La meditazione tra Oriente e Occidente*
di Gianfranco Bertagni - 28/12/2005
Fonte: gianfrancobertagni.it
Facciamo subito una premessa, certamente banale, probabilmente scontata, ma non di meno necessaria. Ora noi possiamo parlare intorno al tema della meditazione, si possono dire delle cose interessanti; uno può seguire una conferenza su questo argomento, leggere un libro, un articolo, seguire un seminario, e tutto ciò va bene e fa bene. Ma finchè si rimarrà nell’ambito delle parole, non avremo ancora la minima idea dell’essenza della meditazione. Ripeto: tutto ciò fa bene, perché è sempre buona, anzi ottima cosa avere una solida base teorica, teoretica, anche filosofica; ma ancora più importante è la pratica. Ecco: la meditazione è essenzialmente una pratica, una esperienza. Il resto ha un’importanza relativa. Anzi, può capitare che le parole sviino da quest’essenza: ci si attacca troppo alle parole e si perde tutto quello che le precede; in realtà la meditazione è un tentativo di andare al di là delle parole, verso il silenzio. Quindi parlare di meditazione è quasi una contraddizione in termini. E poi c’è anche il problema che le parole possano bloccare una possibilità di esperienza: uno si crogiola nelle belle descrizioni di un’esperienza spirituale (appunto, ad esempio la meditazione), si sente appagato, sollevato, si sente “molto spirituale” e questo gli basta. Perché andare più in là costa fatica, costanza, impegno,…
Detto questo, diciamo due cose relativamente al titolo della conferenza: “La meditazione tra oriente e occidente”. Ecco, un titolo più vasto e vago non poteva esserci. Già la meditazione è un tema certo interessante, intrigante, affascinante, importante, ma anche molto complesso, che implica tutta una serie di dottrine, pratiche, insegnamenti, con i suoi aspetti filosofici, spirituali, a volte teologici: insomma tutta una serie di dati difficilmente enucleabili in pochi punti, impossibili da riassumere in un’ora. Aggiungiamo a tutto questo la varietà delle tecniche meditative tra oriente e occidente. Ecco: vediamo che abbiamo a che fare con una quantità di informazioni troppo, troppo vasta!
Bene, ho appena accennato alla pluralità delle tecniche meditative e alla loro collocazione geografica tra oriente e occidente. Questa è una cosa su cui a volte non si è abbastanza chiari. Primo: delle volte incontriamo in giro pubblicità di “corsi di meditazione”. Attenzione: non esiste ‘la’ meditazione, nel senso che non esiste una e una sola tecnica meditativa, con il suo insegnamento, la sua pratica, il suo scopo, ecc. Esistono invece diverse tecniche meditative, le quali appartengono ad altrettanto differenti tradizioni spirituali, religiose, filosofiche. Poi, certo, uno sceglie una tra queste, oppure a volte capita che vi siano tecniche meditative che integrino in sé diverse pratiche provenienti da altre tecniche: nulla di male se non si scade in sincretismi incoerenti e in contraddizioni. Secondo: noi siamo abituati ad associare il concetto di meditazione con l’oriente. Magari non lo facciamo consapevolmente, è un processo associativo spesso automatico, ma non di meno è quello che avviene. Sentiamo proferire la parola “meditazione” e cosa pensiamo, cosa ci raffiguriamo mentalmente? Magari un uomo, nella posizione classica del loto o del mezzo loto, con la schiena dritta ed eretta, con le braccia stese con i polsi delle mani posati sulle ginocchia, ecc. Insomma uno yogi. Non dico che a tutti capiterà di pensare a questa immagine, ma a molti. Gli altri forse penseranno a qualcosa di simile. Insomma associamo meditazione ad oriente. Ovviamente c’è un motivo. Tra la fine degli anni ’50 e i ’70 lo yoga si è diffuso in Occidente (Europa ed America): qualcosa che è andato al di là della stretta cerchia degli studiosi, degli accademici, di chi si dedicava a certi temi per professione. No, è stata una diffusione a livello popolare: corsi, seminari, palestre, ecc. Addirittura ricordo una serie di trasmissioni in televisione alla fine degli anni ’70 in cui si facevano lezioni di yoga. Ecco, allora molti pensano o pensavano che meditazione e yoga fossero uniti da una relazione d’identità: se dici meditazione, allora dici yoga. Lo yoga è stato per molto tempo ‘la’ meditazione. Ma a ben vedere le cose non stanno così e lo stiamo vedendo anche noi in Europa. Ormai sappiamo che dall’oriente non proviene solo lo yoga, ma anche altre tecniche meditative. Alcuni esempi, i più significativi e conosciuti: il (o la) vipassana, lo zazen, la mahamudra, lo dzog-chen. Queste che ho citate sono tutte tecniche meditative appartenenti alla tradizione buddhista: anche qui, vedete, non è un caso. Non è un caso che le tecniche meditative che si sono fatte conoscere in occidente, dopo lo yoga, appartengano tutte a questa tradizione: infatti il buddhismo sta avendo una gran diffusione in questi ultimi decenni qui da noi. E quindi con il buddhismo, vengono le tecniche di meditazione relative ad esso. Ma, ripeto, ho fatto solo alcuni esempi; se ne potrebbero fare altri: le meditazioni taoiste, ad esempio.
