cominciano a delinearsi ipotesi  di  suddivisione
della  regione: cantoni svizzeri con città multietniche
(riferendosi all’esempio del piano Vance-Owen
applicato alla Bosnia-Erzegovina) o pura spartizione?
A quanto pare la cantonizzazione non accomoda
alcune delle parti che  rivendicano  ambedue  la
mancanza di  potere in alcune zone  o la possibilità di
elevata ingerenza in altre; frattanto si esegue una sorta
di spartizione etnica, creando dei  comuni  a
maggioranza serba con l’intento di dividere  il  Kosovo
serbo dalla Metohija albanese a favore di quest’ultima.
Le forze in causa (che intendono indebolire i serbi in
modo da avere il dominio sulla regione)  si  dirigono
verso la monoetnicità. Si parla  anche  di  scomporre
Pristina  in  comuni  a base etnica. Per buon governo,
dicono. Ma chi parla in realtà?
Le  decisioni  di Belgrado sono monitorate
affinché  sia  impedito di affrontare serenamente la
questione: alcuni si esprimono a favore  dei  cantoni
vedendovi una soluzione “illuminante”, mentre le voci di
un’anticamera all’indipendenza vengono messe a
tacere. L’integrazione euro-atlantica è cominciata.
Il  primo  confronto tra serbi e albanesi porta la
data giugno 2005, località  Pristina.  Presiedono  il
dibattito figure non di primo piano. Rugova, il presidente
del Kosovo, non si presenta.  I  termini  del  dibattito
cominciano  a cambiare. Le dichiarazioni del croato
Pusic ricordano quanto sia lungo e costoso il cammino
verso la democrazia e che l’indipendenza kosovara può
solo giovare alla Serbia. È interessante notare come ciò
sia  stato detto da uno “straniero ma non troppo”,
ricordando i recenti antefatti storici liberi dagli atavici odi
ripristinati negli anni ’90  e le vere  motivazioni  degli
alterchi sul Kosovo, spinti da interessi tedeschi mediati
appunto dalla Croazia del nazionalista  Tudjman.  Si
discute di quei 200000 Serbi e Rom fuggiti dalle loro
abitazioni; del rispetto delle minoranze in  un  Kosovo
indipendente; dell’azione di protettorato imposta
dall’ONU,  vero  problema e non risoluzione della
responsabilizzazione  delle istituzioni della regione.  La
conferenza non ha visto molti rappresentanti del
Kosovo  serbo che adottano una strategia di
boicottaggio. Dagli anni ’90 non si  verificavano  più
incontri tra i rappresentanti delle  due  etnie,  il  tutto
prende una  piega sentimentale che segue all’incontro
ufficiale,  dove  si  sviluppano ancora più idee e forse,
proprio per la natura più informale dei  colloqui,  più
costruttive. Ma di queste non resterà nota.
Nel frattempo si crea una frattura tra il governo e
i serbi del Kosovo, poiché uno di questi ha dichiarato di
unirsi all’assemblea locale (maggioranza albanese) per
protesta. Il governo ha espresso parere sfavorevole:
“nessuna partecipazione senza maggiori garanzie – è la
posizione richiesta dal governo  alla  comunità
internazionale, senza cui “non ha senso  alcuno  la
partecipazione serba  alle istituzioni locali  kosovare
(Tadic, presidente della Serbia che proprio pochi giorni
fa  ha  riferito di accettare l’idea di un referendum per
l’indipendenza del Montenegro, ma di non  sostenere
quella del Kosovo, a cui lascerebbe ampia autonomia).
La presa di posizione è importante e così anche
la rottura dei serbi di Kosovo nei confronti della politica
di Belgrado, seguita fino a questo punto. Seguirà nuova
tensione, stavolta fra serbi e albanesi, i quali offrono un
governo autonomo a livello locale in alcune municipalità
ai  primi;  questi comuni sarebbero “etnicamente
equilibrati”, ma i serbi rifiutano. L’idea sarebbe di  dare
voce  alle minoranze rendendole maggioranze in zone
circoscritte,  anche se la realtà non trova concreti
riscontri di ciò da parte delle autorità kosovare, tanto è
vero che il ministro  delle amministrazioni locali in
Kosovo Lutfi Haziri dichiara che “non è stata prevista la
creazione  di  strutture autonome serbe”. Altri
confessano  di temere un’egemonia serba in zone di
traffico vitale per la regione. La posizione  dei  serbi  in
Kosovo  si  deteriora sempre di più e diventa temibile
invece il futuro che si presume dalle nuove dichiarazioni
sulle trattative che cominciano i primi di settembre
Molte le ipotesi:  autonomia,  indipendenza,
decentralizzazione…la Comunità Internazionale, arbitro
cornuto dedito alla formula del colpo al fiasco e poi alla
botte affinché tutto resti in equilibrio (comunque
precario) per confermare il proprio schema di  gioco  si
inventa la “semiindipendenza”.
