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Home / Articoli / Ultime notizie dal mondo 15-30 Novembre 2007

Ultime notizie dal mondo 15-30 Novembre 2007

di redazionale - 05/12/2007


 

a)      Italia / Afghanistan. Sotto comando USA e contro la Costituzione italiana, gli italiani combattono nel paese asiatico occupato. Per evitare imbarazzi, le notizie dal paese sono silenziate. La “sinistra radicale” è scandalizzata a parole, ma avalla nei fatti stando al governo (17 e 21).  Intanto la situazione precipita ed allarma pensatoi e stampa internazionale (22 e 30). Su un altro fronte, il Kurdistan, il governo di centrosinistra italiano, in sintonia con Washington, sponsorizza invasioni (23).

 

b)      Serbia / Kosovo. L’astensionismo è il vero vincitore delle elezioni parlamentari tenutesi in un Kosovo, «zona franca» dei traffici mafiosi, pronto a dichiarare unilateralmente la secessione da Belgrado con il sostegno di Washington (20). Intanto Belgrado, Pristina e la troika (USA-UE-Russia) concludono i negoziati sull’”indipendenza sorvegliata” del Kosovo annunciandone il fallimento (29).

 

c)      Palestina. Quale “Stato palestinese” ha in mente la dirigenza israeliana? Un’”area groviera”, uno “Stato di bantustan” senza Gerusalemme, recintata da un Muro e spezzettata al suo interno da check point e colonie israeliane, controllata nei confini, nelle strade, nel commercio, nell’acqua e nelle risorse energetiche da Israele (18, 20). E mentre le annessioni di territorio da parte di Israele irritano persino la Chiesa cattolica (18), Olmert precisa che i negoziati con i palestinesi si dovranno basare anche «sulla lettera del 14 aprile 2004 del presidente Bush al primo ministro di Israele», annunciando in sostanza nuove annessioni ad Israele di porzioni di Cisgiordania palestinese (28).

 

d)      Unione Europea. Da Bruxelles proposta choc sull’agricoltura (20). Colpiti anche gli interessi italiani. Resta sempre il solito interrogativo: per difendere quali interessi è nata l’Unione Europea?

 

Sparse ma significative:

 

  • Libano. Continua lo stallo a Beirut per trovare un candidato presidente gradito sia alla coalizione governativa filo-USA che all’opposizione di Hezbollah e cristiani di Aoun. Grossa la responsabilità di Washington, che nei fatti fa sfumare i tentativi di trovare un candidato condiviso (24, 25). Intanto l’Imam sciita libanese, Muhammad Hussein Fadlallah, vicino alle posizioni di Hezbollah, con una fatwa ricorda che la donna non è schiava dell’uomo (29).

 

  • India. Nuovo passaggio sul nucleare indiano, sotto gli auspici di Washington, che ha concesso all’India (nucleare civile e militare) ciò che vuole impedire all’Iran (nucleare civile). La coalizione di centrosinistra dice sì all’accordo con gli USA (16). Intanto, sempre gratificando Washington, Nuova Delhi accentua la cooperazione militare con Israele e annuncia lo sviluppo, congiunto con Tel Aviv, di un nuovo missile (27).

 

  • USA / Iran. Come Washington intende mettere l’Iran all’angolo. L’opinione di Phillys Bennis, esperta di Medio Oriente per l’ “Institute for policy studies” (24). Ma la possibilità di un attacco all’Iran continua a suscitare allarmi e disapprovazione anche nelle alte sfere militari USA (24).

 

  • Olanda. La sanità nell’epoca del neoliberismo. Proposta choc: assistenza sanitaria gratuita a chi si priva di un rene (17).

 

  • USA. Amenità dall’Impero: le atrocità di Guantanamo raccontate in un manuale reso pubblico su Internet (15). Le diserzioni in significativo aumento, nell’ultimo anno, nell’esercito USA (15). Procedure della polizia newyorkese (15). L’ex portavoce della Casa Bianca accusa Bush e Cheney del “CIA-gate” (22). La miseria negli USA: un cittadino su 8 fa la fame (26).

 

 

Tra l’altro:

 

Turchia (17, 29 novembre).

Georgia (17 novembre).

Pakistan (18, 23, 25 novembre).

Venezuela / Iran (17 novembre).

Repubblica Ceca (18 novembre).

Ecuador / USA (19 novembre).

Cina (20 novembre).

Polonia (21, 27 novembre).

Giordania (23 novembre).

Venezuela / Colombia (23 novembre).

Bolivia (24, 25, 27, 29 novembre).

Australia (25, 30 novembre).

Canada (25 novembre).

Russia (30 novembre).

 

  • USA. 15 novembre. Diserzioni in aumento del 42%, nell’ultimo anno, nell’esercito statunitense. Un tasso di diserzione pari a 9 soldati su mille (4.698 in totale nel 2007), contro il 7 per mille (3.301) dell’anno precedente. Anche se le cifre totali sono ancora lontane in valore assoluto da quelle che hanno caratterizzato il periodo della guerra in Vietnam, questa percentuale è la più alta da quando è cominciata, quattro anni fa, la guerra d’aggressione all’Iraq. L’esercito USA considera disertore chi è assente senza autorizzazione per un periodo superiore ai 30 giorni. Negli anni Settanta, durante la guerra del Vietnam, il tasso di diserzione aveva raggiunto un valore anche superiore a 3 soldati su cento. I valori erano poi tornati bassissimi a partire dagli anni Ottanta, con un tasso di diserzione compreso tra il 2 e il 3 per mille. Hanno ricominciato a risalire dal Kosovo in poi.

 

  • USA. 15 novembre. Le atrocità di Guantanamo raccontate in un manuale leggibile su Internet. Le procedure che i militari statunitensi applicano quotidiamente nella base USA di Guantanamo (Cuba) nei confronti dei detenuti sono contenute in Camp Delta Standard Operating Procedures (Procedimenti Operativi nel Campo Delta). Il manuale (238 pagine), firmato dal generale Geoffrey Miller, è finito la settimana scorsa sul sito wikileaks.org. La notizia è stata data dalla rivista Wired e diffusa da numerosi media di tutto il mondo. Si tratta di un vademecum dettagliato su come processare i prigionieri, sui comfort che possono essere loro assegnati in caso di premi (ad esempio la carta igienica), istruzioni per manipolare psicologicamente i detenuti e come fare per gestire eventuali scioperi della fame, o anche come utilizzare i cani per intimidire i prigionieri sino ai metodi più duri e disumani. A Guantanamo i detenuti sono definiti «combattenti nemici senza diritti giudiziari».

 

  • USA. 15 novembre. Polizia ferisce o uccide e poi ammanetta. Un fenomeno che si ripete. «È la procedura», replicano al dipartimento di polizia. Indignazione sul New York Times dopo l’ennesimo episodio. Stavolta un giovane diciottenne, disarmato, freddato (lunedì scorso) con 20 colpi di pistola, ammanettato «secondo la procedura» e poi, secondo varie testimonianze rese al telegiornale andato in onda su NY1, gettato nel retro della macchina di servizio. I poliziotti avevano scambiato per una pistola la spazzola tenuta in mano dal ragazzo. Sanguinante, a terra, e già deceduto, il ragazzo è stato nonostante tutto, ammanettato. Sono sempre più numerose le critiche di coloro che considerano ammanettare un ferito un’offesa alla dignità dell’individuo. «Ammanettare qualcuno che è stato ferito, o che è già deceduto o che sta morendo è una delle cose più barbare, inutili e orribili che la Polizia possa commettere», ha detto l’avvocato Ronald L. Kuby.