Insomma, un gran numero di tecniche meditative provengono dall’oriente. E poi, tanto per complicare ulteriormente la questione, bisogna anche dire che ogni tecnica meditativa ha avuto una serie di interpretazioni nei vari secoli, nelle varie scuole, tra i vari maestri. Anche qui, in realtà non c’è un solo yoga, un solo vipassana, un solo zazen, ma c’è una molteplicità di istruzioni, diverse tra loro, su alcuni punti a volte radicalmente differenti, relative a ognuna di queste pratiche. Lo zazen insegnato da uno dei più grandi maesti zen, Dogen (maestro giapponese del 1200), non è proprio lo stesso di quello di Ejo, che fu il suo successore spirituale.
Ma siamo rimasti finora nel contesto orientale. E in occidente? Ecco, per questo motivo, pur l’estrema genericità del titolo che abbiamo scelto per questa serata, abbiamo comunque optato per esso. Meditazione e oriente: ok, ci siamo abituati, ormai anche chi non sa nulla di meditazione è abituato a questo duetto. Meno abituati siamo nel pensare a meditazione e occidente. È qualcosa di strano, di insolito: a volte si pensa che la meditazione sia qualcosa da cercare solo in oriente, convinti del fatto che in occidente non ci sia nulla di interessante in merito. Ma questo è in parte un errore: dovuto a noi che ci accontentiamo di opinioni che circolano nell’aria senza verificarle obiettivamente, ma dovuto anche a chi dovrebbe informarci su questi temi. Per esempio, entriamo in una libreria e se c’è un settore dedicato alla meditazione, cosa di per sé insolita, stiamo certi che troveremo tutto sulla meditazione di stampo orientale, ma sull’occidente faticheremo a trovare qualcosa. E poi anche chi dovrebbe essere deputato a parlarne, non lo fa, magari egli stesso non ne è a conoscenza.
Ora, io non voglio dire che in occidente si sia sviluppata una tradizione dedicata alla meditazione del tutto paragonabile a quella sviluppata in oriente: in effetti i trattati sulla meditazione di tipo orientale hanno una precisione di descrizione, una chirurgica suddivisione dei vari livelli di meditazione, dei loro effetti, dei significati correlati ad essi, che nei testi occidentali faticheremo a trovare. Sto dicendo solo che ci sono dei punti di contatto, che è importante e interessante sottolineare.
Ma prima vorrei fare una precisazione di tipo linguistico. La parola meditazione ovviamente deriva da una parola latina: “meditatio”. Questa parola, meditatio, ha avuto una suo successo in occidente soprattutto nel medioevo. Essa ha indicato, e indica tuttora nella teologia cristiana, qualcosa di molto preciso che vedremo essere qualcosa di diverso da quel significato che diamo ad essa pensando all’oriente. Nel medioevo ebbe particolare successo questa suddivisione del percorso dell’uomo verso Dio: la lectio, la meditatio, l’oratio e la contemplatio. In questo contesto che cosa significa meditazione? Essa è l’attenta riflessione su qualche oggetto del pensiero, di natura religiosa, morale, filosofico-teologica, allo scopo di indagarne il senso più recondito, il contenuto intimo, l’essenza, e per trarne le conseguenze. Essa è la forma più semplice dell’orazione mentale: consiste nel riflettere sulle verità della fede, di penetrarne l’intimo significato, nutrirne la mente e il cuore, ai fini del proprio perfezionamento morale e di una più intima unione con Dio. Materia di meditazione sarà prima di tutto la parola di Dio (una passo della bibbia, un versetto di un salmo, ecc.), ma potrà essere anche una vicenda vissuta da un santo, un insegnamento contenuto in un documento ecclesiastico, ecc. La lectio - la lettura – presenta la verità, la meditatio la sminuzza, la mastica, la rumina, per il nutrimento dell’anima. A pensarci bene, questo uso della parola meditatio è rimasto anche nel linguaggio comune. “Meditate gente, meditate” diceva Renzo Arbore nella pubblicità della birra. Come dire: meditare, riflettete attentamente.
