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Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica

di Umberto Galimberti - 03/12/2007

Fonte: feltrinelli





INTRODUZIONE

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo domi­nio
della tecnica.
Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale
mu­tamento del mondo.
Di gran lunga più inquietante è che non sia­mo ancora capaci di raggiungere,
attraver­so un pensiero meditante, un confronto ade­guato con ciò che sta realmente
emergendo nella nostra epoca.
    M. HEIDEGGER, L'abbandono (1959), p. 36


1. L'uomo e la tecnica. Siamo tutti persuasi di abitare l'età della tecnica, di cui
godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini
primitivi perché abbiamo più campi di gioco in cui inserirci. Ogni rimpianto, ogni
disaffezione al nostro tempo ha del patetico. Ma nell'assuefazione con cui
utilizziamo strumenti e servizi che accorciano lo spazio, velocizzano il tempo,
leniscono il dolore, vanificano le norme su cui sono state scalpellate tutte le
morali, rischiamo di non chiederci se il nostro modo di essere uomini non è troppo
antico per abitare l'età della tecnica che non noi, ma l'astrazione della nostra
mente ha creato, obbligandoci, con un'obbligazione più forte di quella sancita da
tutte le morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a prendervi parte.
In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti
dell'uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di
senso, con un bagaglio di idee proprie e un corredo di sentimenti in cui si
riconosceva. L'età della tecnica ha abolito questo scenario "umanistico", e le
domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non sia ancora
abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a
simili domande.
La tecnica infatti non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di
salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona, e siccome il suo
funzionamento diventa planetario, questo libro si propone di rivedere i concetti di
individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di
natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l'età
pre-tecnologica e che ora, nell' età della tecnica, dovranno essere riconsiderati,
dismessi, o rifondati dalle radici.

2. La tecnica è il nostro mondo. Sono questi alcuni temi che nascono dal pensare la
configurazione che l'uomo va assumendo nell' età della tecnica. Le riflessioni qui
svolte sono solo un avvio. Resta ancora molto da pensare. Ma prima di tutto resta da
pensare se le categorie che abbiamo ereditato dall'età pre-tecnologica e che
tuttora impieghiamo per descrivere l'uomo sono ancora idonee per questo evento
assolutamente nuovo in cui l'umanità, come storicamente l'abbiamo conosciuta, fa
esperienza del suo oltrepassamento.
Per orientarci occorre innanzitutto farla finita con le false innocenze, con la
favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini decidono di
impiegare nel bene o nel male. La tecnica non è neutra, perché crea un mondo con
determinate caratteristiche che non possiamo evitare di abitare e, abitando,
contrarre abitudini che ci trasformano ineluttabilmente. Non siamo infatti esseri
immacolati ed estranei, gente che talvolta si serve della tecnica e talvolta ne
prescinde. Per il fatto che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente
organizzato, la tecnica non è più oggetto di una nostra scelta, ma è il nostro
ambiente, dove fini e mezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passioni, persino
sogni e desideri sono tecnicamente articolati e hanno bisogno della tecnica per
esprimersi.
Per questo abitiamo la tecnica irrimediabilmente e senza scelta. Questo è il nostro
destino di occidentali avanzati, e coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di
rintracciare un'essenza dell'uomo al di là del condizionamento tecnico, come
capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli che vivono la mitologia
dell'uomo libero per tutte le scelte, che non esiste se non nei deliri di onnipotenza
di quanti continuano a vedere l'uomo al di là delle condizioni reali e concrete della
sua esistenza.

3. La tecnica è l'essenza dell'uomo. Con il termine "tecnica" intendiamo sia
l'universo dei mezzi (le tecnologie) che nel loro insieme compongono l'apparato
tecnico, sia la razionalità che presiede alloro impiego in termini di funzionalità
ed efficienza. Con questi caratteri la tecnica è nata non come espressione dello
"spirito" umano, ma come "rimedio" alla sua insufficienza biologica.
Infatti, a differenza dell'animale che vive nel mondo stabilizzato dall'istinto,
l'uomo, per la carenza della sua dotazione istintuale, può vivere solo grazie alla
sua azione, che da subito approda a quelle procedure tecniche che ritagliano,
nell'enigma del mondo, un mondo per l'uomo. L'anticipazione, l'ideazione, la
progettazione, la libertà di movimento e d'azione, in una parola, la storia come
successione di autocreazioni hanno nella carenza biologica la loro radice e
nell'agire tecnico la loro espressione.
In questo senso è possibile dire che la tecnica è l'essenza dell'uomo, non solo
perché, a motivo della sua insufficiente dotazione istintuale, l'uomo, senza la
tecnica, non sarebbe sopravvissuto, ma anche perché, sfruttando quella plasticità
di adattamento che gli deriva dalla genericità e non rigidità dei suoi istinti, ha
potuto, attraverso le procedure tecniche di selezione e stabilizzazione,
raggiungere "culturalmente" quella selettività e stabilità che l'animale
possiede "per natura". Questa tesi, che A. Gehlen ha ampiamente documentato nel
nostro tempo, era stata anticipata da Platone, Tommaso d'Aquino, Kant, Herder,
Schopenhauer, Nietzsche, Bergson, dunque da grandi esponenti del pensiero
occidentale, indipendentemente dalla direzione del loro orientamento. (Cfr.
Parte II: "Genealogia della tecnica: l'incompiutezza umana".)

