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Iraq, l'analogia con il Vietnam

di Immanuel Wallerstein - 04/12/2007





 

George W. Bush sta mostrando allo stesso tempo disperazione e perfidia invocando l'analogia con il Vietnam per giustificare il persistere della presenza americana in Iraq. Per moltissimo tempo l'amministrazione Bush ha negato questa analogia. Lo faceva per ovvie ragioni.

Per la maggior parte della gente quel che si ricorda del Vietnam è che gli Stati Uniti furono sconfitti, e questa sconfitta causò un indebolimento della potenza americana nel mondo.

Tuttavia negli Stati Uniti c'è un significativo gruppo di persone che credono che gli Usa avrebbero potuto vincere quella guerra se ai politici non fossero saltati i nervi. L'uditorio che George W. Bush ha usato per il suo discorso del 22 agosto in cui ha sostenuto questo argomento era la convenzione annuale dei Veterans of Foreign Wars [veterani delle guerre all'estero]. Si può dire con certezza che questo particolare uditorio era composto in larga parte di gente che condivide l'opinione che il Vietnam fu una guerra che si sarebbe potuta vincere, e che quindi l'Iraq è una guerra che si può vincere. Vale la pena di esaminare la validità degli argomenti di Bush, e poi le ragioni per le quali adesso, e solo adesso, ha invocato l'analogia del Vietnam.

L'argomento è strano. Bush non ha fornito alcun elemento sulla situazione militare in Vietnam e sul perché, se gli Stati Uniti avessero insistito, la guerra si sarebbe potuta vincere. Invece si è concentrato interamente sulle pretese conseguenze del ritiro. Ha sostenuto la sua argomentazione usando tre slogan: boat people, campi di rieducazione, e campi della morte. I boat people si riferiscono al fatto che molti vietnamiti che in guerra erano stati sostenitori degli Stati Uniti cercarono di fuggire dal paese in barca e molti di loro morirono nel Mar Cinese Meridionale. I campi di rieducazione fanno riferimento al fatto che il governo del Vietnam, dopo la fine della guerra, mandò molti che si erano opposti alla sua presa del potere in cosiddetti campi di rieducazione. E i campi della morte fanno riferimento al fatto che – in Cambogia, non in Vietnam – il governo dei Khmer Rossi che andò al potere massacrò un grandissimo numero di persone in “campi della morte”. Ciascuna di queste conseguenze sarebbe il risultato del ritiro Usa, e ciascuna si sarebbe potuta evitare se gli Stati Uniti non si fossero ritirati. Esaminiamole una per una.

Che molti sostenitori degli Stati Uniti dopo il ritiro avrebbero voluto fuggire dal Vietnam era naturalmente sia prevedibile che inevitabile. In una guerra chi perde normalmente cerca di fuggire dal gruppo contro il quale ha combattuto. Ma le morti di questi boat people non furono responsabilità del governo vietnamita. Furono responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati, che rifiutarono di aprire generosamente i loro confini a queste persone. Basta solo paragonare il destino di questi boat people a quello di quegli altri boat people che hanno lasciato Cuba negli anni. Questi ultimi, a differenza dei primi, sono stati accolti a braccia aperte negli Stati Uniti.

I campi di rieducazione erano aspri. Molte persone ci morirono, e ancora di più soffrirono gravemente. Il numero dei morti fu comunque molto inferiore al numero di vietnamiti che morirono come risultato della guerra, e probabilmente meno di quelli che sarebbero potuti morire se la guerra fosse continuata molto più a lungo. In ogni caso qual è la prova che, se gli Stati Uniti fossero rimasti in guerra più a lungo di quanto fecero, avrebbero potuto effettivamente sconfiggere i Vietcong? E quale sarebbe stata la probabilità che gli oppositori dei Vietcong, se avessero vinto, non avrebbero istituito i propri campi di rieducazione?

