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Lettera a un insegnante. Vittorino Andreoli

di Marco Managò - 04/12/2007

 

 
Lettera a un insegnante. Vittorino Andreoli


Il volume edito da Rcs Libri – Bur è una lunga lettera che il noto psichiatra dedica interamente al mondo della scuola, attraversandolo a tutto tondo. La forma epistolare è quella prescelta perché instaura un dialogo, non di contrapposizione ma, nel rispetto reciproco, di relazione, senza alcuna velleità manualistica.
Andreoli sa bene quanto le difficoltà “tecniche”, quali la fatiscenza degli edifici scolastici e la lontananza da casa e dagli effetti siano incidenti per alunni e insegnanti. “E mi invadeva una vera e propria rabbia per i mancati investimenti dello Stato a favore della scuola, mentre compera carriarmati e aerei spia da impiegare nelle guerre di pace o in quelle preventive…”, scrive.
In un clima costantemente mutante, in cui il docente spesso sa di occupare una posizione e una cattedra per poco, in vista di un trasferimento, l’intento è quello di sdoppiare l’ambiente scuola dal rigido protocollo per enuclearne l’aspetto formativo, di creazione dell’individuo, fondato sull’apporto umano, oltre che nozionistico, dell’insegnante.
Andreoli, in passato, egli stesso in procinto di diventare insegnante, ha per questo ruolo un rispetto e un interesse notevole, al punto di volerne ribadire l’importanza in un mondo dominato dalla tecnologia imperante, dalla competizione e dall’equazione scuola-lavoro. Il pragmatismo finalizza la fine della scuola all’agognato lavoro, per il soddisfacimento materiale ed effimero, e poi?
L’autore conosce, sulla propria pelle, l’alto numero di adolescenti rinchiusi in manicomio, in carcere o, addirittura, finiti in una bara.
Il sapere, risorsa ineguagliabile dell’uomo, è un patrimonio per tutta la vita, fitto di relazioni ed emozioni che nessun computer, per quanto di notevole ausilio, potrà mai offrire. Il sapere, inoltre, va sempre indirizzato al momento storico vissuto, alle esigenze di crescita del gruppo e non del singolo quale unità a se stante. Esasperare giudizi e competizione nella scuola dell’obbligo significa perdersi per strada alcuni giovani meno motivati, distratti anche da problemi affettivi, emozionali; per questo la ricerca dell’insegnante va rivolta alla crescita del gruppo-classe.
Aggiunge Andreoli: “Si deve porre questa eguaglianza per permettere a ciascun allievo di sentire più affascinante una materia rispetto a un’altra, in un relativismo che fonda le proprie radici nella diversità e lontano dal mito di una uniformità assurda o puramente utopica”.
La forza del singolo quale acceleratore del gruppo anziché solista di un’orchestra, lo svilupperà secondo una direttrice più ampia, di vicinanza anziché distacco dalla realtà circostante, senza tema di omogeneizzazione o anonimato.
L’insegnamento universitario sarà caratterizzato, invece, dalla spinta individualistica, dalla falsa solidarietà tra studenti, a metà fra il mantenimento del prestigio dell’ateneo e l’affermazione del singolo.
L’autore esprime anche il personale rifiuto a una scuola fondata su graduatorie e classifiche, tra il primo e l’ultimo della classe.
Restringere l’intero processo d’apprendimento a una mera successione di numeri e giudizi, potrebbe significare un addebito eccessivo di responsabilità per il più meritevole e un crollo definitivo per l’alunno più in difficoltà. Un bravo allenatore sa cogliere da ogni singolo elemento il meglio, seguendo anche i tempi giusti e destreggiandosi tra quelli favorevoli e quelli più ostici.