4. La tecnica e la rifondazione radicale della psicologia. Se si accolgono queste
premesse, la psicologia deve fare con se stessa dei conti radicali e incominciare a
pensare le varie figure, oggetto del suo sapere, a partire dalla tecnica, che è poi
quel patto originario tra uomo e mondo che è rimasto "impensato" sia dalla psicologia
a indirizzo scìentifico-naturalistico, che tenta di "spiegare" l'uomo a partire
dall'esperimento sull'animale, sia dalla psicologia a indirizzo
fenomenologico-ermeneutico che, in tutte le sue varianti: psicodinamiche,
comportamentiste, cognitiviste, sistemiche, sociologiche, tenta di
"comprendere" l'uomo a partire dai condizionamenti tipici della cultura
occidentale che parla di "corpo", "anima" o "coscienza".
Senza un'adeguata riflessione sulla tecnica, pensata come essenza dell'uomo, la
psicologia scientifico-naturalistica non può che approdare all' etologia, mentre
la psicologia fenomenologico-ermeneutica non può che arrestarsi all'ingenuità
del soggettivismo, in quanto all'una sfugge che l'uomo è abissalmente distante
dall'animale perché privo di quel connotato tipico dell'animale che è l'istinto,
all'altra che l"'anima" o la "coscienza" sono il residuato dell'azione e del suo
prolungamento tecnico, quindi ciò che resta dopo che l'azione ha già consentito
all'uomo di essere al mondo e, in esso, di ritagliare il suo mondo.
A questo punto occorre fondare una psicologia dell'azione per evitare sia uno
sguardo riduttivo sull'uomo, come accad
e alla psicologia scientifico-naturalistica che pensa l'uomo a partire
dall'animale, sia uno sguardo reattivo sull'uomo, come accade alla psicologia
fenomenologico-ermeneutica che non accosta l'uomo a partire dalla sua esperienza
immediata della realtà attraverso l'azione, ma dalla sua esperienza seconda, e
quindi re-attiva, che è la riflessione sull'azione.
Si scoprirà allora che, a partire dalla carenza istintuale compensata dalla
plasticità dell'azione, sarà possibile spiegare la motricità, la percezione, la
memoria, l'immaginazione, la coscienza, il linguaggio, il pensiero, nella loro
genesi e nel loro sviluppo, seguendo un percorso assolutamente lineare che, per
giustificare il suo tracciato, non ha bisogno di ricorrere a quel dualismo anima e
corpo che ogni psicologia dichiara di voler superare senza sapere come.
Non c'è scienza infatti che, nata da un falso presupposto, possa rimuoverlo senza
negare se stessa. E questo è proprio il caso della psicologia che, anche se non lo sa, è
la più "platonica" delle scienze, perché ancora non si è emancipata dal dualismo
antropologico che, inaugurato da Platone e rigorizzato da Cartesio, impedisce alla
psicologia di approdare al suo oggetto, se prima questa scienza non si disloca dal
presupposto dualistico da cui è nata. Si tratta di una dislocazione che può avvenire
solo attraverso una rifondazione radicale della psicologia, che deve assumere come
suo punto di partenza non il "soggetto psicologico" e tanto meno l"'oggetto
psichico", ma l'azione. (Cfr. Parte III: "Psicologia della tecnica: teoria
dell'azione".)

5. La genesi "strumentale" della tecnica. Se condividiamo la tesi che la tecnica è
l'essenza dell'uomo, allora il primo criterio di leggibilità che va modificato
nell'età della tecnica è quello tradizionale che prevede l'uomo come soggetto e la
tecnica come strumento a sua disposizione. Questo poteva essere vero per il mondo
antico, dove la tecnica si esercitava entro le mura della città, che era un'enclave
all'interno della natura, la cui legge incontrastata regolava per intero la vita
dell'uomo. Per questo Prometeo, l'inventore delle tecniche, poteva dire: "la
tecnica è di gran lunga più debole della necessità". (Cfr. Parte I: "Simbologia della
tecnica: la scena del Caucaso".)
Ma oggi è la città ad essersi estesa ai confini della terra, e la natura è ridotta a sua
enclave, a ritaglio recintato entro le mura della città. Allora la tecnica, da
strumento nelle mani dell'uomo per dominare la natura, diventa l'ambiente
dell'uomo, ciò che lo circonda e lo costituisce secondo le regole di quella
razionalità che, misurandosi sui criteri della funzionalità e dell'efficienza,
non esita a subordinare alle esigenze dell'apparato tecnico le stesse esigenze
dell'uomo.
La tecnica infatti è iscritta per intero nella costellazione del dominio, da cui è
nata e al cui interno ha potuto svilupparsi solo attraverso rigorose procedure di
controllo che, per esser davvero tale, non può evitare di essere planetario. Questa
rapida sequenza era già chiaramente intravista e annunciata dalla scienza moderna
al suo primo sorgere quando, senza indugio e con chiara preveggenza, F. Bacone toglie
ogni equivoco e proclama: "scientia est potentia".

6. La trasformazione della tecnica da "mezzo" in "fine".
Ma all' epoca di Bacone i mezzi tecnici erano ancora insufficienti e l'uomo poteva
ancora rivendicare la sua soggettività e il suo dominio sulla strumentazione
tecnica. Oggi invece il "mezzo" tecnico si è così ingigantito in termini di potenza ed
estensione da determinare quel capovolgimento della quantità in qualità che Hegel
descrive nella Logica e che, applicato al nostro tema, fa la differenza tra la tecnica
antica e lo stato attuale della tecnica.
Infatti, finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per
raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la
tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine,
ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi disponibile per
la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario,
perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca,
l'acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi
tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può
essere raggiunto. Così la tecnica da mezzo diventa fine, non perché la tecnica si
proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non
si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica.
Già Marx aveva descritto questa trasformazione dei mezzi in fini a proposito del
denaro che, se come mezzo serve a produrre beni e a soddisfare bisogni, quando beni e
bisogni sono mediati perintero dal denaro, allora diventa il fine, per raggiungere
il quale, se necessario, si sacrifica anche la produzione dei beni e la soddisfazione
dei bisogni. In altra prospettiva e sullo sfondo di un altro scenario, E. Severino
osserva che se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi
fine che non può esser raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento
del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé. Ciò comporta il crollo di
numerosi impianti categoriali con cui l'uomo aveva finora definito se stesso e la sua
collocazione nel mondo. (Cfr. Parte IV: "Fenomenologia della tecnica: il grande
capovolgimento".)

