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Iraq, Chi è il nemico? Sta diventando più difficile trovare dei “cattivi”

di Robert Dreyfuss - 01/12/2007


Chi è il nemico? Chi stiamo combattendo esattamente in Iraq? Perché siamo lì? E qual è il nostro obiettivo?

A quasi cinque anni dalla guerra, le risposte a domande fondamentali come queste dovrebbero essere ovvie. Tuttavia, nella distesa di specchi tipo Alice nel paese delle meraviglie che è l’Iraq, sono tutt’altro che tali.

Non stiamo combattendo i sunniti. Non più, comunque. Praticamente l’intero establishment sunnita, dal moderato Iraqi Islamic Party legato ai Fratelli musulmani (che ha fatto parte di ogni governo iracheno a partire dal 2003) all’alleanza tribale di al Anbar (che implorava l'appoggio degli Usa dal 2004 e l’ha ottenuto solo di recente), sta o cooperando attivamente con le forze armate americane oppure tollerando di malavoglia quella che spera sarà un’occupazione che va ritirandosi. In tutte le parti dell’Iraq in cui predominano i sunniti, gli Stati Uniti stanno aiutando a costruire unità di esercito e di polizia nonché pattuglie di quartiere  -- il Pentagono le chiama "cittadini preoccupati" – a partire da ex combattenti della resistenza, con la benedizione dei leader tribali delle province di al Anbar, Diyala, e Salahuddin, parti di Baghdad, e zone a sud della capitale. Abbiamo incontrato il nemico, e -- sorpresa! – sono amici, o, se non questo, almeno non nemici attivi. Gli attacchi contro le forze Usa nelle zone a maggioranza sunnita, compresa la città di Ramadi capitale di al Anbar, un tempo focolaio della violenza, sono diminuiti in modo impressionante.

Anche fra la resistenza sunnita intransigente, esiste un movimento significativo verso un accordo politico – se gli Stati Uniti fossero disposti ad accettarlo. Ventidue gruppi di insorti iracheni hanno annunciato la creazione di un fronte unito, sotto la leadership di Izzat Ibrahim al-Duri, un ex alto funzionario del partito Ba’ath dell’epoca di Saddam, e hanno aperto negoziati con Iyad Allawi, uno sciita laico che è stato il primo Primo Ministro dell’Iraq del dopo Saddam.

Non stiamo combattendo gli sciiti. La classe mercantile e l’élite sciita, organizzata nel per lo più filo-iraniano Consiglio Supremo islamico iracheno e nel partito islamico al Da’wa, fanno parte del governo iracheno che gli Stati Uniti hanno creato e sostengono – e il cui esercito e la cui polizia sono armati e addestrati dagli Stati Uniti. Nemmeno le forze assai più popolari di Muqtada al-Sadr e del suo Esercito del Mahdi sono il nemico. A fine agosto, Sadr ha dichiarato un cessate il fuoco, ordinando alla sua milizia di deporre le armi, e, da allora, anche gli attacchi contro le forze Usa nelle zone dell’Iraq a maggioranza sciita sono diminuiti assai bruscamente. Anche se recenti attacchi, provocatorii, da parte delle truppe statunitensi, assieme alle forze irachene, contro roccaforti di Sadr a Baghdad, Diwaniya, e Karbala hanno fatto sì che questi minacciasse di annullare l’ordine del cessate il fuoco, e anche se in molte parti del sud dell’Iraq ancora si verificano combattimenti fra sciiti, non esiste neanche un nemico sciita che giustifichi la continuazione di una presenza americana in Iraq.

E certamente non stiamo combattendo i kurdi. Da decenni, i kurdi sono i più stretti alleati dell’America (e di Israele) in Iraq. Dal 2003, le tre province a maggioranza kurda sono relativamente tranquille.

Non stiamo più nemmeno esattamente combattendo al Qaeda. Nonostante i tentativi quasi frenetici del presidente Bush di dipingere la guerra in Iraq come una resistenza disperata, tipo Fort Alamo, contro l’esercito di Osama bin Laden, di questi tempi i comandanti Usa sul campo in Iraq stanno avendo molte difficoltà a trovare sacche di al Qaeda da attaccare, anche se il gruppo ha ancora il potere di compiere attacchi letali di tanto in tanto. Nelle ultime settimane, il generale David Petraeus, l’ambasciatore Ryan Crocker, e altre autorità hanno dichiarato al Qaeda in Iraq (AQI) pressoché morta e sepolta. Questo lieto funerale è il risultato non di brillanti attività di controinsurrezione Usa, ma della determinazione dei nostri nuovi alleati sunniti di annientare il gruppo.

