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Masaniello. La sua vita e il suo mito in Europa

di Alessandro Barbero - 05/12/2007

    
Recensendo il libro di Silvana D’Alessio, Masaniello. La sua vita e il suo mito in Europa, Alessandro Barbero si concentra sulla figura di Masaniello, uno dei capi della rivolta antispagnola scoppiata a Napoli nel 1647. Fino alla seconda metà del XIX secolo Masaniello venne identificato con il rivoluzionario che lotta contro la tirannide, mentre furono Benedetto Croce e Michelangelo Schipa che gli attribuirono caratteristiche negative. Secondo Barbero, il libro mette in evidenza l’appartenenza di Masaniello all’ambiente dei malviventi che controllavano i bassifondi della città nel XVII secolo.

Ma quand’è che dare a qualcuno del Masaniello è diventato un insulto? In un’epoca magari più ingenua, ma certo più generosa della nostra, come quella dell’Illuminismo e poi del Risorgimento, il suo nome correva per il mondo come quello d’un eroe. Scrittori francesi e tedeschi salutavano in lui il campione della lotta contro la tirannide, rivoluzionari come Marat e Vincenzo Cuoco si commuovevano davanti al «gran Masaniello», Scribe e Dumas si affannavano ad allestire copioni di successo sull’«eroe d’Amalfi», per la gioia delle folle di Londra e di Parigi. Come emerge dal documentatissimo libro di Silvana D’Alessio, Masaniello. La sua vita e il suo mito in Europa, [...] la responsabilità d’aver distrutto il mito di Masaniello è d’un altro gran napoletano, Croce, sprezzante verso i «tumulti plebei senza capo né coda», destinati a finir sempre «con l’abbracciamento generale»; e d’un grande storico sempre napoletano, lo Schipa, che vedeva in Masaniello soltanto «i sozzi, brutali e feroci istinti natii de’ bassi fondi». A partire da questo giudizio senza appello, la damnatio memoriae non ha più conosciuto limiti, tanto da intorbidare perfino il confine tra la figura di Masaniello e quella buffonesca e servile di Pulcinella. [...]
E pensare che a riprendere in mano il dossier Masaniello si scoprono analogie ben più paurose col nostro presente. Tanto per cominciare, la Napoli del 1647, quando esplode la rivolta, è una metropoli dove ogni vicolo ha un delinquente che vi spadroneggia, imponendo il pizzo ai bottegai, come quel tale che dominava la contrada del Pennino «componendo e recattando quei poveri artisti che non poteano respirare»; dove i capibastone «s’interponeano a far matrimoni per forza, le paci con violenza e minaccie, non v’era vicolo del quartiere di S. Lorenzo sino alla Vicaria che la sera non vi fossero costoro ad arrobare e componere i botegari et artisti, commettevano infiniti homicidi et assassinamenti, e non si potea parlare».
Anche Masaniello, come emerge chiaramente dalle fonti dell’epoca, apparteneva a questo ambiente. Dentro e fuori dal carcere per contrabbando, buon amico di avvocati che sapevano tirarlo fuori (e a cui dimostrerà la sua gratitudine durante la rivolta), era il tipo d’uomo cui l’amministratore d’un nobile poteva rivolgersi per non pagare la gabella su una fornitura, sicuro di aver bussato alla porta giusta («Masaniello non deluse le attese», ci informa serenamente la D’Alessio, tutt’altro che incline a tirare le conseguenze dai materiali che lei stessa ha scoperto). Accanto al contrabbando, la prostituzione parrebbe la principale fonte di lucro: la madre, ex prostituta, «non essendo più bona» faceva la ruffiana per la nuora, che Masaniello non soltanto sfruttava, ma usava per stringere buone amicizie coi «compari». Va da sé che nei locali del quartiere mangiava gratis: «bastava ch’egli si affacciasse alla porta del Tavernaro che subito era invitato e veniva posto in Tavola».
L’immagine che esce dalle fonti è quella d’un piccolo boss in carriera, che sa già farsi rispettare: «non si sentiva rumore, che Masaniello non fosse il mediatore, non controversia, che da lui non decidesse, non ingiustitia, che da lui non si rimediasse, nel vendere, e comprare, nel dare e pigliare robbe» («sembra che gli piacesse intervenire nelle liti», commenta serafica la D’Alessio).
Accanto a lui si muovono personaggi [...] come quel Peppo Palumbo che quando non era in carcere per contrabbando controllava a mano armata, sostenuto da una folla di parenti, il quartiere della Conceria, e si diceva pubblicamente avesse frodato al fisco «più de due milioni». Non manca neppure il frate ammanicato colla delinquenza, un carmelitano noto per aver protetto Masaniello in più occasioni e per essere uno dei clienti di sua moglie.
La rivolta scoppiò per protesta contro un inasprimento fiscale che toccava direttamente le tasche di chi controllava il mercato. Venne preceduta da un avvertimento riconoscibilissimo: circa un mese prima, fu bruciato al mercato il gabbiotto dove si esigeva la gabella. Il governo tirò dritto, e alla fine qualcuno decise che era ora di dare una dimostrazione. Perché fu scelto Masaniello? Un indizio c’è: mancavano pochi giorni alla festa della Madonna del Carmine, e Masaniello era rispettato in città anche perché era l’organizzatore della festa, durante la quale sfilavano ai suoi ordini centinaia di giovani armati. Scatenata la rivolta, all’inizio la tenne saldamente in mano; aveva, è chiaro, precise istruzioni su cosa si poteva fare e cosa no, per cui ad esempio era proibito assaltare le carceri della Vicaria («non sia nessuno che parli più di scassare la Vicaria, che io li faccio tagliare il collo»). Fece quel che sapeva fare, compiendo personalmente il giro delle botteghe per «convincere» i fornai ad abbassare i prezzi; mandò scagnozzi con pece e zolfo a dar fuoco alle case di chi aveva sgarrato; e aveva appena cominciato a mandare avvertimenti a qualche notabile, ordinando di pagargli all’istante grosse somme «sotto pena della vita», quando i suoi mandanti decisero che stava esagerando e che era ora di scaricarlo. [...]

Silvana D’Alessio, Masaniello. La sua vita e il suo mito in Europa, Salerno Editrice, 2007, pp. 428, € 27.