7. La tecnica e la revisione degli scenari storici. Se la tecnica diventa
quell'orizzonte ultimo a partire dal quale si dischiudono tutti i campi
d'esperienza, se non è più l'esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura
tecnica, ma è la tecnica a porsi come condizione che decide il modo di fare esperienza,
allora assistiamo a quel capovolgimento per cui soggetto della storia non è più
l'uomo, ma la tecnica che, emancipatasi dalla condizione di mero "strumento",
dispone della natura come suo fondo e dell'uomo come suo funzionario. Ciò comporta
una radicale revisione dei tradizionali modi di intendere la ragione, la verità,
l'ideologia, la politica, l'etica, la natura, la religione e la stessa storia.

La ragione non è più l'ordine immutabile del cosmo in cui prima la mitologia, poi la
filosofia e infine la scienza si erano riflesse creando le rispettive cosmo-logie,
ma diventa procedura strumentale che garantisce il calcolo più economico tra i mezzi
a disposizione e gli obbiettivi che si intendono raggiungere. (Cfr. il capitolo 39:
"La ragione come strumento".)

La verità non è più conformità all'ordine del cosmo o di Dio perché, se non si dà più
orizzonte capace di garantire il quadro ~temo dell'ordine immutabile, se l'ordine
del mondo non dimora più nel suo essere, ma dipende dal "fare tecnico", l'efficacia
diventa esplicitamente l'unico criterio di verità. (Cfr. il capitolo 38: "La verità
come efficacia".)

Le ideologie, la cui forza riposava sull'immutabilità del loro corpo dottrinale,
nell'età della tecnica non reggono alla dura riduzione di tutte le idee a semplici
ipotesi di lavoro. La tecnica infatti, a differenza dell'ideologia che muore nel
momento in cui il suo nucleo teorico non "fa più mondo" e tantomeno lo "spiega", pensa
le proprie ipotesi come "per principio" superabili, e perciò non si estingue quando
un suo nucleo teorico si rivela inefficace perché, non avendo legato la sua verità a
quel nucleo, può mutare e correggersi senza smentirsi. I suoi errori non la fanno
crollare, ma si convertono immediatamente in occasioni di autocorrezione. (Cfr. il
capitolo 42: "La tecnica e il crollo delle ideologie").

La politica, che Platone aveva definito "tecnica regia" perché assegnava a tutte le
tecniche le rispettive finalità, oggi può decidere solo in subordine all'apparato
economico, a sua volta subordinato alle disponibilità garantite dall'apparato
tecnico. In questo modo la politica si trova in quella situazione di adattamento
passivo, condizionata com'è dallo sviluppo tecnico che essa non può controllare e
tantomeno indirizzare, ma solo garantire. Riducendosi sempre di più a pura
amministrazione tecnica, la politica mantiene un ruolo attivo e quindi decisionale
solo là dove la tecnica non è ancora egemone, o dove nella sua egemonia presenta ancora
delle lacune o delle insufficienze in ordine al vincolo della sua razionalità
strumentale. (Cfr. il capitolo 43:
"La tecnica e il tramonto della politica".)

L'etica, come forma dell'agire in vista di fini, celebra la sua impotenza nel mondo
della tecnica regolato dal fare come pura produzione di risultati, dove gli effetti
si addizionano in modo tale che gli esiti finali non sono più riconducibili alle
intenzioni degli agenti iniziali.
Ciò significa che non è più l'etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica di
reperire i mezzi, ma è la tecnica che, assumendo come fini i risultati delle sue
procedure, condiziona l'etica obbligandola a prender posizione su una realtà, non
più naturale ma artificiale, che la tecnica non cessa di costruire e render
possibile, qualunque sia la posizione assunta dall'etica.
Infatti, una volta che l''' agire" è subordinato al "fare" , come si può impedire a chi
può fare di non fare ciò che può? Non con la morale dell'intenzione inaugurata dal
cristianesimo e riproposta nei termini della "pura ragione" da Kant, perché questa,
fondandosi sul principio soggettivo dell'autodeterminazione e non su quello della
responsabilità oggettiva, non prende in considerazione le conseguenze oggettive
delle azioni e, proprio perché si limita a salvaguardare la "buona intenzione", non
può essere all'altezza del fare tecnico. Ma all'altezza non è neppure l'etica della
re-sponsabilità che M. Weber ha introdotto e H. Jonas riproposto perché, se l'etica
della responsabilità si limita ad esigere, come scrive Weber, che "si risponda delle
conseguenze prevedibili delle proprie azioni", ebbene è proprio della tecnica
dischiudere lo scenario dell'imprevedibilità, imputabile, non come quella antica
a un difetto di conoscenza, ma a un eccesso del nostro potere di fare enormemente
maggiore del nostro potere di prevedere. (Cfr. il capitolo 44: "La tecnica e
l'impotenza dell'etica".)

La natura. Il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due
visioni del mondo: quella greca, che concepisce la natura come dimora di uomini e dèi,
e quella giudaico-cristiana, poi ripresa dalla scienza moderna, che la concepisce
come campo di dominio dell'uomo. Per differenti che siano, queste due concezioni
convengono nell' escludere che la natura rientri nella sfera di competenza
dell'etica, il cui ambito è stato finora limitato alla regolazione dei rapporti fra
gli uomini, senza alcuna estensione agli enti di natura. Ma oggi che la natura mostra
tutta la sua vulnerabilità per effetto della tecnica, si apre uno scenario di fronte
al quale le etiche tradizionali si fanno mute, perché non hanno strumenti per
accogliere la natura nell'ambito della responsabilità umana. (Cfr. il capitolo 45:
"Tecnica e natura: il capovolgimento di un rapporto".)

La religione ha come suo presupposto quella dimensione del tempo dove alla fine
(éschaton) si realizza ciò che all'inizio era stato annunciato. Solo in questa
dimensione "escatologica", che iscrive il tempo in un disegno, tutto ciò che accade
nel tempo acquista il suo senso. Ma la tecnica, sostituendo alla dimensione
escatologica del tempo quella progettuale, contenuta, come scrive S. Natoli, tra il
recente passato in cui reperire i mezzi disponibili e l'immediato futuro in cui
questi mezzi trovano il loro impiego, sottrae alla religione, per effetto di questa
contrazione del tempo, la possibilità di leggere nel tempo un disegno, un senso, un
fine ultimo a cui poter far riferimento per pronunciare parole di salvezza e verità.
(Cfr. il capitolo 46: "La tecnica e il crepuscolo della religione".)