È chiaro che la decentralizzazione non piace  a
molti.  Il  MINUK  afferma  che è solo un metodo di
controllo etnico secondo principi  politici  senza
avvicinamento democratico  del cittadino al potere. La
pietra è stata lanciata nello  stagno del governo, in un
momento  difficile pieno di sfide aperte, dove tutto è
provvisorio e labile, come l’elettricità tolta di frequente ai
centri a maggioranza di popolazione serba per problemi
di centrali e collegamenti. Ma  Belgrado  rilancia,
dopotutto è ancora il suo territorio: la decentralizzazione
è un processo che si sviluppa in tutta Europa e gioca a
favore di una democratizzazione generale (del Kosovo).
Esclusa  l’opzione di spartizione territoriale (non
voluta dall’Occidente). La scusa è che la Serbia possa
tentare un’annessione forzata (qualcuno  dovrebbe
prima spiegare come e perché annettere  un  territorio
già  proprio). A ogni modo questa soluzione
genererebbe – secondo le previsioni – a un  confronto
con la NATO, e già abbiamo conosciuto gli esiti dei loro
“confronti”, specie in questa zona  d’Eurasia. Anche
l’indipendenza viene considerata fuori luogo, soprattutto
pensando a quanto detto dall’entourage diplomatico. Si
sceglie quindi una tattica di soddisfacimento delle parti
andando a puntare durante i colloqui a problemi tecnico
–  amministrativi, fra cui la cantonizzazione secondo il
modello  svizzero,  con  relativi consulenti inviati in loco
per studiarlo. Lontana da  rappresentare  una  garanzia
alla  libertà di movimento, questa proposta creerebbe
condizioni istituzionali di segregazione fisica  della
popolazione serba di Kosovo nella vita politica e civile
della provincia, degradazione socio-politica  capace  di
muovere a ulteriori conflitti nei comuni multietnici in
nome della difesa contro i “terroristi” e alla creazione di
milizie armate.
Arriva una nuova proposta dal centro di
coordinamento serbo per il Kosovo e  la  Metohija  che
parla di un mantenimento  della  sovranità  serba
delegando alla regione i poteri  esecutivi  legislativi  e
giudiziari; la soluzione  servirebbe  a  garantire
quell’ampia autonomia di cui si è  parlato  e  a
smilitarizzare la zona. Tutto nel rispetto della risoluzione
1244 del Consiglio di Sicurezza  delle Nazioni Unite.
Nelle parole  di Sanda Raskovic-Ilic, nuovo  presidente
del centro menzionato, questa decentralizzazione vuole
prevenire  la divisione della regione e non intende
creare una via all’indipendenza. Sono però in  molti  in
Kosovo che accetterebbero solo quest’ultima
condizione. Esistono almeno  nove  formazioni  armate
che battono il territorio: la maggior parte sono albanesi,
ma la stampa parla, o conosce, solo quelle serbe: ogni
banda  si  pone obiettivi diversi e aspira a qualche
vantaggio; generalmente operano su piccole porzioni di
territorio, ma le più forti hanno veri e propri eserciti
strutturati che complicano la  geografia  e  la  diplomazia
all’interno del Kosovo,  inteso  soprattutto come entità
provinciale.
In  una  intervista al Danas l’ambasciatore di
Serbia e Montenegro a Parigi Predrag  Simic  dichiara
che una  risoluzione  da ricercare in così poco tempo è
tirata  per i capelli e rischia di creare problemi seri, dal
rischio dell’epurazione degli ultimi serbi alla distruzione
del  patrimonio culturale e quindi all’omogeneità
nazionale.  A  suo  giudizio va ricercata una soluzione
armonizzata all’ingresso della nuova  Jugoslavia
nell’Unione Europea. In questo caso  si  impedirebbe  la
possibilità di un rigurgito antidemocratico  in  grado  di
mettere in pericolo la sovranità del Paese e  l’intero
processo di transizione che va svolgendosi. In più Paesi
vicini e lontani non possono permettersi di influire sulle
scelte dello Stato, come  la Carta delle Nazioni Unite
vuole e testimonia.
Simic sa bene che non è realistico né
desiderabile pensare a un ingresso immediato della
Serbia in UE, ma trova molto importante l’inizio  di  un
dialogo  e  dei  negoziati,  come per la Turchia e la
Croazia.