 

  • India. 16 novembre. Washington decide dove il nucleare è «buono» o «cattivo». In India, che peraltro non ha firmato il Trattato di non Proliferazione Nucleare (Tnp), è «buono»; a Teheran, che il Trattato lo ha sottoscritto, è «cattivo». Washington seguirà materialmente il programma atomico indiano, nonostante ignori tutti i trattati. Ragioni imperiali, insomma; nello specifico anche anti-cinesi. Intanto in India, dopo molte resistenze, anche i comunisti dicono sì al’accordo con gli USA. È un primo effetto dell’accordo di cooperazione sull’energia atomica firmato lo scorso luglio dai governi di India e Stati Uniti, dopo mesi di negoziati e polemiche. A New Delhi in particolare l’accordo ha suscitato forti opposizioni all’interno dela stessa maggioranza di governo, una coalizione di centrosinistra guidata dal partito del Congresso in cui è però determinante il sostegno dei partiti di sinistra, comunisti in testa. E la sinistra ha criticato aspramente la cooperazione nucleare con Washington: un po’ perché suggella il nuovo corso della politica estera indiana, che dalla fine degli anni ‘90 si è decisamente avvicinata agli Stati Uniti; un po’ perché teme una cessione di sovranità nazionale (ad esempio dovrà differenziare tra impianti militari e civili, e aprire questi ultimi alle ispezioni dell’Aiea), un po’ perché l’accordo, benché tratti di industria nucleare civile, darà all’India accesso al mercato mondiale delle tecnologie sofisticate (controllato dal “nuclear suppliers group”, il gruppo di potenze nucleari ufficiali). Questo permetterà nuovi sviluppi anche nel suo arsenale atomico bellico. E l’Aiea dovrà spiegare perché permette questo a un paese che non firma il Tnp né il Trattato sui test nucleari (Ctbt). L’accesso a tecnologie sofisticate è proprio l’argomento principale usato dal premier Manmohan Singh per sostenere l’accordo: un enorme vantaggio strategico per l’India.

 

  • India. 16 novembre. I due partiti comunisti indiani hanno acconsentito a mandare avanti una parte dell’accordo di cooperazione, cioè avviare colloqui con l’Aiea. La decisione è stata annunciata oggi. Una piccola svolta, perché in settembre sembrava che il governo indiano dovesse cadere sulla questione nucleare (l’accordo di cooperazione non ha bisogno di ratifica parlamentare in India, ma la rottura sarebbe stata fatale alla maggioranza). Ora l’accordo di cooperazione nucleare USA-India sarà presto esaminato dal consiglio direttivo (Board of governors) dell’Aiea: la sua approvazione è condizione vincolante perché possa entrare in vigore, dato che implica questioni di sicurezza nucleare. Anche così però serve la ratifica del Congresso degli Stati Uniti, e, se non arriverà entro il febbraio 2008, la cosa slitterà alla prossima legislatura.

  • India. 16 novembre. L’accordo di cooperazione nucleare tra l’India e gli Stati Uniti sta cambiando lo scenario strategico del subcontinente indiano. Qui ci sono due potenze nucleari a fronteggiarsi, l’India e il Pakistan, Stati nati nel 1947 dopo una separazione sanguinosa, accompagnata da esodi di massa e massacri e seguita da tre guerre dichiarate e da un conflitto «a bassa intensità» che continua nel Kashmir, territorio settentrionale conteso. L’India ha avviato il suo programa nucleare negli anni ‘70 guardando alla Cina, dopo il conflitto armato nel ‘62; la mossa indiana però ha spinto il Pakistan a seguire la stessa via. Due Stati ostili, nuclearizzati e non aderenti al Tnp, dunque non soggette alle ispezioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). «Nel subcontinente indiano sta cominciando una corsa al riarmo atomico che ricorda la vecchia guerra fredda», commenta in Pakistan Abdul Hamid Nayyar, fisico teorico e figura molto nota del movimento pacifista in Asia meridionale (presiede la Pakistan Peace Coalition). «Di recente sia India che Pakistan hanno affinato le proprie capacità di design, hanno vettori a raggio sempre più largo, in grado di recapitare testate atomiche in modo sempre più accurato», spiega.

  • Italia / Afghanistan. 17 novembre. «Al punto in cui siamo l’unica cosa certa è che l’impegno preso a cercare soluzioni alternative all’opzione bellica, cavalcata dalla NATO, è del tutto naufragato nel silenzio di chi dovrebbe farsene carico». Lo ha detto Elettra Deiana, deputata di Rifondazione Comunista e vicepresidente della commissione difesa alla Camera, che chiede che il governo, di cui il suo partito fa parte, vada in Parlamento a «riferire in dettaglio» quel che sta avvendo in Afghanistan. Le sue dichiarazioni seguono di poche ore il lancio di cinque proiettili, contro l’aeroporto di Herat, da parte dei taliban, nella notte tra venerdì e sabato. Lo scalo è controllato dai soldati italiani, sempre più oggetto e coinvolti in operazioni militari. In un’interrogazione parlamentare presentata oggi, Severino Galante, capogruppo in commissione difesa e coordinatore delle segreterie nazionali del PdCI, ha dichiarato che «alla fine la verità comincia a affiorare. Il governo ha riconosciuto che la notizia del coinvolgimento dei soldati in azioni militari, che parte della stampa divulga da mesi, è una notizia vera. Mi aspetto che a breve il governo riconosca anche il resto: che le truppe italiane stanno combattendo insieme a quelle statunitensi impegnate nella missione Enduring Freedom, e dunque al di fuori dei limiti fissati dal parlamento italiano. Se davvero qualcuno dovesse consentire un simile sbrego istituzionale si assumerebbe una responsabilità gravissima, di cui dovrebbe rendere conto». Il PdCI, lo ricordiamo, è anche lui parte integrante di questo governo.

 

  • Olanda. 17 novembre. È il neoliberismo, bellezza: assistenza sanitaria gratuita a chi si priva di un rene. La proposta choc è contenuta nel disegno di legge del “Consiglio della Salute”, un organo che lavora a stretto contatto con il ministero della salute. Ed il ministro della Salute, Ab Klink, lo sta prendendo in esame. Adesso ogni cittadino paga circa 1000 euro all’anno per la propria assicurazione sanitaria. «Se hai 30 anni, doni un rene e vivi altri 40 anni, potresti risparmiare dai 40.000 ai 50.000 euro», dice al Times di Londra, riferendosi al caso olandese, il dottor Alies Struijs, autore di uno studio sul tema. Il ministro della salute Klink sta considerando seriamente di presentare il progetto di legge all’inizio del prossimo anno. La proposta è appoggiata anche da numerose associazioni sanitarie, tra le quali la “Fondazione Trapianti olandese”. «Se sarà una legge efficiente e ben scritta, potrebbe essere la soluzione» dice Bernadette Haase, direttrice della Fondazione.