La storia si costituisce nell'atto della sua narrazione, che ordina l'accadere
degli eventi in una trama di senso. Il reperimento di un senso traduce il tempo in
storia, così come il suo smarrimento dissolve la storia nel fluire insignificante
del tempo. Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini
ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi
orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di
senso. Rispetto alla memoria sto-rica, la memoria della tecnica, essendo solo
procedurale, traduce il passato nell'insignificanza del "superato" e accorda al
futuro il semplice significato di "perfezionamento" delle procedure. L'uomo, a
questo punto, nella sua totale dipendenza dall' apparato tecnico, diventa
astorico, perché non dispone di altra memoria se non quella mediata dalla tecnica,
che consiste nella rapida cancellazione del presente e del passato per un futuro
pensato solo in vista del proprio autopotenziamento. (Cfr. il capitolo 47: "La
tecnica e la fine della storia".)

8. La tecnica e la soppressione di tutti i fini nell'universo dei mezzi. Tra le
categorie che siamo soliti impiegare per orientarci nel mondo, l'unica che ci pone
all'altezza dello scenario di-schiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto.
"Assoluto" signi-fica sciolto da ogni legame (solutus ab), quindi da ogni
orizzon-te di fini, da ogni produzione di senso, da ogni limite e condi-zionamento.
Questa prerogativa, che l'uomo ha attribuito prima alla natura e poi a Dio, ora si
trova a riferirla non a se stesso, co-me lasciavano presagire la promessa prometeica
e la promessa biblica quando alludevano al progressivo dominio dell'uomo sulla
natura, ma al mondo delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta
iscritta nell'automatismo del loro potenzia-mento, l'uomo, come scrive G. Anders,
risulta decisamente inferiore e inconsapevole della sua inferiorità.
Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l'apparato tecnico o chi vi è
semplicemente inserito, senza poter più distinguere se è attivo o è a sua volta
azionato, più non si pone la domanda se lo scopo per cui l'apparato tecnico è messo in
azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo
significherebbe dubitare della tecnica, senza di cui nessun senso e nessuno scopo
sarebbero raggiungibili, e allora la "responsabilità" viene affidata al
"responso" tecnico, dove è sotteso l'imperativo che si "deve" fare tutto ciò che si
"può" fare.
Ma quando il positivo è iscritto per intero nell' esercizio della potenza tecnica e il
negativo è circoscritto all'errore tecnico, al guasto tecnicamente riparabile, la
tecnica guadagna quel livello di autoreferenzialità che, sottraendola ad ogni
condizionamento, la pone come assoluto. Un assoluto che si presenta come un universo
di mezzi, il quale, siccome non ha in vista veri fini ma solo effetti, traduce i
presunti fini in ulteriori mezzi per l'incremento infinito della sua funzionalità e
della sua efficienza. In questa "cattiva infinità", come la chiamerebbe Hegel,
qualcosa ha valore solo se è "buono per qualcos'altro", per cui proprio gli
obbiettivi finali, gli scopi, che nell'età pre-tecnologica regolavano le azioni
degli uomini e ad esse conferivano "senso", nell'età della tecnica appaiono
assolutamente "insensati".
A questo proposito non ci si deve far ingannare dal bisogno di senso, dalla sua ricerca
affannosa, dalla sua domanda incessante a cui cercano di dar risposta le religioni
con le loro promozioni di fede e le pratiche terapeutiche con le loro promozioni di
salute, perché tutto ciò rivela solo che la figura del "senso" non si è salvata
dall'universo dei mezzi. Se infatti il reperimento di senso favorisce l'esistenza,
se, come scrive Nietzsche, rappresenta per la condizione umana un vantaggio
biologico, là dove il senso non si trova occorre inventarlo, e allora anche il "senso"
si giustifica perché, come mezzo per vivere, è in grado di assurgere a sua volta al
rango di "mezzo". (Cfr. il capitolo 54: "Il totalitarismo della tecnica e
l'implosione del senso".)