Una autorità quale nientemeno lo stesso generale Petraeus adesso ammette che al Qaeda è stata espulsa da tutte le sue roccaforti a Baghdad. Nella provincia di al Anbar, secondo Crocker, "La gente si sente sollevata. Al Qaeda semplicemente non c’è più".

E, quasi un anno dopo che il presidente Bush aveva dichiarato l’Iran Nemico Pubblico No. 1 in Iraq, incolpando Tehran di appoggiare sia al Qaeda che le milizie sciite, le cose su questo fronte stanno addirittura migliorando. La settimana scorsa, il Segretario alla Difesa Robert Gates ha dichiarato che l’Iran ha promesso senza fare clamore di fermare il contrabbando di armi e di bombe sofisticate da collocare sul ciglio della strada in Iraq. "Non so se credergli. Starò a vedere", ha detto, in quello che è stato un declassamento piuttosto spettacolare delle ammonizioni della Casa Bianca riguardo all’Iran.

Confermando i commenti di Gates, il generale Ray Odierno, che comanda le forze multinazionali in Iraq, ha fatto notare una diminuzione brusca nell’utilizzo degli EFP (explosively formed penetrators – ordigni esplosivi in grado di perforare le blindature dei veicoli militari NdT), il genere di IED [ordigni esplosivi improvvisati NdT] della cui fornitura gli Stati Uniti incolpano l’Iran. A luglio, ha detto Odierno, gli EFP usati contro le forze Usa sono stati 99; in agosto, 78; in settembre, 52; e in ottobre, 53. In parte come conseguenza, Crocker ha annunciato che riprenderà presto un dialogo con il suo omologo iraniano, l’ambasciatore Hassan Kazemi-Qomi. Contemporaneamente, gli Stati Uniti hanno annunciato la loro intenzione di rilasciare diversi iraniani detenuti in Iraq, una mossa considerata un gesto di buona volontà verso Tehran.


Surge
o no, le cose stanno migliorando

Tutto sommato, la violenza in Iraq è calata a picco dalla fine dell’estate. Con al Qaeda dichiarata defunta, gli ex combattenti della resistenza sunnita che indossano divise fornite dagli americani, e l’Esercito del Mahdi che stanno ad aspettare, le uccisioni in Iraq sono di molto diminuite. La situazione della sicurezza è di gran lunga migliore di quanto non sia mai stata dal 2005. Molti americani contrari alla guerra, che hanno investito nell’idea che dall’Iraq non può arrivare nessuna buona notizia, e che (segretamente o apertamente) gioiscono dei fallimenti iracheni dell’amministrazione Bush, sono riluttanti ad ammettere che le cose stanno migliorando.

Forse si preoccupano del fatto che, se la situazione in Iraq migliorerà, sarà meno probabile che i Democratici vincano alle elezioni del novembre prossimo. Forse si sono convinti che la spaccatura etnica e confessionale dell’Iraq è talmente enorme che la partizione è l’unica soluzione, e che a ogni modo l’Iraq non merita di essere un Paese. Forse la loro avversione per il Presidente Bush (che io condivido) è talmente divorante che temono che il merito di qualsiasi miglioramento della situazione verrà attribuito al Presidente – qualcosa che non possono tollerare.

Se è così, è perverso. Il fatto è: esiste una finestra di opportunità decisiva che si sta aprendo perché gli Stati Uniti si ritirino e l’Iraq resti unito e si ricostruisca. Nella misura in cui le cose stanno migliorando, si tratta di una buona notizia. La maggioranza degli americani – dalla sinistra ai conservatori realisti – che vogliono che gli Stati Uniti se ne vadano dall’Iraq dovrebbero cogliere rapidamente questa novità e spingere per una accelerazione dello slancio a favore del ritiro. Certamente, come indicano tutti i sondaggi, è questa la direzione che gli americani generalmente vogliono che i loro politici seguano.