 

  • Turchia. 17 novembre. La Cassazione vuole lo scioglimento del partito kurdo. Il procuratore della Corte di Cassazione della Turchia ha chiesto alla corte costituzionale la chiusura del partito nazionalista kurdo Dst, erede dei vari Hep, Dep, Ozdep, Hadep e Dehap, tutti soppressi d’autorità. Il Dst ha 19 deputati nel parlamento eletto quattro mesi fa. L’accusa è la solita: contiguità con i «terroristi» del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). La richiesta del procuratore segue un’inchiesta sul recente congresso del Dst, che ha proposto la divisione del paese in 20-25 regioni autonome. Un’inchiesta penale è inoltre aperta contro tre deputati del Dst che avevano partecipato la settimana scorsa al rilascio di otto soldati turchi da parte del PKK. Questi ultimi erano stati fatti prigionieri nel corso degli attacchi dei militari turchi contro le aree della resistenza kurda. Il loro rilascio era stato motivato dai resistenti come un gesto di buona volontà per avviare negoziati con le autorità turche in vista di una soluzione politica alla questione nazionale kurda.

 

  • Iran / Venezuela. 17 novembre. «Se gli Stati Uniti saranno tanto folli da attaccare l’Iran, il prezzo di un barile di petrolio potrebbe arrivare a 150 o anche a 200 dollari». Lo ha detto oggi il presidente del Venezuela Hugo Chavez al meeting dell’Opec a Riyadh. «Neanche una goccia di petrolio lascerà l’Iran e lo stesso accadrà qui», ha aggiunto.

 

  • Georgia. 17 novembre. Non si ferma l’opposizione a Saakashvili, nonostante la nomina di un nuovo primo ministro. Il presidente georgiano Mikhail Saakashvili sta cercando di normalizzare la tesa situazione nel paese annullando lo stato di emergenza, che ha decretato il 7 novembre, e nominando un nuovo primo ministro al posto di Zurab Nogaideli. Le opposizioni rimangono ancora in piazza, a Tbilisi: vogliono il ripristino dele trasmissioni di due tv indipendenti.

 

  • Repubblica Ceca. 18 novembre. In piazza a Praga contro lo scudo antimissile (in realtà offensivo) USA. A manifestare, stavolta, non solo i «soliti» del movimento “Ne zakladnam”, (No alle basi) che da molti mesi presidiano ogni sabato piazza Venceslao, ma stavolta, contro il radar voluto da Bush a 60 km da Praga, anche tantissima gente comune. La manifestazione era stata indetta, oltre che per protestare contro l’installazione, per reclamare il diritto della popolazione a esprimersi direttamente sulla questione in un referendum. Già 30 comuni hanno indetto un referendum per respingere le installazioni, mentre i sondaggi dicono che la maggior parte dei cechi è contraria e l’opposizione socialdemocratica chiede un referendum nazionale. Cresce però la critica a tutto campo che sottopone a dura contestazione tutte le scelte di politica interna e internazionale dei governi del dopo ‘89 e il deficit di democrazia esistente nel paese. Significativi i Comitati studenteschi, organismi elettivi e rappresentativi di tutte le scuole e delle varie facoltà universitarie. Ce l’avevano soprattutto con Vaclav Havel, gli studenti. Con l’ex presidente della repubblica e massima figura di “Obcanskè Forum” (il Forum dei cittadini), il movimento che fu protagonista della “Sametova revoluce” (la Rivoluzione di velluto). Ciò che pensano di Havel lo hanno chiaramente e inequivocabilmente espresso in una lettera a lui indirizzata e pubblicata sui principali quotidiani cechi, sottoscritta a nome dei Comitati studenteschi, da Petr Glivicky (Facoltà di Matematica e Fisica), Lukas Kantor (Facoltà di Scienze sociali), Petr Pick (Facoltà delle Scienze tecnologiche), Jana Glavicka (Facoltà di Lettere e Filosofia).
  • Repubblica Ceca. 18 novembre. «Signor Havel», così esordisce la lettera, «nel momento in cui lei si poneva alla testa della lotta per la libertà e la democrazia in Cecoslovacchia, nessuno di noi era ancora in età scolare. Noi non abbiamo conosciuto quell’Havel che nel 1989 faceva appello all’umanesimo e alla democrazia. Ma abbiamo conosciuto un altro Havel, quello successivo. Quell’Havel che ha più volte negato il diritto al proprio popolo di pronunciarsi con un referendum sulle questioni più importanti. Quell’Havel che nel 1999 appoggiò i bombardamenti sulla Serbia, che causarono 2.500 vittime, e nel 2003 sostenne l’occupazione dell’ Iraq, che ha fin qui provocato centinaia di migliaia di morti. Quell’Havel che si dichiara a favore dell’installazione nella Repubblica Ceca di basi militari straniere, nonostante la netta contrarietà dei due terzi della popolazione». E ancora: «Nell’ intervista all’ emittente americana Abc del 3 febbraio 1990 lei aveva affermato che la Cecoslovacchia avrebbe dovuto diventare parte dell’Europa, di una comunità di Stati liberi e indipendenti. E che, pertanto, avrebbero dovuto scomparire dall’Europa tutti i blocchi e i patti militari e che le due superpotenze avrebbero dovuto ritirarsi dal nostro continente. Ma, dopo solo pochi anni, lei ha fatto in modo che la Repubblica Ceca entrasse a far parte della NATO. Ed ora lei esprime addirittura il suo incondizionato sostegno alla costruzione della base radar americana e all’ampliamento della presenza militare americana in Europa». «Signor Havel», si conclude la lettera, «il tradimento degli ideali del 1989 rappresenta bene il concetto che noi ci siamo fatti della cosiddetta Rivoluzione di velluto. Il 17 novembre è ormai solo un falso simbolo nel nostro paese. La lotta per la democrazia è, però, lungi dall’essersi conclusa. È per questo che saremo in piazza. A dimostrare per il referendum, per una reale democrazia». Poi, la stoccata finale: «Signor Havel, avremmo desiderato indirizzare questa lettera non a lei, ma al Vaclav Havel del 1989. Siamo certi che quell’Havel sarebbe venuto con noi a manifestare».

  • Repubblica Ceca. 18 novembre. «Signor Havel», così esordisce la lettera, «nel momento in cui lei si poneva alla testa della lotta per la libertà e la democrazia in Cecoslovacchia, nessuno di noi era ancora in età scolare. Noi non abbiamo conosciuto quell’Havel che nel 1989 faceva appello all’umanesimo e alla democrazia. Ma abbiamo conosciuto un altro Havel, quello successivo. Quell’Havel che ha più volte negato il diritto al proprio popolo di pronunciarsi con un referendum sulle questioni più importanti. Quell’Havel che nel 1999 appoggiò i bombardamenti sulla Serbia, che causarono 2.500 vittime, e nel 2003 sostenne l’occupazione dell’ Iraq, che ha fin qui provocato centinaia di migliaia di morti. Quell’Havel che si dichiara a favore dell’installazione nella Repubblica Ceca di basi militari straniere, nonostante la netta contrarietà dei due terzi della popolazione». E ancora: «Nell’ intervista all’ emittente americana Abc del 3 febbraio 1990 lei aveva affermato che la Cecoslovacchia avrebbe dovuto diventare parte dell’Europa, di una comunità di Stati liberi e indipendenti. E che, pertanto, avrebbero dovuto scomparire dall’Europa tutti i blocchi e i patti militari e che le due superpotenze avrebbero dovuto ritirarsi dal nostro continente. Ma, dopo solo pochi anni, lei ha fatto in modo che la Repubblica Ceca entrasse a far parte della NATO. Ed ora lei esprime addirittura il suo incondizionato sostegno alla costruzione della base radar americana e all’ampliamento della presenza militare americana in Europa». «Signor Havel», si conclude la lettera, «il tradimento degli ideali del 1989 rappresenta bene il concetto che noi ci siamo fatti della cosiddetta Rivoluzione di velluto. Il 17 novembre è ormai solo un falso simbolo nel nostro paese. La lotta per la democrazia è, però, lungi dall’essersi conclusa. È per questo che saremo in piazza. A dimostrare per il referendum, per una reale democrazia». Poi, la stoccata finale: «Signor Havel, avremmo desiderato indirizzare questa lettera non a lei, ma al Vaclav Havel del 1989. Siamo certi che quell’Havel sarebbe venuto con noi a manifestare».