Infine, i campi della morte. Questo è l'argomento più bizzarro di tutti. I Khmer Rossi non sarebbero mai potuti nascere senza la guerra del Vietnam. Furono gli Stati Uniti che deposero il re Sihanouk, che era stato la barriera più forte contro i Khmer Rossi. Al posto di Sihanouk, che criticava il coinvolgimento Usa in Vietnam, gli Stati Uniti organizzarono il suo rovesciamento ad opera di Lon Nol, un generale senza appoggio popolare, dopodiché il governo di Lon Nol fu a sua volta facilmente abbattuto dai Khmer Rossi.

Le cose più importanti che Bush ha lasciato fuori dalla sua analisi sono quelle che non sono avvenute. All'epoca l'argomento principale a favore del coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam era stata la tesi del domino – che se il Vietnam cadeva in mano ai comunisti, il resto dell'Asia lo avrebbe seguito. Non solo ciò non accadde, ma accaddero cose del tutto diverse. Oggi Vietnam e Stati Uniti hanno ottimi rapporti, e il Vietnam ha un'economia fiorente e in crescita. Potrà non essere “democratico” per gli standard Usa, ma è una nazione “amica”, non una ostile.

Così, dato tutto ciò, perché adesso Bush per la prima volta invoca l'analogia del Vietnam, che prima aveva costantemente evitato? Ho detto che è stata in parte disperazione, in parte perfidia. La disperazione ha a che fare con l'enorme pressione popolare per un ritiro prima possibile dall'Iraq. Bush ha già creato un rinvio di ogni decisione dicendo che il gen. Petraeus avrebbe riferito a lui e al Congresso il 15 settembre su quanto avesse avuto successo l'“aumento” delle truppe. Ha detto che avrebbe preso le sue decisioni sull'Iraq sulla base del rapporto del generale. Tuttavia ora emerge che il rapporto che il gen. Petraeus consegnerà al Congresso sarà scritto nell'ufficio di Bush. Così Bush sta prendendo una decisione sull'Iraq in base a un rapporto che scrive a se stesso.

Bush ha anche invitato dei “turisti politici” in Iraq per una visita guidata di come stanno andando bene le forze armate americane nella provincia di Anbar, dove hanno raggiunto un accordo con un gruppo di insorgenti sunniti affinché combattano contro un altro gruppo. Questo ha impressionato alcuni politici democratici, che ora ci vanno piano a negare il “successo”. Gli uomini di Bush ammettono che la situazione politica complessiva è terribile. Al primo ministro iracheno, Nouri al-Maliki, gli accordi che gli Usa hanno concluso nella provincia di Anbar non piacciono affatto, né apprezza le pressioni affinché agisca contro le molteplici milizie settarie. Visitando la Siria , ha detto chiaramente che l'Iraq ha altre opzioni politiche oltre agli Stati Uniti. Immediatamente si sono diffuse voci che gli Usa potrebbero incoraggiare un colpo di stato militare. Ora, questa è un'analogia con il Vietnam. L'intervento americano cominciò ad andare davvero male una volta che gli Stati Uniti ebbero organizzato un colpo di stato contro il primo ministro del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem. Così, la disperazione è nel fatto che gli argomenti per restare in Iraq non possono resistere alla luce del giorno. Un recente sondaggio della rivista Foreign Policy fra cosiddetti esperti di politica estera mostra che l'80% attribuisce alla guerra in Iraq un “impatto molto negativo” sugli obiettivi di sicurezza nazionale americani. Se questo dato viene scorporato secondo le definizioni che danno di sé gli intervistati, ben il 60% di quelli che si autodefiniscono “conservatori” danno la stessa risposta.

Ma allora, perché perfidia? George W. Bush sta preparando il futuro. Il presidente che si ritirò dal Vietnam fu un repubblicano, Gerald Ford, e lo fece dopo un lungo ridimensionamento delle truppe Usa ad opera di un altro presidente repubblicano, Richard Nixon. Bush non ritirerà le truppe. Ma è ben sicuro che il prossimo presidente sarà costretto a farlo. Ed è ben sicuro che il prossimo presidente sarà un democratico. Così sta ponendo le basi per l'accusa di “pugnalata alla schiena”. Nel prossimo decennio sentiremo parlare molto di questa accusa.