Le punizioni corrono il rischio di produrre gli stessi risultati: anziché stimolare chi le riceve, lo affossano ancor di più aggiungendosi, spesso, a problemi familiari. La punizione massima, quella della bocciatura, comminata con lo spirito positivo di non aggravare il divario formativo ma di recuperarlo positivamente l’anno seguente, rischia di non produrre tali effetti bensì di generare sconforto in un individuo che si sente già un semi-fallito, soprattutto in una società che non ha tempo e voglia di aspettare chi si attarda.
Giudizi e punizioni, occorre ricordarlo, sono, altresì, condizionate dallo stato d’animo contingente dell’insegnante e della decodificazione positiva o negativa che ha dell’alunno, in cui gesti, volti e parole possono determinare un approccio positivo di simpatia o negativo di antipatia; di questa soggettività del giudizio occorre tener sempre conto.
L’insoddisfazione personale che attanaglia una società fortemente e rapidamente dedita al consumo, propone anche generazioni di studenti avulsi, imperniati sul successo individuale, volti esclusivamente al riconoscimento del nemico in un contesto scolastico di pura conflittualità. Da qui la ricerca della trasgressione, della vana ribellione sostenuta da sostanze stupefacenti o alcoliche.
Le patologie interne alla classe si innescano anche in seguito alle distinzioni operate nei confronti degli stessi alunni, alcuni proiettati come esempi, altri come negatività assolute: in entrambi i casi si generano soggetti estranei e malvoluti dal resto del gruppo. Si avvia, così, un fenomeno di repulsione e di sfida, del cosiddetto bullismo, di cui le cronache riempiono quasi quotidianamente le pagine e che investono gli stessi alunni nonché il corpo docente, alcune volte in balia degli allievi, altre volte in discutibile connivenza.
Il bullo incarna proprio lo stereotipo dell’eroe moderno, quello che battaglia per porre esclusivamente se stesso al centro dell’attenzione e degli sguardi, con atti miseri o nell’anonimato del gruppo; nulla a che vedere con l’immagine dell’eroe antico, veramente in grado di mutare eventi e cose con il suo coraggio e il suo altruismo.
Si vive il periodo della frammentazione, dell’azione isterica e isolata, senza consecutio temporum, in un vortice frenetico di sentimenti e messaggi, nei tempi rapidissimi di un sms o di un messaggio di posta elettronica; l’epoca del sapere a quiz e dell’etica di circostanza.
Precise le parole di Andreoli: “E così anche chi, come noi, ha antenati nella Magna Grecia, è stato adottato dalla cultura americana e dall’empirismo anglosassone, in cui non conta il capire ma il fare e ottenere risultato”. La standardizzazione imposta di gusti e sentimenti è riassunta in tal modo: “Se l’uomo si attiva solo davanti a qualcosa di quadrato, diventa facile per il potere ingannarlo, e trasformare così persino la democrazia in tirannia, tanto i singoli e il popolo schiacceranno il bottone che si è deciso debbano premere…”.
L’autore elenca una serie di caratteristiche che dovrebbero esser insite nel dna di ogni docente, quali la partecipazione alle attività scolastiche, il piacere di svolgere la propria professione e la multiformità delle tecniche di comunicazione, tenendo a mente non soltanto quella verbale, ma anche quella musicale o dell’immagine, attraverso le quali si può sviluppare un’intelligenza altrimenti ignorata. Altra dote è quella dell’autorevolezza, di non porsi sullo stesso piano degli allievi per non fornire alibi a una confidenza eccessiva. Scrive Andreoli: “E la scuola non può essere banalizzata come se fosse un luogo di intrattenimento per giovani, un pub o un club d amici”.
Aggiunge: “La informalità come modalità per abbattere tutte le barriere ha comportato la banalizzazione di ogni azione, di ogni esperienza esistenziale e il tutto è stato sostituito dall’empirismo e dal cinismo che riportano il risultato ottenuto soltanto in base al suo valore economico…”.
Comportarsi secondo coerenza sembra intendere una desueta chiusura mentale e, invece, in un’epoca di flessibilità onnivora, è necessario mutar atteggiamenti.