 

  • Libano. 18 novembre. Ennesima violazione israeliana. Caccia con la stella di Davide hanno violato stamani lo spazio aereo del Libano e la risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Lo ha riferito l’agenzia ufficiale libanese Nna che cita un comunicato del comando dell’esercito libanese.

 

  • Palestina / Israele. 18 novembre. Gerusalemme è e resterà israeliana. Ne è convinto Jeff Halper, antropologo e coordinatore dell’Icahd (Israeli Committee Against House Demolitions, il comitato israeliano che si batte contro le demolizioni delle case palestinesi operate per rappresaglia dalle truppe d’occupazione israeliane). Per Halper, il prossimo vertice convocato da Bush a Annapolis mira a rafforzare Israele svolgendo un percorso che Tel Aviv ha definito con largo anticipo. È un tragitto, spiega, volto a convincere la dirigenza palestinese a rinunciare alla Gerusalemme araba (est), occupata militarmente nel 1967, in cambio di una vaga sovranità su qualche rione o sobborgo della città abitato da palestinesi. Per annettere in via definita Gerusalemme est e mantenere la città a maggioranza ebraica, sostiene Halper su il Manifesto di oggi, a Israele non è sufficiente costruire gli insediamenti. «Nella ridefinizione dei confini che avevano e hanno in mente i dirigenti politici israeliani è necessario tagliare fuori dalla città quanti piu palestinesi possibile». Non sorprende, aggiunge, «che i centri abitati palestinesi ad alta densità di popolazione siano stati escluse dai confini della linea rossa che definisce l’area sulla quale sta sorgendo la Grande Gerusalemme. In sostanza hanno annesso zone che un tempo non facevano parte di Gerusalemme e hanno estromesso aree che prima vi erano incluse». Ad Annapolis il premier israeliano Ehud Olmert e i suoi collaboratori andranno decisi a strappare al presidente palestinese Abu Mazen quel «» che l’ex primo ministro Ehud Olmert non riuscì ad ottenere dal rais Yasser Arafat. Andranno negli USA con in mente la Grande Gerusalemme, un progetto che passo dopo passo sta trasformando la città santa in una vera e propria regione inserita, come un cuneo, nel cuore della Cisgiordania, spaccandola in due.

  • Palestina / Israele. 18 novembre. «Quando si parla di Stato palestinese, uno Stato sovrano che può autosostenersi economicamente, ci riferiamo ad un territorio omogeneo, non a macchia di leopardo, collegato in tutte le sue parti da una rete stradale», aggiunge il geografo Khalil Tufakji, noto esperto palestinese di Gerusalemme. «Ci deve essere, ad esempio, una autostrada che metta in comunicazione il nord col sud della Cisgiordania, per il movimento di beni e persone, altrimenti non si può nemmeno parlare di un vero Stato». Tenendo conto della geografia, spiega Tufakji, il transito tra nord e sud della Cisgiordania si interrompe tra la colonia ebraica di Maale Adumim e Gerusalemme est. «In quel punto», prosegue, «Israele sta costruendo un’area che si chiama “E1” e che chiude l’unico corridoio che hanno i palestinesi, costringendoli a passare per Gerusalemme per poter recarsi da nord a sud. In sostanza, i palestinesi in futuro saranno sotto costante controllo perché per spostarsi lungo il loro territorio dovranno chiedere il permesso a Israele». Il muro di separazione costruito intorno a Gerusalemme (181 km), spiega Tufakji, «è parte essenziale del progetto riguardante la zona “E1”: da un lato delimita il territorio palestinese che Israele intende attennersi e dall’altro isola i 250.000 palestinesi di Gerusalemme est dal loro Stato e da Ramallah, la città più importante della Cisgiordania. Il muro garantisce inoltre l’annessione di tutti i blocchi di insediamento intorno alla città e la loro espansione sulle terre palestinesi confiscate durante la costruzione della barriera». A fine settembre il governo Olmert ha ordinato la confisca delle terre palestinesi a ridosso di Maale Adumim che, grazie alla costruzione di altre 3500 case per coloni, si ritroverà collegata a Gerusalemme. Le confische riguardano di 110 ettari di terre di Abu Dis, Sawahreh a-Sharqiye, Nabi Mussa e Khan Ahmar, nei pressi di Gerusalemme est e sulla strada che porta a Maale Adumim. Così modo i palestinesi perderanno continuità territoriale con la valle del Giordano.

  • Palestina / Israele. 18 novembre. A lanciare il progetto “E1” è stato nel 1994 il «martire della pace» Yitzhak Rabin. Mentre ritirava il premio Nobel per la pace assieme a Yasser Arafat e all’allora ministro degli esteri Shimon Peres, il premier israeliano assassinato 12 anni fa da un estremista di destra ebreo, garantiva la crescita della colonie e l’annessione, in forma dilatata rispetto al 1967, della Gerusalemme palestinese. Il progetto “E1” venne congelato nel 2005 su pressione di Washington e non casualmente ha ripreso slancio proprio subito dopo l’annuncio dell’incontro di Annapolis fatto da George Bush. «L’espansione delle colonie nella regione di Gerusalemme, va a minare, anzi annientare gli sforzi di pace», ha dichiarato Saeb Erekat, negoziatore palestinese e stretto colaboratore di Abu Mazen. Tuttavia l’Autorità Nazionale Palestinese non ha mai posto come condizione per andare ad Annapolis lo stop dei progetti israeliani a Gerusalemme e nei Territori occupati. «Si sta scherzando con il fuoco perché questa terra determinerà se ci sarà o meno la pace», sottolinea Jeff Halper. «Israele ha il controllo di tutta Gerusalemme, dei confini, delle strade e dell’acqua. E stando così le cose come si potrà costituire uno Stato palestinese?».

