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Qué viva Putin

di G.P. - 04/12/2007

 

 

Come era prevedibile “Russia Unita”, il partito di Putin, è riuscito a confermare le previsioni elettorali raggiungendo il 63% dei voti circa (nei fatti, può ora controllare il 90% del parlamento) e ridisegnando la geografia partitica della Duma. Nonostante gli attacchi della stampa estera, lanciatasi in una canea di accuse sull’autoritarismo e sui metodi antidemocratici del nuovo “Cesare” della Russia, la gente ha espresso la propria preferenza non tenendo conto dei lamenti degli occidentali. Il partito ha quasi raddoppiato i consensi dalle elezioni di 4 anni fa.

Senza contare che altre due compagini politiche, "sorelle minori" di Russia Unita, sono riuscite a superare lo sbarramento del 7%. Visti i dati ci si aspettava che, quanto meno, i soliti denigratori, europei ed americani, facessero un passo indietro rispetto a quanto dichiarato nei giorni scorsi. Invece nulla, sono state reiterate le accuse di sempre condite con le interviste agli sconfitti, i quali parlano ancora di brogli e di un clima di aperta intimidazione. Naturalmente il primo ad aprire il balletto delle invettive è stato il "campione" del mondo d’ipocrisia Kasparov: “Da oggi comincia la dittatura”. Non contento, lo scacchista, che nei giorni scorsi aveva parlato di sola apparente forza di Putin, è andato a depositare un mazzo di fiori davanti alla sede del comitato elettorale, manifestando il suo cordoglio per la "dipartita" della democrazia russa. Meno teatrale di Kasparov, ma sulla stessa linea infamante, è stato il comunista Ziuganov che ha denunciato un enorme furto di voti. Infine, anche i due partiti liberali dell’opposizione, appoggiati dalla stampa estera, non si sono discostati dallo sproloquio, ma non sono riusciti nemmeno ad entrare in parlamento. A prescindere da come sono andate realmente le cose (vorrei quindi concedere che qualche pressione “psicologica” ci sia stata, sottoforma di concessioni e promesse “sopra le righe”, come accade un po’ dappertutto) dobbiamo pensare che i russi abbiano premiato Putin per ben altri motivi. In primo luogo perché costui ha risvegliato l’orgoglio e la voglia d’indipendenza della nazione. In secondo luogo perché il tenore di vita della popolazione è effettivamente cresciuto.

In pochi anni il presidente è riuscito a porre rimedio agli innumerevoli guasti di un decennio nefasto, imponendo la museruola ai poteri forti internazionali e alle “sponde” interne che avevano concorso al saccheggio del paese. La Russia non è certo diventata un paradiso terrestre, ma almeno ha abbandonato le vestigia della cortigiana per riprendere in mano il proprio futuro.

Putin è stato l’artefice di tale “risorgimento” perché non si è fatto abbagliare dallo "sfavillìo"  della democrazia in stile occidentale e non si è affidato alle eterne leggi del mercato liberale per risollevare le sorti della nazione. Sicuramente, l’acuta politica energetica del gas e del petrolio ha avuto un peso determinate, ma di uguale lungimiranza sono stati gli accordi che le imprese russe (sotto lo sguardo attento del potere politico) hanno stretto con alcune consorelle internazionali, tra le quali spicca anche l’italiana ENI.

Come ha giustamente sostenuto Vitali Ivanov, uno dei più brillanti analisti caucasici vicini a Putin, “la democrazia è solo uno schermo per non far capire alla gente chi governa davvero”. E come dargli torto dopo quello che il sistema pseudodemocratico eltsiniano ha permesso in Russia? Gli anni della costruzione del “castello democratico” sono coincisi con lo smembramento e il declino di un impero il quale, nonostante tutti i limiti da cui era affetto, era comunque riuscito a fare concorrenza alla potenza predominante. Oggi quei “fasti” sono molto lontani (l’arsenale militare è appena 1/3 di quello sovietico ed esistono problemi legati all’obsolescenza infrastrutturale complessiva) ma si stanno ponendo le premesse per il recupero di una dimensione di marcata forza geopolitica. Ed è questa l’attuale scommessa della Russia, ottimizzare le  performances economiche, militari e tecnologiche (in previsione dell’entrata in una nuova epoca di policentrismo) per dare uno scossone ai rapporti di forza a livello mondiale.

 

Ma per un leader che sale nel gradimento del suo popolo c’è ne un altro che incassa una sconfitta sonora. Stiamo, ovviamente, parlando di Ugo Chavez e del suo tentativo di riformare la costituzione, fermatosi appena sotto il 50% dei consensi. Chavez ha commesso un errore marchiano perché non ha voluto considerare, al contrario del più arguto Putin, la composizione dei blocchi sociali che sorreggono il suo potere. Il presidente venezuelano è un leader carismatico, molto amato dai diseredati e dagli strati più bassi della società latinoamericana, ma non è con le parole d’ordine sul socialismo del XXI secolo che potrà portare dalla sua parte i settori dello Stato, delle forze armate e delle imprese nazionali più forti che in questo non ostacolano la sua azione (almeno una parte di questi). Anche in Venezuela esistono strati sociali che vorrebbero recuperare il paese ad una maggiore indipendenza geopolitica, ma senza alcuna intenzione di sospingere l’economia nazionale nella direzione della socializzazione delle forze produttive. Insomma, il bolivarismo di Chavez è utile per creare condivisione politica nelle classi subalterne ma non affascina gli strati sociali superiori i quali si propongono ben altri obiettivi. Del resto, così come la “superstizione democratica” è un cavallo di troia utilizzato dagli Usa per impedire a questi paesi di fuoriuscire dalla sua egida, allo stesso modo i vacui riferimenti a sistemi sociali del passato, ormai falliti e consunti dal processo storico, sviano dai veri obiettivi di questa fase. Occorre certo continuare ad appoggiare Chavez nel suo antiamericanismo e nel suo dialogo con i paesi che si collocano fuori dall’orbita egemonica statunitense, ma non è col populismo e con fantomatiche idee socialiste che si porteranno a sintesi le principali contraddizioni economiche e sociali del Venezuela.

Almeno Chavez ha dato una lezione politica a chi già immaginava che, in caso di sconfitta, i cannoni avrebbero risuonato per tutto il paese. Pensate che sul Giornale online di ieri, alle ore 7.00, faceva bella mostra di sé un articolo di Alberto Pasolini Zanelli, probabilmente scritto nelle prime ore del mattino, che parlando della vittoria di Chavez (sulla base degli exit polls) avanzava l’ipotesi di un golpe se solo le cose fossero andate diversamente.

Il giornalista zelante è stato smentito e con lui le solite “cornacchie democratiche”.