9. Dall'alienazione tecnologica all'identificazione tecnologica. Che ne è
dell'uomo in un universo di mezzi che non ha in vista altro se non il perfezionamento e
il potenziamento della propria strumentazione? Là dove il mondo della vita è per
intero generato e reso possibile dall'apparato tecnico, l'uomo diventa un
funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua
funzionalità, per cui è possibile dire che nell'età della tecnica l'uomo è
presso-di-sé solo in quanto è funzionale a quell'altro-da-sé che è la tecnica. La
tecnica infatti non è l'uomo. Nata come condizione dell'esistenza umana e quindi
come espressione della sua essenza, oggi, per le dimensioni raggiunte e per
l'autonomia guadagnata, la tecnica esprime l'astrazione e la combinazione delle
ideazioni e delle azioni umane a un livello di artificialità tale che nessun uomo e
nessun gruppo umano, per quanto specializzato, e forse proprio per effetto della sua
specializzazione, è in grado di controllarla nella sua totalità. In un simile
contesto, essere ridotto a funzionario della tecnica significa allora per l'uomo
essere "altrove" rispetto alla dimora che ha storicamente conosciuto, significa
essere lontano da sé.
Marx ha chiamato questa condizione "alienazione" e, coerentemente alle condizioni
del suo tempo, ha circoscritto l'alienazione al modo di produzione capitalistico.
Ma sia il capitalismo (causa dell'alienazione) sia il comunismo (che Marx
progettava come rimedio all'alienazione) sono ancora figure iscritte
nell'umanismo, ossia ancora in quell'orizzonte di senso, tipico dell'età
pre-tecnologica, dove l'uomo è previsto come soggetto e la tecnica come strumento.
Ma, nell'età della tecnica, che prende avvio quando l'universo dei mezzi non ha in
vista alcuna finalità (neppure il profitto), il rapporto si capovolge, nel senso che
l'uomo non è più un soggetto che la produzione capitalistica aliena e reifica, ma è un
prodotto dell'alienazione tecnologica che instaura sé come soggetto e l'uomo come
suo predicato.
Ne consegue che la strumentazione teorica messa a disposizione da Marx, che pure fu
tra i primi a prevedere gli scenari dell'età della tecnica da lui chiamata "civiltà
delle macchine", non è più del tutto idonea per leggere il tempo della tecnica, non
perché storicamente il capitalismo si è rivelato vincente sul comunismo, ma perché
Marx si muove ancora in un orizzonte umanistico, con riferimento all'uomo
pre-tecnologico, dove, come vuole la lezione di Hegel, il servo ha nel signore il suo
antagonista, e il signore nel servo, mentre, nell'età della tecnica, non ci sono più
né servi né signori, ma solo le esigenze di quella rigida razionalità a cui devono
subordinarsi sia i servi sia i signori.
A questo punto anche il concetto marxiano di "alienazione" appare insufficiente,
perché di alienazione si può parlare solo quando, in uno scenario umanistico, c'è
un'antropologia che vuoI recuperarsi dalla sua estraneazione nella produzione, in
un contesto caratterizzato dal conflitto di due volontà, di due soggetti che ancora
si considerano titolari delle loro azioni, non quando c'è un unico soggetto,
l'apparato tecnico, rispetto al quale i singoli soggetti sono semplicemente suoi
predicati.
Esistendo esclusivamente come predicato dell'apparato tecnico che pone se stesso
come assoluto, l'uomo non è più in grado di percepirsi come "alienato", perché
l'alienazione prevede, almeno in prospettiva, uno scenario alternativo che
l'assoluto tecnico non concede, e perciò, come in altro contesto scrive R. Madera,
l'uomo traduce la sua alienazione nell'apparato in identificazione con
l'apparato. Per effetto di questa identificazione, il soggetto individuale non
reperisce in sé altra identità al di fuori di quella conferitagli dall'apparato e,
quando si compie !'identifica-zione degli individui con la funzione assegnata
dall'apparato, la
funzionalità, divenuta autonoma, riassorbe in sé ogni senso residuo di identità.
(Cfr. il capitolo 41: "Il mondo della tecnica e la reificazione dell'uomo".)

1O. La tecnica e la revisione delle categorie umanistiche. Siccome, in quanto
funzionario dell'apparato tecnico, l'uomo non è più leggibile secondo gli impianti
categoriali elaborati e maturati nell'età pre-tecnologica, occorre una radicale
revisione delle categorie umanistiche, a partire dalle nozioni di individuo,
identità, libertà, comunicazione, fino al concetto di anima, la cui arretratezza
psichica ancora non consente all'uomo d'oggi un'adeguata comprensione dell' età
della tecnica.

L'individuo. Questa nozione tipicamente occidentale, che ha avuto nella nozione
platonica di "anima", rivisitata dal cristianesimo, il suo atto di nascita, ha
nell'età della tecnica il suo prevedibile atto di morte. Certo non muore
quell'entità indivisibile (dal latino: in-dividuum) che a livello naturale fa
parte della specie e a livello culturale di una società di cui ripete, per le sue
caratteristiche, il tipo generale, ma muore quel soggetto che, a partire dalla
consapevolezza della propria individualità, si pensa autonomo, indipendente,
libero fino ai confini della libertà altrui e, per ef-fetto di questo
riconoscimento, uguale agli altri. In altri termini non muore l'individuo
empirico, l'atomo sociale, ma il sistema di valori che, a partire da questa
singolarità, hanno deciso la nostra storia. (Cfr. il capitolo 48: "L'individuo e la
sua illusione".)

L'identità. Questa nozione che, come quella di individuo, nasce all'interno
dell'antropologia occidentale perché, prima dell'Occidente e a fianco
dell'Occidente, l'individuo non riconosce la sua identità ma solo l'appartenenza
al gruppo con cui si identifica, dipende, come ci ricorda Hegel, dal riconoscimento.
Solo che, mentre nell'età pre-tecnologica era possibile riconoscere l'identità di
un individuo dalle sue azioni, perché queste erano lette come manifestazioni della
sua anima, a suo volere intesa come soggetto decisionale, oggi le azioni
dell'individuo non sono più leggibili come espressioni della sua identità, ma come
possibilità calcolate dall'apparato tecnico, che non solo le prevede, ma
addirittura le prescrive nella forma della loro esecuzione. Eseguendole, il
soggetto non rivela la sua identità, ma quella dell'apparato, all'interno del quale
!'identità personale si risolve in pura e semplice funzionalità. (Cfr. il capitolo
49: "La funzionalità come forma dell'identità".)

La libertà. Se con questa parola intendiamo l'esercizio della libera scelta a
partire dalle condizioni esistenti, dobbiamo dire che la società tecnologicamente
avanzata offre uno spazio di libertà decisamente superiore a quello concesso nelle
società poco differenziate, dove la qualità personale e non oggettiva dei legami,
nonché l'omogeneità sociale riducono il margine di libertà a quello elementare
dell' obbedienza o della disobbedienza. La tecnica, avendo come suo imperativo la
promozione di tutto ciò che si può promuovere, crea un sistema aperto che di continuo
genera un ventaglio sempre più allargato di opzioni, che diventano via via
praticabili in base ai livelli di competenza che i singoli individui sono in grado di
acquisire. Ma la libertà come competenza, avendo come spazio espressivo quello
impersonale dei rapporti professionali, crea quella scissione radicale tra
"pubblico" e "privato" che, anche se da molti è acclamata come cardine della libertà,
comporta quella conduzione schizofrenica della vita individuale (schizofrenia
funzionale), che si manifesta ogni volta che la funzione, che all'individuo spetta
come membro impersonale dell'organizazione tecnica, entra in collisione con
quello che l'individuo aspira ad essere come soggetto globale. Si determina infatti
per la prima volta nella storia la possibilità per l'individuo di entrare in rapporto
con gli altri individui, e quindi di "fare società", senza che ciò comporti un
qualsiasi legame di natura personale. E allora, privati di una comune esperienza
d'azione, che è sempre più prerogativa esclusiva della tecnica, gli individui
reagiscono al senso di impotenza che sperimentano ripiegandosi su se stessi e,
nell'impossibilità di riconoscersi comunitariamente, finiscono con il
considerare la società stessa in termini puramente strumentali. (Cfr. il capitolo
50: "La libertà come dissimulata schiavitù".)

