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Indietro Savoia: le pagine oscure del Risorgimento

di Sauro Ripamonti - 05/12/2007

 

Indietro Savoia: le pagine oscure del Risorgimento
ritratto di Francesco II di Borbone


Con la caduta del Regno di Napoli, il nuovo governo unitario piemontese si trovò ad affrontare il problema dei militari nemici ancora combattenti e quello degli sbandati.
I soldati fedeli a Francesco II° di Borbone, per il quale nutrivano una totale dedizione, affermavano “Uno il Re, uno il Dio” e non abbandonavano le ostilità nemmeno quando la lotta sembrava ormai conclusa a favore dei piemontesi. Si dichiaravano pronti ad ogni sacrificio rispondendo al Proclama di Francesco II° lanciato da Gaeta, nel febbraio del 1861, poco prima della sua partenza o fuga verso l’esilio: “Non vi dico addio, ma arrivederci, serbatemi intatta la vostra lealtà come eternamente vi serberà gratitudine e onore il vostro re Francesco.”
Un proclama che alimentava speranze di restaurazione anche se da molti era ritenuta impossibile; ma era nella natura delle cose che un monarca detronizzato alimentasse la speranza del proprio ritorno.
Al momento del proclama, a Gaeta e nel territorio limitrofo, restava una forte resistenza borbonica, mentre altre unità combattenti avevano sconfinato nello Stato Pontificio, pronti ad intervenire a fianco del vecchio Re.
L’esercito napoletano contava allora circa 100.000 uomini ancora in armi, di cui alcuni gruppi sbandati ritornavano armati alle loro case e si riunivano in bande pronti a rispondere ad un nuovo richiamo di Francesco II° ed a combattere contro i nuovi padroni piemontesi ritenuti invasori.
Con la caduta di Gaeta, Civitella del Tronto, Messina, con le truppe riparate nello Stato Pontificio trasferitesi poi a Loreto, e dopo Castelfidardo vennero meno le speranze di una restaurazione e molti soldati si arresero al nuovo governo sperando in un trattamento rispettoso e umano. Questa speranza andò presto delusa poiché la politica sabauda era improntata ad una feroce rigidità, con la quale si volevano sottomettere al nuovo corso non solo i militari, ma in generale tutte le popolazioni locali, rimaste fedeli ai Borboni ed al loro governo.
Iniziava così la marcia dei prigionieri e dei civili catturati nella terra del sud, verso i campi di internamento al nord, successivamente battezzati come “lager dei Savoia”.
Secondo la cronaca del tempo, venne praticato uno dei trattamenti di demolizione della persona mai attuato prima di allora. Oltre ai disagi, agli stenti ed ai patimenti sopportati, i soldati napoletani, trasferiti stipati in bastimenti peggio che animali, subirono oltraggi al loro arrivo, nella terra Ligure (porto di Genova). Da qui, infelici, laceri, affamati venivano poi smistati verso i nuovi campi. Fra essi figuravano anche molti ecclesiastici, politici, generali dell’antica armata, che venivano regolarmente accolti dalla popolazione a sassate, con sputi e angherie di ogni genere, con il compiacimento degli addetti alla loro scorta.
Questi atteggiamenti non favorirono certo l’accettazione da parte delle popolazioni del Mezzogiorno del nuovo governo di unità nazionale, verso il quale si organizzarono bande di armati, di briganti che per lunghi anni mantennero impiegate ingenti forze, causando, nel periodo del così detto banditismo, migliaia di morti sia fra l’esercito piemontese come fra le popolazioni accusate di correità con i briganti.
I prigionieri venivano internati sotto il controllo e la direzione del generale sabaudo Cialdini a Finestrelle, località dell’alta Val Chisone situata a circa 1800 m. di altitudine sede di una importante fortezza d’epoca medioevale; altri luoghi di detenzione erano; la fortezza di Mantova, Alessandria, Peschiera (rimaste poi carceri militari), Verona, San Maurizio Canavese.
I prigionieri erano trattati in modo barbaro, coperti appena di logore camicie, vinti dalla fame perché nutriti con scarse razioni di pane ed acqua ed una sozza brodaglia. Questi uomini nati e cresciuti in un clima mediterraneo temperato-caldo erano stipati in gelide casematte montane, e vennero ben presto decimati da malattie, perché privati dalle necessarie cure.
Queste erano le prigioni del cosiddetto “Re galantuomo”, il quale incaricò il ministro della guerra di rivolgere ai detenuti un invito per l’arruolamento nell’esercito unitario, perché venissero rieducati alla nuova disciplina militare: una affermazione che poteva scaturire solo da una mente malata dopo il trattamento loro imposto.
Il tentativo di recuperare questi militari per il servizio ad un re che non era il loro, fallì miseramente.
In una sola località, San Maurizio Canavese, su circa 1800 prigionieri invitati a prendere servizio nel nuovo esercito italiano, meno di 100 accettarono l’invito, più per convenienze che per convinzione, mentre tutti gli altri dichiararono che “non erano tenuti ad un nuovo giuramento essendo legati al giuramento di fedeltà a Francesco II° e quindi avevano il diritto di essere rilasciati e tornarsene a casa loro”.
A testimonianza di questa pagina del Risorgimento definita “Liberazione del Mezzogiorno” che si associa ad un’altra liberazione di stampo sabaudo, bisogna prestare attenzione a quanto scrisse il Duca di Maddaloni, Francesco Prato Caraffa, “Che dire di un governo che strappa dal seno delle loro famiglie tanti vecchi combattenti per il solo sospetto che nutrissero amore per il loro re sventurato, e li rilega a vivere nella fortezza di Alessandria, ed in altre inospitali terre del Piemonte?
Che dirò degli ufficiali deportati nell’isola di Ponza? Loro delitto fu di militare per la Corona, allora che Francesco II° ancora combatteva per essa sulle rive del Volturno, del Garigliano e fra le mura di Gaeta, ed averlo seguito a Roma nella sventura. Sono essi trattati peggio dei galeotti! Perché il governo piemontese deve torturare con la fame, con l’inerzia, con la prigione, uomini nati, come noi, in Italia?”
Il Duca di Maddaloni, fu poi deputato al primo parlamento italiano, ebbe il coraggio di denunciare ciò che accadeva nel Mezzogiorno all’indomani dell’unità ribellandosi alla piemontizzazione.
Poiché la Camera non autorizzò la pubblicazione delle sue dichiarazione negli “atti del parlamento” si dimise da deputato.
Il nuovo governo piemontese, di fronte al problema di una unificazione territoriale fra regioni diverse, anziché adottare una politica di unione, di partecipazione popolare, scelse una linea dura, sollecitato anche dalla presenza sul territorio di cittadini inglesi che avevano fornito mezzi e capitali per l’unificazione italiana.
Questo tipo di politica demenziale doveva poi ripetersi con un altro Savoia, re-sciaboletta, che, davanti al dovere di compiere scelte politiche di grande responsabilità, optò per la fuga con tutto il suo stato maggiore badogliano e si andò a porre sotto la protezione dei nemici dell’Italia in guerra, mandando così allo sbando e alla distruzione l’esercito e l’intera nazione con una azione di grande codardia.
Accettò poi anche che alla fine della guerra fosse operata una drammatica, ignobile pulizia etnica fra il suo popolo.