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Una domenica da ricordare

di Tiberio Graziani - 30/11/2007


Domenica prossima, 2 dicembre, avranno luogo due eventi importanti ai fini del difficile percorso per la costruzione di un mondo multipolare:
il referendum sulla nuova costituzione della Repubblica bolivariana del Venezuela e le elezioni per il rinnovo della Duma, la Camera bassa del parlamento russo.

Da più parti, nelle ultime settimane, si è sostenuto che ambedue le consultazioni saranno manipolate da Putin e da Chávez. I maggiori organi di informazione nazionali ed internazionali, come anche, purtroppo, molti analisti, hanno infatti sinergicamente presentato alle opinioni pubbliche dei propri Paesi un’immagine fuorviante dei contrasti che ci sono in Venezuela e in Russia.
E’ stata accreditata l’immagine di due Paesi ove la libertà sarebbe sospesa o in grave pericolo, ove le rispettive dirigenze sarebbero delle volgari oligarchie interessate soltanto a consolidare e a riaffermare, per i prossimi anni, il proprio personalissimo e dispotico potere.
A testimonianza della spregiudicatezza del presidente venezuelano e della durezza di quello russo, ci sarebbero la repressione delle manifestazioni di piazza che hanno avuto luogo recentemente sia a Caracas che a Mosca e San Pietroburgo e l’arresto degli oppositori.

Se analizziamo invece gli avvenimenti criticamente e tenendo conto del quadro internazionale, non possiamo non registrare che è in atto una destabilizzazione dei due Paesi al fine di influenzarne le rispettive politiche estere e economiche, che mal si adattano ai disegni egemonici del fronte atlantista capeggiato da Washington.

Washington e le lobby del petrolio non possono permettere che un Paese importante come il Venezuela sfugga al loro controllo e intessa relazioni privilegiate con alcuni governi sudamericani come l’Argentina, la Bolivia o l’Ecuador e, soprattutto, non vedono di buon occhio il legame che Chávez è riuscito a costruire con il presidente “canaglia” Ahmadinejad; parimenti, Washington non sopporta la vincente strategia eurasiatica adottata da Mosca, tra i cui successi sono da annoverare le strette relazioni con la Cina, l’ India e l’Iran. L’attuale inquilino del Cremino rappresenta un vero e proprio impedimento alle mire statunitensi in Asia centrale: da qui l’azione a tenaglia mediante le eterodirette rivoluzioni colorate nell’” estero vicino” dello spazio geopolitico russo, il sostegno alle pretese autonomiste della Cecenia, la continua ed estenuante pressione internazionale riguardo ai diritti civili, e da ultimo anche la manipolazione dell’opposizione interna.

Dietro le manifestazioni di Caracas, come anche dietro quelle di Mosca e San Pietroburgo, sembra esserci l’ombra di Washington.
Secondo fonti venezuelane, infatti, operazioni clandestine, volte a destabilizzare il Paese sudamericano e a influenzare la consultazione referendaria di domenica prossima, sarebbero state programmate e messe in atto dalla CIA. La prova consisterebbe in un documento intitolato “Advancing to the Last Phase of Operation Pincer”, inviato da un funzionario dell’Ambasciata statunitense a Caracas al capo della CIA, Michael Hayden.
Nel caso invece della variopinta e modesta opposizione a Putin, sono noti i legami che intercorrono tra i vari Kasjanov e Kasparov, alcune Ambasciate occidentali, gli ex-oligarchi eltsiniani, le ONG e la grande stampa occidentalista.

Se domenica 2 dicembre Chavez in Sudamerica e Putin nel cuore della massa continentale eurasiatica riusciranno ad ottenere il sostegno dei rispettivi elettorati, possiamo ben sostenere che l’unipolarismo statunitense è alle corde. A questo punto, come reagiranno gli USA? Saranno disposti, come il loro simbolo totemico, il famelico bald eagle, ad affogare nell’ostinato tentativo di afferrare pesci troppo pesanti?