 

  • Palestina. 18 novembre. «La città di Gerusalemme è storicamente una città araba e islamica. L’unica soluzione è la fine dell’occupazione militare israeliana. Noi islamici non siamo mai partiti dall’odio nei confronti degli ebrei. Consideriamo la religione ebraica come una religione monoteistica, come il cristianesimo. Il sacro Corano ci obbliga a rispettare l’accordo con queste religioni. Inoltre quella palestinese è una società che ha al suo interno una diversità religiosa che è la nostra posizione va preservata. Ma Israele non sta risparmiando nemmeno i luoghi sacri dei cristiani ortodossi, su cui sta mettendo le mani acquistandone le proprietà. Noi non permetteremo che questa situazione, mantenuta grazie all’occupazione militare, vada avanti. Il nostro dovere è sovvertire quest’occupazione e restituire la città al mondo arabo e islamico. Ogni ebreo che accetterà il nuovo status quo sarà il benvenuto». Così parla lo sceicco Raed Salah, intransigente sostenitore della causa palestinese, intervistato da il Manifesto. Conosciuto come lo «sceicco di Al Aqsa» per la sua intransigenza nella difesa dei luoghi sacri islamici di Gerusalemme sheikh Raed Salah si è guadagnato un appellativo che, assieme a una serie di arresti, lo ha reso la personalità musulmana più influente in Israele. Modi gentili e sorriso rassicurante, Salah è stato descritto dal quotidiano Yediot Ahronot come un leader la cui autorità supera i confini d’Israele, un «astro nascente» della nuova leadership araba. Durante il negoziato di Camp David che vide impegnati l’ex presidente dell’Autorità nazionale palestinese Yasser Arafat e l’ex premier israeliano Ehud Barak dichiarò che «quello che gli israeliani chiamano Muro del pianto è parte della moschea di Al Aqsa», scatenando le ire di Tel Aviv. Oggi definisce «una nuova nakba [catastrofe, ndr]» il trasferimento al futuro Stato di Palestina –ipotizzato dall’establishment dello Stato ebraico– di territori israeliani popolati da palestinesi in cambio dei principali blocchi di colonie in Cisgiordania.

 

  • Palestina. 18 novembre. Il tentativo di Israele di «giudaizzare Gerusalemme», per Salah «non è una novità. Si tratta di un progetto iniziato con l’occupazione della città, nel 1967. Gli israeliani stanno provando a conquistare non solo la città, ma anche i suoi luoghi sacri. Le nostre case, i nostri mercati sono stati oggetto di conquista. E, come se non bastasse, negli ultimi anni il muro dell’apartheid ha causato l’espulsione di 100mila gerusalemiti. Nel mirino sono finite anche le ong palestinesi della città, alle quali è stata offerta “un’alternativa”: chiudere o trasferirsi fuori da Al-Quds». Per contrastare un’occupazione che dura da 40 anni, parla di «tanti progetti e iniziative per mantenere i nostri diritti sulla terra e i luoghi santi. Stiamo creando gruppi, associazioni per mantenere viva l’identità araba e islamica della città. Questo è il punto da cui è obbligatorio partire». Rifiuta l’idea di scambi territoriali (blocchi di colonie a Israele, parti con maggioranza araba dell’attuale Israele ai palestinesi): «per noi palestinesi sarebbe una seconda nakba [catastrofe, ndr], dopo quella del 1948. La presenza dei coloni è illegale e devono lasciare la Cisgiordania occupata senza alcuna condizione. Noi invece siamo gli abitanti originari, i proprietari di queste case. Non abbiamo costruito il nostro futuro sulla rovina degli altri. E quindi paragonare la situazione dei coloni a quella dei palestinesi d’Israele è un errore, questo “scambio” non possiamo accettarlo». Sul prossimo «vertice di pace» di Annapolis, è perentorio: «si tratta di un grave errore per la causa palestinese, perché il governo israeliano vuole mettere la sordina al diritto alla resistenza dei palestinesi e mantenere il controllo sulla spianata delle moschee e la mosche di Al Aqsa. Vuole chiudere una volta per tutte col diritto al ritorno dei palestinesi nelle loro case, negandolo. E mantenere la sua presenza in Cisgiordania e controllarne i confini. Si tratterebbe di un disastro e nessuno al mondo potrebbe accettare delle simili condizioni e un risultato simile del vertice».

 

  • Israele / Vaticano. 18 novembre. «Le relazioni tra la Chiesa cattolica e lo Stato d’Israele erano migliori quando non c’erano i rapporti diplomatici (stabiliti 13 anni fa, ndr)». È un’affermazione pesante quella che monsignor Pietro Sambi, uno dei più navigati diplomatici vaticani, ex nunzio a Tel Aviv e ora negli USA, pronunzia sulla testata elettronica Terrasanta.net. Gelo sui rapporti tra Santa sede e Israele. Da anni una commissione mista cerca invano di smussare gli spigoli in materia giuridica, di tasse, di riconoscimento delle proprietà cattoliche per fare in modo che gli accordi internazionali entrino in Israele. Di fronte a continui rinvii e ai nulla di fatto, la Santa Sede sembra cominciare a perdere la pazienza. «È sotto gli occhi di tutti quale fiducia si possa accordare alle promesse d’Israele», ha detto Sambi e i «motivi di sicurezza» non convincono più.

 

  • Pakistan / USA. 18 novembre. Washington vuole una ricucitura dei rapporti tra Musharraf e Bhutto. È il messaggio principale, ufficiale, che l’inviato speciale statunitense  in Pakistan, il famigerato John Negroponte, ha portato al generale golpista Pervez Musharraf e alla corrotta Benazir Bhutto. Come primo passo ha chiesto al presidente pachistano di togliere lo stato di emergenza, in atto nel Paese dal 3 novembre scorso. Musharraf, prima dell’incontro, proprio ieri aveva rifiutato di togliere lo stato di emergenza, instaurato invocando l’unità nazionale a fronte del «terrorismo islamico». Aveva detto che lo stato d’emergenza sarebbe stato tolto solo a sicurezza ripristinata.

 

  • Venezuela / Iran. 19 novembre. Iran e Venezuela insieme, per difendere «le nostre nazioni e i nostri ideali fino alla fine». Lo ha detto il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, al termine del suo incontro con il presidente venezuelano Hugo Chavez, oggi a Teheran per la quarta visita in due anni in Iran. Questi ha dal canto suo dichiarato: «Se Dio vuole, con la caduta del dollaro cadrà quanto prima anche l’imperialismo americano». Per Chavez «presto la smetteremo di parlare della moneta USA. Si sta rapidamente svalutando e l’impero del dollaro sta crollando e con lui, naturalmente, crollerà l’America». Le dichiarazioni di Chavez arrivano dopo che Venezuela e Iran, al vertice Opec di Riad di ieri, hanno chiesto ai paesi del cartello di sganciare il prezzo del petrolio dal dollaro debole, legandolo a un paniere di monete. La proposta per ora non è passata per l’opposizione dell’Arabia Saudita, ma i ministri delle Finanze dei 13 si riuniranno prima della prossima riunione di Abu Dhabi del 5 dicembre per esaminare la questione. Quattro i memorandum firmati dai due presidenti. Tra i progetti comuni messi nero su bianco da Ahmadinejad e Chavez c’è anche la creazione di una banca iraniano-venezuelana.