Il miglioramento da agosto è davvero indiscutibile. Secondo i compilatori accurati del sito icasualties.org, sia le morti statunitensi che quelle irachene sono diminuite in modo impressionante. In maggio, giugno, e luglio, erano stati uccisi oltre 100 americani ogni mese; per agosto, settembre, e ottobre, i totali erano 84, 65, e 38. Per gli iracheni, i numeri sono stati anche più spettacolari, con le morti militari e civili scese da 3.000 al mese agli inizi di quest’anno a 848 e 679 in settembre e ottobre. Esistono, naturalmente, altri conteggi, e in Iraq è difficile ottenere statistiche affidabili, ma non c’è dubbio che i numeri rappresentino qualcosa di reale, che la violenza è in calo a Baghdad e nella maggior parte del resto del Paese.

Ci sono altre notizie, basate sull’esperienza, a sostegno dell’opinione che di questi tempi la sicurezza è migliore. La settimana scorsa, funzionari iracheni hanno annunciato che, dall’estate, 46.000 iracheni sono tornati nella capitale devastata dalla guerra. Centinaia di negozi stanno riaprendo; i tassisti dicono che le strade sono molto più sicure; e Christian Berthelsen e Said Rifai del Los Angeles Times scrivono che "il business della ‘bevuta’ è tornato alla situazione precedente" dopo anni di soppressione puritana da parte dei fondamentalisti islamici: un altro segnale che al Qaeda è stata cacciata. Il 3 novembre, la Associated Press riferiva che a Baghdad era trascorsa una intera giornata senza un solo attentato o una sola sparatoria. Lo stesso giorno, secondo la Agence France Presse, la U.S. Air Force, per la prima volta che si ricordi, dichiarava di non avere compiuto un solo bombardamento it o una missione di combattimento in Iraq, a causa di una "situazione della sicurezza migliorata".

Nella provincia di al Anbar, compresa la sua capitale, Ramadi, le notizie sono alquanto degne di nota. A gennaio, gli attacchi contro le forze Usa a Ramadi erano al ritmo di 30 al giorno; oggi, ce n’è meno di uno al giorno. Durante la recente festività del mese di Ramadan, ci sono stati solo quattro attacchi contro le forze Usa; durante il Ramadan del 2006, ce n’erano stati 442.

Niente di tutto ciò significa che l’Iraq sia diventato la Svezia. E’ ancora un posto violento. Non c’è alcun governo reale; l’economia è devastata; i servizi essenziali --- elettricità, acqua, raccolta dei rifiuti – sono inesistenti; e la maggior parte delle zone del Paese sono dominate da milizie, bande, elementi criminali, o signori della guerra locali. Ma per la prima volta dall’invasione del marzo 2003, esiste una opportunità reale per i due blocchi principali di iracheni arabi, le comunità sunnita e sciita, di arrivare a un accordo. Se un tale accordo venisse effettivamente raggiunto, i kurdi avrebbero poca scelta se non quella di esserne parte. Il problema è che gli Stati Uniti non possono fare da mediatori. Dopo aver passato cinque anni a incoraggiare il settarismo confessionale in Iraq, uccidendo iracheni innocenti, buttando giù le porte in piccoli villaggi, e cercando di trasformare l’Iraq in una colonia americana, semplicemente non hanno più nessuna credibilità.

Qualunque accordo ci veda come mediatori, qualunque leader noi promuoviamo, qualunque governo sosteniamo ha appena ricevuto il bacio della morte. Ciò che unisce gli iracheni arabi, dalla resistenza sunnita all’Esercito del Mahdi, è l’opposizione all’occupazione dell’Iraq da parte degli Usa, oltre all’opposizione ad al Qaeda e all’interferenza oppressiva dell’Iran negli affari iracheni.


Il passo successivo: un nuovo accordo iracheno?


Un nuovo Iraq, nazionalista, sta emergendo sotto la presenza di 160.000 soldati Usa. Questo nazionalismo va dai combattenti della resistenza sunnita, quelli attuali e gli ex, all'Esercito del Mahdi di Sadr, a una serie di politici moderati, laici, sunniti e sciiti, che stanno tutti parlando fra loro – anche se in circostanze straordinariamente difficili – riguardo a un nuovo quadro politico per un nuovo governo iracheno.

Due passi urgenti sono necessari al fine di capitalizzare il riemergere del nazionalismo iracheno. Prima di tutto, le ampie maggioranze fra gli arabi sunniti e sciiti devono essere riconciliate sulla base di una nuova costituzione irachena, con nuove elezioni irachene che diano vita a un nuovo governo iracheno non contaminato dalla supervisione americana. In secondo luogo, i Paesi vicini dell'Iraq -- tutti, compresi Iran e Siria – devono farsi garanti del nuovo nazionalismo iracheno. Visti i suoi precedenti, l'amministrazione Bush è completamente incapace di portare a termine tutti e due questi compiti. E' un lavoro per le Nazioni Unite, la Lega Araba, l'Organizzazione della conferenza islamica, e altre parti. E tutto ciò, a sua volta, dipende dal fatto che gli Stati Uniti annuncino un calendario per il ritiro delle loro forze dall'Iraq.