La mentalità corrente, di presunta emancipazione individuale, innanzitutto psicologica, determina un lassismo generalizzato che elimina le imposizioni e sostiene la necessità di far quel che si vuole, pena disagi psichici. In questo avventato abbandono morale, quali sono le prime vittime designate? Proprio gli studenti, alieni dal senso del dovere.
Si pone l’accento anche sulla cosiddetta intelligenza emotiva, non meno importante di quella classica; legate strettamente in un binomio nel quale se quella dei sentimenti fosse distaccata o penalizzata rispetto a quella dell’intelletto, si avrebbero conseguenze disastrose. Altra variabile da considerare è la maturità sociale, l’adattabilità del singolo agli altri, sino a condividerne i valori o a presentare il personale conto gravoso per un insuccesso. In una società dove l’informazione e il sapere provengono anche da altre fonti, quali media e computer, la scuola deve essere più vasta nella formazione sino a insegnare a crescere, a vivere.
Per quanto riguarda i reciproci rapporti tra scuola e famiglia, spesso sussistono nota invasioni illegittime; a cominciare dai compiti a casa, questa spada di Damocle che pesa su scolari e genitori, il cui desiderio di svolgerli a volte sconfina, in famiglia, in minacce, rifiuti e menzogne.
L’invasione inversa è quella delle famiglie nei confronti della scuola, che l’autore distingue anche a seconda del ceto sociale e, quindi, dell’interesse e della presunzione che il lignaggio consente, pur di salvaguardare il proprio figlio da rimproveri e ingrati giudizi.
Il testo comprende anche una panoramica delle tipologie di insegnanti, da quello permissivo che concede tutto e permette troppa confidenza, a quello cattivo e inflessibile, a quello ingiusto, sino a quello minimalista, del tutto indifferente a studi e alunni; nell’epoca del trionfo dell’esteriore, purtroppo, gioca un ruolo determinante anche l’aspetto fisico dell’insegnante, esaltato o deriso dai giovani virgulti, implicando una maggiore o minore partecipazione alle attività. Quasi impossibile è trovare l’insegnate ideale, quello che, muovendo da dubbi e fantasia, riesce a stimolare l’interesse e la creatività individuale per sublimarla nel gruppo.
Andreoli ricorda: “La crescita è la risultante di una biologia che si svolge, ma anche dell’ambiente fisico e di relazioni interumane, ed è fatta pure delle esperienze passate che, oltre a costituire una memoria, lasciano i segni per la costruzione della personalità”.
La disamina riveste quasi interamente le sfaccettature del mondo scolastico attuale e l’autore non si ritrae fornendo, oltre a preziosi consigli, anche un personale sfoggio di conoscenza della psiche. Personalmente avrei aggiunto altre problematiche. Una tra queste l’impatto (che si verifica quasi esclusivamente nelle scuole pubbliche) a seguito dell’inserimento del gran numero di bambini extracomunitari e del loro diverso approccio alla lingua italiana, con le conseguenze di carattere religioso e alimentare che ne conseguono. Al riguardo si potrebbe dedicare un altro volume.
Tra i limiti della scuola attuale inserirei, inoltre, la sproporzione, a vantaggio dell’insegnamento mnemonico e nozionistico e a discapito di quello concettuale, nonché il ruolo marginale, soprattutto per le scuole elementari (in cui si riduce a quello di mero raccoglitore di fondi per feste private), del rappresentante di classe, solo sulla carta organo di mediazione tra le problematiche degli alunni e le istituzioni.
L’autore riveste, infine, ancora una speranza per la ripresa dell’apparato scolastico, eppure i dettami provenienti da oltreoceano spingono chiaramente verso un abbandono del pubblico per un’affermazione della scuola privata; sull’esempio di quanto avviene da anni per il sistema sanitario, ove la qualità si misura solo in termini economici più elevati, privati.