 

  • Ecuador / USA. 19 novembre. Vibrate proteste agli Stati Uniti da parte del presidente dell’Ecuador, Rafael Correa. All’aeroporto di Miami, sul punto di prendere il volo per Riad, al fine di partecipare al vertice dell’Opec (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio), agenti dell’immigrazione hanno tentato di sottoporlo a perquisizione ignorando il suo rango diplomatico. Il fatto è stato rivelato dalla responsabile della Comunicazione, Julia Ortega, che accompagnava Correa nel suo giro che includerà Cina e Indonesia. L’episodio, secondo quanto dichiarato dalla funzionaria al quotidiano ecuadoregno Hoy, risale a giovedì scorso. Correa si è rifiutato di farsi perquisire e lo stesso ha poi dichiarato, in patria, che si riserva il diritto di fare lo stesso con autorità statunitensi che visitino il paese. In futuro, ha aggiunto, eviterà di fare scali negli Stati Uniti durante i suoi viaggi.

 

  • Unione Europea. 20 novembre. Proposta choc dell’Unione Europea per nuova Pac: via quote latte, taglio agli aiuti. Colpiti gli agricoltori in tutta Europa, particolarmente quelli italiani e francesi. Favorite soprattutto le importazioni dagli Stati Uniti. «Modernizzare» la Politica Agricola Comune (Pac) eliminando progressivamente le quote latte, la messa a riposo dei campi, i prezzi garantiti per i cereali ma anche riducendo le sovvenzioni più elevate. È l’obiettivo delle proposte avanzate dal commissario europeo all’Agricoltura Marian Fischer-Boel, approvate questa mattina dall’esecutivo dell’Unione Europea (UE). Le proposte, che intervengono in un periodo di forte aumento dei prezzi delle materie prime agricole a livello mondiale, fanno parte di «un bilancio di salute della Pac» che punta a spingere più avanti la storica riforma del 2003. Quest’ultima, aveva messo fine al legame sistematico tra il livello degli aiuti versati agli agricoltori europei e le quantità prodotte, con lo scopo di combattere la sovrapproduzione. Adottato in mattinata dal collegio dei commissari europei, il nuovo pacchetto agricolo apre la strada a sei mesi di consultazioni con gli Stati membri, prima di passare alle proposte legislative, attese per la prossima primavera, e alle decisioni vere e proprie, che dovrebbero essere adottate al più tardi entro la fine del 2008. Nel documento approvato oggi, la Commissione propone quindi la revoca progressiva delle quote latte entro la loro definitiva scomparsa prevista solo per il 2015, in un periodo in cui il settore soffre di un’offerta insufficiente rispetto alla domanda, spingendo i prezzi al rialzo. Le quote latte erano state create nel 1986 per lottare contro la sovrapproduzione. Bruxelles pensa quindi di «abolire» la messa a riposo obbligatoria dei campi nell’UE (set-aside), a causa della forte domanda agricola mondiale e dell’impennata dei prezzi, due fenomeni che rendono ormai obsoleta questa misura di controllo della produzione. La Commissione suggerisce infine di «ridurre» gli aiuti individuali più elevati versati ai grandi agricoltori, quando questi superano «ad esempio 100.000 euro» all’anno. Un provvedimento che rischia di scontentare Paesi come la Gran Bretagna o la Germania, dove queste grandi produzioni si concentrano.

 

  • Serbia / Kosovo. 20 novembre. Alle elezioni per il rinnovo del Parlamento locale in Kosovo, svoltesi sabato, tutto è andato come da copione. Ma il vero vincitore è stato l’astensionismo della stessa maggioranza dei kosovaro albanesi: quasi il 57% infatti non è andato a votare. L’astensionismo si è nutrito della disperazione dei kosovaro-albanesi critici di leadership filo-occidentali che hanno drenato tutte le risorse arrivate dall’esterno ed il fiume di denaro passato attraverso l’Unmik-ONU, alimentando traffici malavitosi di ogni genere, mentre la disoccupazione è oggi quasi al 60%. Per la Banca Mondiale il 40% degli abitanti del Kosovo sopravvive con meno di due dollari al giorno. Il crimine organizzato e la corruzione dilagano: il Kosovo secondo gli organismi investigativi internazionali è la «zona franca» dei traffici mafiosi est-ovest. Conta solo sugli «aiuti» internazionali. Un primo segnale della “rabbia” dei kosovari-albanesi si ebbe alle prime elezioni politiche del 2004: votò il 50% degli aventi diritto. Stavolta il 43%. Da aggiungere, poi, il boicottaggio della stessa minoranza serba rimasta che ha resistito al terrore della contropulizia etnica.

 

  • Serbia / Kosovo. 20 novembre. Per i numeri ufficiali che contano, la vittoria è però del Partito Democratico del Kosovo (Pdk) dell’ex leader Uck, Hashim Thaci, con il 35% del 43% dei votanti. La Lega democratica dell’ex presidente Ibrahim Rugova è crollata del 25%. Passano lo sbarramento del 5% il partito del miliardario Pacolli e l’Alleanza per il futuro di Ramush Haradinay, ex premier sotto processo all’Aja, dov’è incriminato per stragi contro serbi e rom del 1998, ed ora rieletto. Bocciato il riformista Veton Surroi.

 

  • Serbia / Kosovo. 20 novembre. Le elezioni sono state volute dalla leadership albanese-kosovara, e sostenute soprattutto da Washington, come prova di forza per la secessione da Belgrado. Il tentativo, con l’indizione delle elezioni, è quello di condizionare il vertice del 10 dicembre, quando la trojka negoziale (USA, Russia e UE) resoconterà sui colloqui tra serbi e kosovari albanesi sullo status definitivo della provincia serba, albanese per oltre il 90% dei suoi abitanti, ed amministrata dall’ONU dalla fine del conflitto del 1998-1999 tra le forze serbe e la guerriglia separatista. La trojka dovrà cioè fare rapporto sull’esito della dura mediazione tra serbi e albanesi-kosovari sullo status definitivo del Kosovo, dopo il fallimento del piano di indipendenza proposto dal mediatore Martti Ahtisaari, bocciato dai serbi e dalla Russia pronta al veto anche di fronte al probabile unilaterale riconoscimento statuale d’indipendenza promesso dagli Stati Uniti. Washington a Urosevac ha costruito la più grande base militare d’Europa, Camp Bondsteel. Le elezioni sono state autorizzate il 10 settembre dal rappresentante ONU a Pristina, Joachim Rueker, che ha consultato solo le autorità albanesi. I kosovari-albanesi post-Uck hanno già fatto sapere che, in caso di fallimento, proclameranno unilateralmente l’indipendenza. Finora il diritto internazionale, con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza ONU (che pose fine alla guerra dei raid aerei «umanitari» della NATO con l’ingresso delle truppe atlantiche e che portò alla pace di Kumanovo del 1999), riconosce –sulla provincia– la sovranità della Serbia.