La cultura di massa. La disarticolazione tra "pubblico" e "privato", tra "sociale" e
"individuale" operata dalla razionalità tecnica, modifica anche il concetto
tradizionale di "massa", introducendo quella variante che è la sua atomizzazione e
disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa,
consumi di massa, informazioni di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come
concentrazione di molti, e attuale quello di massifìcazione come qualità di milioni
di singoli, ciascuno dei quali produce, consuma, riceve le stesse cose di tutti, ma in
modo solistico. Viene così consegnata a ciascuno la propria massifi-cazione, ma con
l'illusione della privatezza e l'apparente riconoscimento della propria
individualità, in modo che nessuno sia più in grado di percepire un "esterno"
rispetto a un "interno", perché ciò che ciascuno incontra in pubblico è esattamente
ciò di cui è stato rifornito in privato. Nascono da qui quei processi di
deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa
tipiche delle società omologate e conformiste. (Cfr. il capitolo 51: "Cultura di
massa e sentimento oceanico".)

I mezzi di comunicazione. All'omologazione sociale contribuiscono in modo
esponenziale i mezzi di comunicazione che la tecnica ha potenziato modificando il
nostro modo di fare esperienza: non più in contatto con il mondo, ma con la
rappresentazione mediatica del mondo che rende vicino il lontano, presente
l'assente, disponibile quello che altrimenti sarebbe indisponibile.
Esonerandoci dall' esperienza diretta e mettendoci in rapporto non con gli eventi,
ma con il loro allestimento, i mezzi di comunicazione non hanno alcun bisogno di
falsificare o di oscurare la realtà, perché proprio ciò che informa codifica, e
l'effetto di codice diventa non solo criterio interpretativo della realtà, ma anche
modello induttore dei nostri giudizi, che a loro volta generano comportamenti nel
mondo reale con~o~i a quanto appreso dal modello induttore. In questa comunicazine
tautologica, dove chi ascolta sente le stesse cose che egli stesso potrebbe
tranquillamente dire, e chi parla dice le stesse cose che potrebbe ascoltare da
chiunque, in questo monologo collettivo l'esperienza della comunicazione crolla,
perché è abolita la differenza spe-cifica tra le esperienze personali del mondo che
sono alla base di ogni bisogno comunicativo. Con il loro rincorrersi, infatti, le
mille voci e le mille immagini che riempiono l'etere aboliscono progressivamente le
differenze che ancora esistono fra gli uomini e, perfezionando la loro
omologazione, rendono superfluo se non impossibile parlare "in prima persona". A
questo punto i mezzi di comunicazione non appaiono più come semplici "mezzi" a
disposizione dell'uomo perché, se intervengono sulla modalità di fare esperienza,
modificano l'uomo indipendentemente dall'uso che questi ne fa e dagli scopi che si
propone quando li impiega. (Cfr. il capitolo 52: "Mass media e monologo
collettivo".)

La psiche. Quando nell'epoca pre-tecnologica il mondo non era disponibile nella sua
totalità, ogni anima costruiva se stessa come risonanza del mondo di cui faceva
esperienza. Questa risonanza era per ogni uomo la sua interiorità. Oggi, esonerata
dall'esperienza personale del mondo, l'anima di ciascuno diventa coestensiva al
mondo. In questo modo vengono soppresse: la differenza tra interiorità ed
esteriorità, perché il contenuto della vita psichica di ciascuno finisce con il
coincidere con la comune rappresentazione del mondo, o per lo meno con ciò che i mezzi
di comunicazione le destinano come "mondo"; la differenza tra profondità e
superficie perché, con buona pace della psicologia del profondo, la profondità
finisce con l'essere null'altro che il riflesso individuale delle regole del gioco a
tutti comune dispiegato in superficie; la differenza tra attività e passività
perché, se la tendenza della società tecnologica è quella di funzionare ad un regime
di massima razionalità, quindi leibnizianamente come un sistema armonico
prestabilito, non si dà alcuna "attività" che non sia per ciò stesso "adattamento"
alle procedure tecniche che, sole, la rendono possibile. In questo modo l'anima
viene progressivamente depsicologizzata e resa incapace di comprendere che cosa
veramente significa vivere nell' età della tecnica, dove ciò che si chiede è un
potenziamento delle facoltà intellettuali su quelle emotive, per poter essere
all'altezza della cultura oggettivata nelle cose che la tecnica esige a scapito e a
spese di quella soggettiva degli individui. (Cfr. il capitolo 53: "La casa di psiche e
il crollo delle sue mura".)