Come hanno fatto notare innumerevoli osservatori, alcuni dei quali ufficiali, gli Stati Uniti finora non stati capaci di tradurre la diminuzione della violenza in vantaggi politici. Un recente rapporto del Government Accountability Office (GAO) ha sottolineato esattamente questo, accusando l'Amministrazione di non avere approfittato del miglioramento della situazione della sicurezza. Con molto understatement, il GAO ha detto: "Gli sforzi degli Usa mancano di strategie con chiarezza di scopi, ambito, ruoli, e misure dell’efficacia" (In altre parole, gli Stati Uniti non sanno quello che stanno facendo).

Analogamente, il Center for American Progress, un thinktank che si è veramente distinto da altri organi dell'establishment chiedendo senza ambiguità il ritiro totale e rapido delle forze Usa dall'Iraq, lo nota in un memorandum astuto dal titolo "Strategic Drift in Iraq" [Spostamento strategico in Iraq NdT]. Esso fa osservare (accuratamente, secondo la mia lettura): "L'attuale dibattito degli Stati Uniti sull'Iraq ha tre dinamiche principali: un presidente “anatra zoppa” [modo di dire che indica un politico a fine mandato NdT] che conta di passare l'Iraq al suo successore, un movimento conservatore che sta incoraggiando la paura invece della ragione per quelli che vengono percepiti come vantaggi politici, e un movimento progressista frustrato da una mancanza di cambiamento nella politica relativa all'Iraq e da posizioni vaghe su cosa fare".

In effetti, lo "spostamento strategico" a cui si riferisce il Center for American Progress sta cominciando ad avere sempre più l’aspetto di un establishment di Washington che ha tutta l’intenzione di rimanere in Iraq per decenni a venire. Anche se gli appelli più rabbiosi dei neocon per una escalation della guerra, che la allarghi a Iran e Siria, vengono messi da parte, è chiaro tuttavia che molti Repubblicani centristi e Democratici moderati prevedono una lunga occupazione seguita da un periodo ancora più lungo in cui la presenza delle forze Usa continuerà a essere significativa. L'ex comandante del CENTCOM, generale John Abizaid, un ufficiale che ha una mentalità realista, anti-neocon, ha predetto di recente che le forze Usa dovranno rimanere in Medio Oriente "per i prossimi 25-50 anni", ed è stato piuttosto franco riguardo all'importanza del petrolio. "Non sto dicendo che questa è una guerra per il petrolio, ma che il petrolio alimenta un sacco di mosse geopolitiche che i poteri politici potrebbero fare nella zona". In particolare, recentemente è stato riferito che consiglieri legali statunitensi del ministero iracheno del Petrolio hanno aiutato l'Iraq ad annullare un ingente accordo petrolifero fra Russia e Iraq per sfruttare il giacimento di West Qurna, che il New York Times ha definito "uno dei dieci giacimenti petroliferi supergiganti al mondo o giù di lì". Non che la guerra abbia qualcosa a che fare con il petrolio, sia ben chiaro.

Il Congressional Budget Office (CBO), in una previsione cupa, ha avanzato due scenari per i costi della guerra in Iraq. Il primo – che prevede 30.000 soldati Usa in Iraq fino a tutto il 2017 – costerebbe altri 570 miliardi di dollari in 10 anni. Il secondo – che comporta una lenta riduzione a 75.000 soldati Usa entro il 2013, e poi il mantenimento di questa forza fino al 2017 – verrebbe a costare altri 1.055 miliardi, portando il costo della guerra a una stima prudente di 1,7 trilioni di dollari. Il CBO non ha fatto proiezioni oltre il 2017, quindi tirate pure fuori la vostra calcolatrice.



Robert Dreyfuss è un giornalista investigativo indipendente di Alexandria, in Virginia. Collabora regolarmente con Rolling Stone, The Nation, The American Prospect, Mother Jones, e The Washington Monthly. E’ inoltre autore di Devil's Game: How the United States Helped Unleash Fundamentalist Islam (Henry Holt/Metropolitan, 2005). Il suo sito è RobertDreyfuss.com.

Tom Dispatch
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)