 

  • Palestina. 20 novembre. Il futuro Stato di Palestina? Un insieme di bantustan. «Uno sguardo sulla realtà socioeconomica della Cisgiordania e di Gaza rivela quanto segue: la creazione attraverso muri, strade by-pass, checkpoint, espansione delle colonie (con una popolazione che si avvicina a mezzo milione di ebrei israeliani nella West bank), e il muro della segregazione che crea bantustan o riserve la cui entrata e uscita è completamente controllata da Israele, controllo delle risorse naturali (in particolare acqua e terra fuori dalle città e dai villaggi; controllo del commercio, e mantenimento dell’economia in cattività e in uno stato di non sviluppo. Gerusalemme è stata isolata dal resto della West bank, e quest’ultima è stata divisa in bantustan per controllarla meglio. L’intera West bank è isolata dalla striscia di Gaza. Tutto questo è noto e documentato nei dettagli, eppure ci sono ancora tra di noi coloro che credono che Israele sia pronta a riconoscere i diritti dei palestinesi e anche gli Stati Uniti (finanche dopo la lettera inviata da Bush a Sharon, il 4 aprile del 2004)». È quanto sostiene Jamil Hilal, sociologo palestinese, co-editore della rivista Journal of Palestine studies (edizione araba). «Le azioni unilaterali di alterazione demografica avviate da Israele, del territorio e del paesaggio della West bank è dimostrato non solo dall’aumento del numero delle colonie, delle strade bypass (per uso esclusivo degli israeliani) e dalla trasformazione della striscia di Gaza in un campo di concentramento, ma anche dal controllo sulla terra, acqua, confini e sull’economia palestinese», prosegue Hilal, secondo il quale «quello che i leader israeliani prevedono come Stato palestinese è un ente satellite rappresentato da un’autorità di autogoverno nelle enclave lasciate libere nella West bank dopo le annessioni di Israele che includono il più possibile della terra, mentre escludono quanto più possibile le città e i villaggi palestinesi popolati, per contrastare l’emergere de facto di uno stato binazionale. Ogni negoziato di Israele per il ritiro ai confini fissati dalla linea verde del 1967, per lo smantellamento delle colonie, che riconosca il diritto di ritorno dei profughi palestinesi, e che riconosca Gerusalemme est capitale dello stato palestinese serve solo ad alimentare una illusione che ritarda l’articolazione di una strategia nazionale per liberare i palestinesi dalle catene degli insediamenti coloniali e il già istituzionalizzato apartheid».

 

  • Cina. 20 novembre. I filocinesi sconfiggono il Partito democratico alle elezioni dei consigli di distretto ad Hong Kong, Regioni ad Amministrazione Speciale della Repubblica Popolare cinese. Il Partito democratico ha dimezzato i suoi consensi rispetto alle elezioni di 4 anni fa mentre l’Alleanza Democratica, filocinese, ha ottenuto 115 seggi. I consigli di distretto non hanno molto potere ma il risultato elettorale suona un campanello d’allarme. Di fronte alla sconfitta, il presidente del Partito Democratico Albert Ho ha offerto le proprie dimissioni, che sono state respinte, vista la vicinanza delle ben più cruciali elezioni legislative del 2008.

 

  • USA. 20 novembre. I gesuiti pagheranno 50 milioni di dollari per abusi sessuali su eschimesi. L’ordine dei gesuiti ha accettato di pagare questa somma per chiudere le cause legali avviate da 110 eschimesi dell’Alaska, vittime di abusi sessuali da parte di religiosi tra il 1961 e il 1987. L’annuncio è stato dato dai legali del promotori delle azioni giudiziarie, secondo cui si tratta di una cifra record per un ordine religioso. La Compagnia di Gesù, attraverso il padre provinciale dell’Oregon, John Whitney, responsabile per l’Alaska, ha sottolineato che l’annuncio è «prematuro» perché devono essere definiti una serie di dettagli.

 

  • Polonia. 21 novembre. Varsavia è disponibile a prendersi gli intercettori USA, purché Washington installi un sistema anti missile per proteggere lo spazio aereo polacco. La svolta filo-USA sullo scudo stellare è venuta, a nome del nuovo governo polacco guidato da Donald Tusk, dal ministro della Difesa Bogdan Klich.

 

  • Italia / Afghanistan. 21 novembre. «Combattiamo i taliban nella nostra zona». Ad ammetterlo è stato ieri il sottosegretario alla Difesa Marco Verzaschi, convocato dalla competente commissione del senato. Il contingente italiano in Afghanistan combatte, eppure tutto passa sotto silenzio, grazie anche alla connivenza della “sinistra radicale” nel governo. Le stesse informazioni sono di fatto pressoché secretate. Solo nell’ultimo mese, gli italiani sono stati attaccati quattro volte. Oltre agli attacchi del 17 e 19 novembre (riportati dalla stampa), hanno subito altre due offensive (finora tenute riservate) il 9 e 10 novembre. Le azioni, ha precisato il sottosegretario, sono state condotte con aerei senza pilota Predator e elicotteri Mangusta. Ma la «situazione è peggiorata» dato lo «spostamento parziale dei talebani nella zona sotto controllo degli italiani». Il racconto di Verzaschi ha preoccupato soprattutto le senatrici della sinistra dell’Unione in commissione Difesa, Menapace, Palermi e Pisa che hanno chiesto una riunione congiunta con la commissione Esteri e l’immediata convocazione del ministro D’Alema. La farsa sinistra continua.

 

  • Afghanistan. 22 novembre. I taliban «controllano già il 54% del paese», dice il prestigioso think tank Senlis Council; «hanno mezzo Afghanistan». E consiglia: «servono almeno 80mila soldati in più». Il Senslis Council è il prestigioso think tank che per primo propose la necessità di cambiare approccio nella politica sull’oppio, passando dall’eradicazione a una sorta di monopolio controllato dallo stato. Secondo l’osservatorio che monitora la situazione afghana da anni, il 54% del territorio sarebbe ormai in mano ai turbanti che hanno riguadagnato terreno e che controllano aree rurali, centri importanti, nodi logistici e che ormai sono attivi nei gangli vitali dell’economia del paese. Ci sono arrivati, dice il Senlis, con l’importazione di tattiche «irachene» –una guerra asimmetrica che include kamikaze e attentati dinamitardi lungo le strade– ed esercitando ormai un potere di controllo anche psicologico grazie a una legittimazione politica guadagnata nella mente e nel cuore degli afghani delusi dalle promesse non mantenute di pace e prosperità. L’ultimo rapporto del Senlis, secondo cui il paese è ormai sull’orlo di un precipizio, prefigura una ricetta soprattutto militare. Almeno il doppio di soldati rispetto ai 40mila attualmente impiegati dalla NATO-ISAF. Senlis evidenzia la necessità di passare da «una strategia antiterrorista a una strategia controinsurrezionale» e propone di allargare il fronte alle nazioni non NATO e soprattutto ai paesi musulmani. Non c’è traccia di un possibile negoziato interno di pace. Inoltre la realtà che il Senslis sembra non vedere è che i paesi impegnati stanno studiando come uscire indenni, coi loro soldati, dalla palude afghana. Altro che aumento.

 

  • Afghanistan. 22 novembre. Mega investimento cinese nelle miniere di rame. Una compagnia mineraria cinese investirà 3 miliardi di dollari in una delle miniere di rame più grandi del mondo, situata ad Aynak, a sud di Kabul. Secondo funzionari afghani è il maggiore investimento straniero nella storia afghana.