Il. L'età della tecnica e l'inadeguatezza della comprensione umana. La
depsicologizzazione dell'anima trattiene le discussioni sull'età della tecnica a
quel livello inessenziale che è l'esaltazione incondizionata o la demonizzazione
acritica. Questo libro vorrebbe promuovere quel passo ulteriore che è l'apertura
dell'orizzonte della comprensione, persuasi come siamo che oggi orizzonte della
comprensione non è più la natura nella sua stabilità e inviolabilità, e neppure la
storia che abbiamo vissuto e narrato come progressivo dominio dell'uomo sulla
natura, ma la tecnica, che dischiude uno spazio interpretativo che si è
definiti¬vamente congedato sia dall' orizzonte della natura che da quello della
storia.
Questo è il passaggio epocale in cui ci troviamo, dove l'epocalità è data dal fatto che
la storia che abbiamo vissuto ha conosciuto la tecnica come quel fare manipolativo
che, non essendo in grado di incidere sui grandi cicli della natura e della specie, era
circoscritto in un orizzonte che rimaneva stabile e inviolabile. Oggi anche questo
orizzonte rientra nelle possibilità della manipolazione tecnica, il cui potere di
sperimentazione è senza limite perché, a differenza di quanto accadeva agli albori
dell'età moderna, dove la sperimentazione scientifica avveniva in "laboratorio",
quindi in un mondo artificiale distinto da quello naturale, oggi il laboratorio è
divenuto coestensivo al mondo, ed è difficile continuare a chiamare
"sperimentazione" ciò che modifica in modo irreversibile la nostra realtà
geografica e quindi storica.
Quando le condizioni poste "per ipotesi" lasciano effetti irreversibili, non è più
possibile continuare a iscrivere la tecnica nel giudizio ipotetico-congetturale
che ha come sue caratteristiche la problematicità, la revisionabilità, la
provvisorietà, la perfettibilità, la falsificabilità, ma occorre iscriverla nel
giudizio storico epocale che, tra i giudizi, è il più severo, perché ciò che accade una
volta è accaduto per sempre in modo irrevocabile.
A questo punto la domanda: se l'uomo non esiste a prescindere da ciò che fa, che cosa
diventa l'uomo nell'orizzonte della sperimentazione illimitata e della
manipolazione infinita dischiusa dalla tecnica? Per rispondere è necessario
superare la persuasione ingenua secondo cui la natura umana è un che di stabile che
resta incontaminato e intatto qualunque cosa l'uomo faccia. Se infatti l'uomo, come
vuole l'espressione di Nietzsche, è quell"'animale non ancora stabilizzato" che
fin dalle origini non può vivere se non operando tecnicamente, la sua natura si
modifica in base alle modalità di questo "fare", che perciò diventa l'orizzonte
della sua autocomprensione. Non dunque l'uomo che può usare la tecnica come qualcosa
di neutrale rispetto alla sua natura, ma l'uomo la cui natura si modifica in base alle
modalità con cui si declina tecnicamente. Oggi la tecnica dispone l'uomo di fronte a
un mondo che si presenta come illimitata manipolabilità, e perciò la natura umana non
può essere pensata come la stessa che si relazionava a un mondo, che è poi il mondo che la
storia ci ha finora descritto, ai suoi limiti inviolabile e fondamentalmente
immodificabile.
Eppure ancor oggi l'umanità non è all'altezza dell'evento tecnico da essa stessa
prodotto e, forse per la prima volta nella storia, la sua sensazione, la sua
percezione, la sua immaginazione, il suo sentimento si rivelano inadeguati a quanto
sta accadendo. Infatti la capacità di produzione che è illimitata ha superato la
capacità di immaginazione che è limitata e comunque tale da non consentirci più di
comprendere, e al limite di considerare "nostri", gli effetti che l'irreversibile
sviluppo tecnico è in grado di produrre.
Quanto più si complica l'apparato tecnico, quanto più fitto si fa l'intreccio dei
sottoapparati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto più si riduce la
nostra capacità di percezione in ordine ai processi, ai risultati, agli esiti, per
non dire degli scopi di cui siamo parti e condizioni. E siccome di fronte a ciò che non si
riesce né a percepire né a immaginare il nostro sentimento diventa incapace di
reagire, al "nichilismo attivo" della tecnica iscritto nel suo "fare senza scopo" si
affianca il "nichilismo passivo", denunciato da Nietzsche, che ci lascia "freddi",
perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa
grandezza. E così da "analfabeti emotivi" assistiamo all'irrazionalità che
scaturisce dalla perfetta razionalità (strumentale) dell'organizzazione
tecnica che cresce su se stessa al di fuori di qualsiasi orizzonte di senso.
L'esperimento nazista, non per la sua crudeltà, ma proprio per l'irrazionalità che
scaturisce dalla perfetta razionalità di un'or-ganizzazione, per la quale
"sterminare" aveva il semplice significato di "lavorare", può essere assunto come
quell' evento che segna l'atto di nascita dell'età della tecnica. Non si trattò
allora, come oggi potrebbe apparire, di un evento erratico o atipico per la nostra
epoca e per il nostro modo di sentire, ma di un evento paradigmatico, in grado ancora
oggi di segnalare che se non saremo in grado di portarci all'altezza dell'operare
tecnico generalizzato a dimensione globale e senza lacune, ciascuno di noi resterà
irretito in quella irresponsabilità individuale che consentirà al totalitarismo
della tecnica di procedere indisturbato, senza neppure più il bisogno di
appoggiarsi a tramontate ideologie.
A differenza, infatti, del nichilismo descritto dalla filosofia che si interroga
sul senso dell'essere e del non essere, il nichilismo della tecnica non mette in gioco
solo il senso dell'essere e quindi dell'uomo, ma l'essere stesso dell'uomo e del
mondo nella sua totalità. E se il nichilismo descritto dalla filosofia era
anticipatore, profetico, ma impotente, perché non era in grado di determinare il
nichilismo che prefigurava, il nichilismo sotteso al carattere afinalistico della
tecnica non solo ha in suo potere la nientificazione, ma, stante la qualità degli
imperativi tecnici e la morale degli strumenti che ne deriva, è nella possibilità di
esercitare questo potere. Il fatto che la filosofia, e con lei la letteratura e
l'arte, ancora si trattengono sul problema del senso dell'essere e quindi
dell'uomo, senza sporgere sul problema della possibilità che hanno l'uomo e il mondo
di continuare ad essere, contribuisce a quel "nichilismo passivo" che Nietzsche
denunciava come nichilismo della rassegnazione. (Cfr. il capitolo 54: "Il
totalitarismo della tecnica e l'implosione del senso".)
Nata sotto il segno dell'anticipazione, di cui Prometeo, "colui che pensa in
anticipo", è il simbolo, la tecnica finisce in questo modo col sottrarre all'uomo
ogni possibilità anticipatrice, e con essa quella responsabilità e padronanza che
deriva dalla capacità di prevedere. In questa incapacità, divenuta ormai
inadeguatez¬za psichica, si nasconde per l'uomo il massimo pericolo, così co¬me
nell'ampliamento della sua capacità di comprensione la sua flebile speranza.
Questo ampliamento psichico, alla cui promozione questo libro affida il suo senso,
se da un lato non è sufficiente a dominare la tecnica, evita almeno all'uomo che la
tecnica accada a sua insaputa e, da condizione essenziale all'esistenza umana, si
traduca in causa dell'insignificanza del suo stesso esistere.