Anche Nebojsa Covic,  precedente  presidente
del Centro di coordinamento per il Kosovo sostiene che
la Serbia non è pronta a un  cambiamento  epocale
come quello che si prospetta. Lo stesso  ha  trovato  di
dubbio  approccio che siano stati interrogati  solo  due
partiti per la preparazione della  risoluzione,  mostrando
che  rispetto  all’approccio albanese alla  questione  ci si
sta comportando poco seriamente (i partiti  albanesi
mossisi rappresentano il 97 % della  popolazione
albanese kosovara).
Covic non è d’accordo con la proposta russa di
divisione  del  Kosovo a  causa della creazione di
condizioni  di  vita anormali  a cui si giungerebbe;
comunque la comunità internazionale  aveva  già
applicato il veto, ma senza  rispettare  le  attese  del
governo sulla questione. Alla domanda di un seggio al
palazzo di vetro per il Kosovo, Covic risponde che  la
cosa più importante per i serbi è poter restare nelle loro
case sulla loro terra, ma questo non tutti i giornalisti lo
possono capire.
I giorni della grande decisione arrivano: il KFOR,
la polizia internazionale e locale si preparano a sedare
qualsiasi malintenzionato si affacci sulla piazza: “hanno
provato  che  sanno come rispondere alle
provocazioni….tutte  queste  forze di sicurezza non
permetteranno una  nuova escalation di  violenza
(Jessen-Petersen,  capo della missione delle Nazioni
Unite in Kosovo)
Jessen-Petersen ha spiegato che la risoluzione
deve tutelare tutte le minoranze e che la voce dell’ONU
sarà molto importante nella scelta da affrontare. La
provincia sarà amministrata in funzione della risoluzione
1244, scartate ipotesi di  referendum per  decidere
l’avvenire  politico  dal basso. Ho la  netta impressione
che la risoluzione non sarà altro che un compromesso
fra le nazioni più forti e presenti in Kosovo e tenderà a
una disgregazione sul piano sociale, con unici vantaggi
per futuri investimenti o forze di pace  e  sicurezza  a
vigilare. Abbiamo già visto una metodologia simile con
gli accordi di Dayton per la Bosnia e  il  sistema  ha
funzionato tanto da suggerire una riproposta a breve.
In tutte queste considerazioni restano  molti
dubbi sul futuro  – o la fine – sia del Kosovo  che  della
nazione serba come la conosciamo.
Asportare il Kosovo alla Serbia è  prima  di  tutto
un delitto culturale: un territorio considerato da sempre
il cuore della nazione, fonte di storia  (una  storia
importante per l’Europa intera, da quando  l’esercito
serbo  e quello  turco si scontrarono in Kosovo Polje in
difesa della Cristianità) e tesoro di monasteri e  chiese
ortodosse.  Il legame che si ha con il Kosovo  non  è di
mero diritto su un territorio su cui imporre balzelli. È una
questione che preme fortemente tutti i serbi.
Le discussioni tanto  accese sull’indipendenza o
l’autonomia dimenticano una cosa: il Kosovo  ha  una
piena autonomia sin dai tempi di Tito, quando  gli  fu
assegnato lo status di provincia autonoma assieme alla
Vojvodina (anch’essa in territorio serbo). Ciò fu fatto per
rispettare le minoranze etniche  presenti  nei  territori,
benché non furono presi gli stessi provvedimenti per
esempio, con l’Istria o la Kraijna croati. La differenza tra
le repubbliche e le  province consisteva solo
nell’impossibilità di queste ultime a dichiarare
l’indipendenza,  mentre avevano piena decisionalità
nelle  assemblee. Chiaramente la  presenza di queste
entità autonome  ha molto nuociuto  alla Serbia  che
spesso si è ritrovata a  non poter  prendere importanti
decisioni  o  a doverle modificare proprio a causa
dell’ostruzionismo della provincia  a  maggioranza
albanese. Con Miloševic si cercò di riequilibrare questa
condizione, ma a danno di altri importanti  componenti
equilibratori socio-politici. Ora però una  indipendenza
del  Kosovo  rischia di significare  la sparizione di una
cultura  e  un’etnia  da un luogo in cui tutto un popolo
(diventato nazione) lascia le sue più profonde radici, per
offrirlo alla mercé dello spaccio internazionale di eroina
che, controllato dalle forze  militari presenti, parte  dalla
Turchia e transita in Kosovo (aiutato dalla mafia
albanese e italiana) giunge poi in tutta  l’Europa
occidentale. E molti dei  nostri connazionali sono
convinti di sapere perché vi è stata una  guerra  in
Jugoslavia. Perché hanno bombardato  Belgrado.
Perché  le  nostre  forze di pace sono in Kosovo. La
Serbia  è  stretta  tra lo strapotere della NATO e la
necessità di un’apertura all’Europa. Il pegno da pagare
è  nella  sua terra più cara. Restiamo in attesa di un
parere degli eurasiatisti serbi sul problema.