 

  • USA. 22 novembre. L’ex ambasciatore Wilson invita il Congresso ad aprire un’inchiesta sul CIA-gate per accertare eventuali responsabilità di Bush. Intanto proprio ieri l’ex portavoce della Casa Bianca (dal 2003 al 2006) Scott Mclellan, ad appena 24 ore dal diluvio di polemiche scatenate dagli estratti del suo libro di memorie, ritratta le sue accuse. Nel libro il portavoce aveva accusato Bush di averlo indotto a «mentire» sul coinvolgimento dell’amministrazione nel caso “CIA-gate”, che vide alti funzionari della Casa Bianca rivelare nel 2003, alla stampa, l’identità segreta di Valerie Palme, agente CIA e moglie proprio di Wilson. Il “CIA-gate” esplose proprio per screditare Wilson, che stava demolendo la tesi bushiana che Saddam aveva comprato uranio dal Niger per fabbricare armi di sterminio. «Passai informazioni false. Cinque persone ai vertici dell’amministrazioni erano coinvolte in ciò che ho fatto: Karl Rove, Libby, il vice-presidente Dick Cheney, il capo dello staff del presidente Andrew Card e lo stesso presidente», si leggeva negli estratti. L’unico a pagare per il caso è stato finora l’ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney, Lewis Scooter Libby, condannato per ostruzione della giustizia e spergiuro e poi amnistiato da Bush.

 

  • Italia / Turchia. 23 novembre. La Turchia può invadere l’Iraq per dare la caccia ai resistenti kurdi del PKK, purché nell’ambito di «un’azione militare mirata». Così ieri, da Istanbul, il ministro degli esteri italiano, Massimo D’Alema. «Un’azione militare limitata e isolata» può essere «considerata accettabile, ma deve essere concordata con le autorità irachene». «Sarebbe invece inaccettabile e pericoloso per la stessa Turchia ogni ipotesi di occupazione militare del nord dell’Iraq» ha concesso poi il ministro degli esteri. Come dire, attaccare un paese sovrano confinante sì, invaderlo no. Ciò contraddice la linea favorevole ad una soluzione politica al conflitto turco-kurdo e dimentica che, se vi è stata una ripresa degli scontri armati, ciò è dovuto al fatto che l’esercito ha ignorato il cessate il fuoco unilaterale dichiarato dai kurdi e ha ripreso da mesi le operazioni militari. Soprattutto si avalla la giustificazione turca al minacciato attacco che, come numerosi commentatori hanno rilevato, non mira al PKK, ma al petrolio di Kirkuk.

 

  • Giordania. 23 novembre. Sistema elettorale ad hoc ad Amman penalizza gli islamismi e premia i candidati fedeli alla monarchia hashemita. Nelle elezioni in Giordania tutto è andato secondo copione, inclusa la “sconfitta” del Fronte di azione islamico (Fai), il braccio locale dei Fratelli Musulmani, che aveva presentato 22 candidati. Solo otto sono stati eletti (contro i 17 del 2003) e il movimento islamico ha accusato il governo di brogli. Un importante ruolo lo ha comunque giocato il sistema elettorale, studiato ad hoc studiato proprio per impedire cambiamenti ai vertici del potere attraverso collegi blindati a protezione dei candidati espressione del regime o dei capi delle tribù beduine e di altre comunità che da sempre garantiscono sostegno e fedeltà alla monarchia. Un sistema elettorale che di fatto riduce la rappresentatività ai palestinesi che pure sono almeno il 60% della popolazione in Giordania. Soddisfazione da parte del Re Abdallah, alleato di ferro degli Stati Uniti (da cui riceve crescenti aiuti militari e finanziari) e partner stretto di Israele nella sicurezza, che afferma di aver arrestato nel suo paese l’onda lunga dell’Islam politico che negli ultimi anni ha portato i Fratelli Musulmani a vincere le elezioni in Palestina (con Hamas), ad ottenere un ottimo risultato (nonostante la repressione) in Egitto e a consolidare la sua base di consenso persino nella laicissima Siria. La retorica del regime però non cambia la realtà di una popolazione che non condivide la linea, specie in politica estera, di governo e monarchia, pur non osando sfidarle.

 

  • Pakistan. 23 novembre. La Corte purgata conferma l’elezione di Musharraf a capo dello Stato. Grazie alla proclamazione dello stato d’emergenza qualche giorno fa il generale-presidente aveva fatto piazza pulita dei giudici a lui ostili. E ieri, puntuale, la Corte suprema del Pakistan si è pronunciata a suo favore: l’elezione di Musharraf a capo dello Stato –avvenuta senza che quest’ultimo, come gli veniva chiesto dall’opposizione, avesse prima del voto rinuciato al ruolo di capo delle forze armate– è valida. Musharraf, 64 anni, giunto al potere nel 1999 con un colpo di Stato militare, si è impegnato a smettere la divisa prima di giurare (domani o domenica) per il nuovo mandato di cinque anni. Una misura presa principalmente per soddisfare le pressioni internazionali, quelle statunitensi in primis.

 

  • Venezuela / Colombia. 23 novembre. Chavez ha chiesto alle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) prove sul fatto che gli ostaggi in mano loro siano in vita. Si tratta, in particolare, della franco-colombiana Ingrid Betancourt e di tre cittadini statunitensi, da tempo nelle mani della guerriglia colombiana. Il presidente venezuelano Hugo Chavez  intenderebbe procedere a uno scambio umanitario, sebbene il presidente colombiano, Alvaro Uribe, abbia messo fine al suo ruolo di mediatore.

 

  • Libano. 24 novembre. Lahoud affida tutti i poteri all’esercito. Quattro ore prima della scadenza del suo mandato, il capo dello Stato uscente, Emile Lahoud, «ha chiesto all’esercito di assumere la responsabilità della sicurezza in tutto il territorio libanese» e di «porre le forze armate e la polizia sotto il controllo dell’esercito» sino a quando il paese non avrà un nuovo capo dello stato, ha comunicato Rafik Shlala, il portavoce di Lahoud. Ciò significa che a guidare il Libano sarà nei prossimi giorni il capo delle forze armate, il generale Michel Suleiman, che nelle ultime settimane era stato indicato da più parti come il possibile «presidente di consenso nazionale», gradito a gran parte del paese. La maggioranza filo-USA, guidata dal sunnita Saad Hariri, ha immediatamente protestato con veemenza. Il primo ministro Fouad Siniora ha fatto sapere di considerare «non valido» e «incostituzionale» il provvedimento e un suo collaboratore ha ricordato che il presidente non può dichiarare lo stato di emergenza senza l’approvazione del governo al quale l’articolo 62 della Costituzione assegna i poteri istituzionali in caso di mancata nomina del capo di Stato. Lahoud però ha ribadito l’illegittimità dell’esecutivo in carica che è rimasto al potere nonostante le dimissioni presentate oltre un anno fa dai ministri sciiti quando il sistema politico-confessionale libanese impone la presenza al governo di tutte le comunità.

 

  • Libano. 24 novembre. Hezbollah, principale forza dell’opposizione, continua a chiedere la nomina di un capo dello Stato neutrale e che abbia un consenso nazionale. Ma il nome del presidente del Libano lo si intende decidere (soprattutto) a Washington e in varie capitali del Medio Oriente. Le pressioni dell’ambasciatore USA a Beirut, Jeffrey Feltman, secondo indiscrezioni, sono state in tal senso pesantissime e hanno fatto saltare l’accordo, che mercoledì sera veniva dato per sicuro, sulla nomina a capo di stato dell’ex ministro Michel Edde, gradito all’opposizione, e che aveva ricevuto una cauta approvazione dal leader druso Jumblatt (filo-USA) e dal capo della maggioranza Saad Hariri. Edde peraltro aveva ottenuto anche la benedizione del generale a riposo e candidato dell’opposizione Michel Aoun che puntava il suo futuro politico proprio s