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Parte prima
Simbologia della tecnica: la scena del Caucaso

1. Il sigillo della necessità

La tecnica è di gran lunga più debole della necessità.
        ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 514

Conoscerai come la Necessità, guidando la volta celeste,
        costringe gli astri a tenere i confini.
        PARMENIDE, DK, fr. BIO
1. L'invalicabilità del limite

La scena si apre sul Caucaso dove un'aquila, inviata da Zeus, rode a Prometeo il fegato
che di continuo si riforma per l'eternità del supplizio. La colpa di Prometeo è di aver
insegnato la tecnica agli uomini rendendoli, "da infanti quali erano, razionali e
padroni della loro mente". 1
Con la tecnica gli uomini possono ottenere da sé quello che un tempo chiedevano agli
dèi. 2 La trasformazione è grande e la progettazione che la sottende, qualora dovesse
realizzarsi per intero, avrebbe il potere di cancellare in modo definitivo
l'orizzonte mitico-religioso in cui è nata. La mitologia greca intuisce
esattamente il senso e la direzione a cui porta il dono di Prometeo, ma può ancora
proseguire e mantenere la visione del mondo da essa inaugurata perché nella Grecia
antica il progetto tecnico non è ancora corredato degli strumenti necessari alla sua
esecuzione. A ricordarlo è lo stesso Prometeo: "La tecnica è di gran lunga più debole
della necessità [Téchne d'andnkes asthenestéra makro]".3 Si allude qui alla
necessità (andnke) che regola la na
tura e la scansione del suo ciclo che nessun progetto umano può infrangere e di fronte
al quale ogni espediente tecnico incontra il suo limite. La natura resta norma e su
questa norma gli uomi¬ni edificheranno le loro leggi e le loro morali.
Eppure in questo edificare lavorava nascosta una tendenza appena percettibile, ma
decisiva. L'uomo, cioè, si adattava alla legge della natura, che continuava a
dichiarare immutabile, modificando continuamente l'assetto della natura per
adattarla a sé. Questo processo mai dichiarato, ma sempre praticato, ha portato
l'uomo così lontano dalle sue origini da rendere desueto quel patrimonio di
abitudini in cui era cresciuto ein cui si era pensato quando la natura era il suo limite
e, in questo limite, l'uomo ravvisava l'impianto delle sue certezze.
Oggi non è più così: la natura non è più orizzonte. Cielo e terra non fanno più da
perimetro, perché le cose situate nel cielo e sulla terra si sono fatte cedevoli sotto
gli strumenti della scienza e della tecnica che, a questo punto, sono di gran lunga più
forti della necessità. Il sigillo che ancora Prometeo poneva alle possi¬bilità
della tecnica è ormai infranto. Il rapporto si è capovolto, non c'è più alcuna
"necessità" a porre limiti ai programmi dell'umanità progettante. La morte di Dio,
ultimo baluardo dell'immodificabile, è testimonianza di resurrezioni
impossibili. Chi si attarda non abita la storia, la cui scansione epocale offre l'età
della tecnica non più in successione con altre che l'hanno preceduta, perché la
trasformazione non ha inciso solo sulle cose, ma sul rapporto che l'umanità ha sempre
conosciuto come impotenza del suo progettare rispetto all'invalicabilità del
limite.
Tutto si fa più incerto. Non c'è più custodia nel progetto che l'uomo avverte come
ineliminabile impulso e di cui non conosce il limite rassicurante. Dove il limite è
ignoto, ignoto rimane il criterio, e più non è possibile quello che era possibile
nelle epoche passate dove, per una previsione razionale del futuro, bastava
guardare il passato. Congedatosi dal tempo ciclico, che è poi il tempo della natura,
l'uomo abita quello che Prometeo chiamava "il tempo che invecchia"4 e che,
invecchiando, mette ancor più a nudo la condizione di "mortale [br6tos J" a cui gli
uomini sono ir¬rimediabilmente consegnati e da cui Prometeo aveva cercato di
difenderli ponendo in loro "cieche speranze".5

2. L'inviolabilità della natura

La tecnica antica non era inquietante perché non era capace di oltrepassare l'ordine
della natura che il pensiero mitico e filosofico ponevano sotto il sigillo della
Necessità. Questa era più forte sia della tecnica divina di Zeus che incatena
Prometeo servendosi degli strumenti di Efesto, sia della tecnica umana che Prometeo
aveva donato ai mortali per sollevarli dalla loro condizione indifesa.
È vero che la violazione della natura e l'emancipazione del¬l'uomo nella sua
differenza dalla condizione animale vanno di pari passo, e che la figura
dell'Inquietante, un misto di meravi¬glia e di angoscia, si affaccia al pensiero
tragico: "molte sono le cose inquietanti [deinà], ma nessuna più dell'uomo
[dein6teros J", 6 ma l'inquietudine provocata dal progresso tecnico è
insignificante rispetto all'inquietudine della morte a cui l'uomo soggiace
nel¬l'ordine della necessità. Si tratta della stessa necessità che da un lato
decreta la morte del mortale e dall'altro lo protegge garan¬tendo, contro le sue
incursioni tecniche, l'inviolabilità della na¬tura "grandissima, instancabile,
immortale".7
La necessità che garantisce l'immutabilità della natura è fi¬gurata,
nell'Antigone di Sofocle, dalla quiete del mare che si ri¬compone alle spalle
dell'imbarcazione che ha osato sfidarla, dal¬la fecondità della terra che, non
sfibrata, rimargina il solco del¬l'aratro che l'ha percorsa, dal cielo che, non
trafitto dalle armi della caccia, continua a ospitare "gli uccelli spensierati".8
L'uo¬mo, il "signore delle tecniche [mechan6en téchnas)'',9 per "quan¬to domini
con i suoi espedienti le bestie selvagge dei monti, il ca¬vallo dalla folta criniera,
il toro gagliardo piegandolo sotto il gio¬go",