Potrebbe sembrare che questo significato dato alla parola ‘meditatio’ (meditazione) in Occidente nel cristianesimo ma non solo (anche tra i pensatori antichi – greci e latini – era spesso ritenuto un esercizio da farsi quello di riflettere mentalmente o ripetere mnemonicamente certe verità filosofiche per poterle sempre meglio ricordare, gustare, comprendere, interiorizzare) – potrebbe sembrare, dicevo, che questo significato si discosti di molto dal tipo di meditazione orientale. Ma vedremo che le cose non stanno proprio così.
Ora, possiamo chiederci: qual è lo scopo della meditazione? Se andiamo a leggere nei testi classici dedicati alla meditazione – intendo per testi classici quelli che si sono scritti nei vari secoli passati – scopriamo che quasi sempre obiettivo della meditazione si considerava essere la liberazione, il nirvana, la piena identificazione con l’Assoluto, l’unione con il divino. Vedete che sono degli scopi nobilissimi, dalla portata gigantesca: sono veramente l’esito ultimo di qualsiasi percorso spirituale. Sono qualcosa di così alto e così lontano dalla nostra condizione attuale da sembrare solo un’utopia. Eppure le cose stanno così: questo è quello che troviamo scritto in questi testi. Ma c’è dell’altro. Oggi come oggi, se andiamo a leggere – e sarà capitato a ognuno di noi, credo – un articolo dedicato alla meditazione in qualche settimanale, e se in questo articolo venisse data la parola all’insegnante di meditazione di turno che ci presenta gli effetti della meditazione, il più delle volte ci troveremmo di fronte a una lista di questo tipo: chi medita si ammala meno degli altri, è più consapevole, vive più serenamente, è più rilassato, accetta meglio le avversità, dorme in modo più profondo, affronta i suoi impegni nel modo più diretto ed efficace, riduce il proprio stress, respira meglio, si pone verso la vita e gli altri in modo più armonioso, è più attento, combatte eventuali stati depressivi, di panico, di timidezza, ecc. Insomma: la meditazione per vivere meglio. Ecco, io non voglio mica dire che questa è una degradazione nell’uso della meditazione rispetto al suo significato originario: certo è che, come potete ben comprendere, un cambiamento c’è stato. Si chiede alla meditazione qualcosa che prima non era ritenuto il suo scopo essenziale. Nella visione tradizionale della meditazione questi che ho appena enumerato e anche altri sono considerati sì gli effetti ma non lo scopo: una cosa sono gli effetti, un’altra lo scopo. Io posso iscrivermi ad un corso di karate con lo scopo di conoscere quest’arte marziale, ma praticandola come effetti possono esserci la fortificazione del mio corpo, una maggiore velocità a livello muscolare e mentale, lo sviluppo di quella sorta di intuito che ogni praticante di arte marziale con il tempo sviluppa, …. Oggi, per quanto riguarda la meditazione, quelli che prima erano considerati solo degli effetti, sono interpretati come lo scopo della meditazione medesima. Farebbe quasi sorridere chi dicesse di meditare perché vuole raggiungere il nirvana; chi invece ci dicesse che medita per essere più rilassato nella vita quotidiana avrebbe maggiori possibilità di non essere preso per uno svitato!
Ma dobbiamo ora provare a dare una definizione di che cosa sia la meditazione. Insomma, cosa diciamo quando parliamo di meditazione? Dico subito che sarà un tentativo destinato a fallire. Gli studiosi che si occupano di queste cose hanno tentato di dare una loro definizione, ma ognuno dà una sua definizione diversa dalle altre. Non si è raggiunto un accordo che metta in pace tutti: del resto, come abbiamo poco fa detto, il mondo della meditazione e di tutto ciò che essa implica è troppo vasto per poterlo rinchiudere in una formula. Tuttavia tentiamo, e cerchiamo di dare una definizione forse troppo generale, che non dice poi così tanto, ma che ha il merito – forse – di far rientrare in essa le varie tecniche meditative già citate e non. Dunque: la meditazione è costituita da una o più tecniche psico-fisiche atte alla crescita spirituale del meditante. Tra l’altro, come vedete, questa definizione permette anche di inglobare la “meditatio” occidentale. E poi, ricordiamoci cosa abbiamo detto poco fa per quanto riguardava lo scopo della meditazione. C’è l’idea moderna (la quiete, la tranquillità, ecc.) e quella tradizionale (la liberazione): ecco, in questa definizione vengono incluse entrambe le idee: effetti di una crescita spirituale dovrebbero essere sia esiti come una vita pacifica, quieta, rilassata, imperturbabile e retta, sia anche – come suo esito finale – la totale realizzazione, appunto la liberazione. Vedete, dunque: non si tratta di un dualismo radicale: le due prospettive si integrano tranquillamente; anzi: meditare in modo corretto deve portare a questa compenetrazione: fanno parte dello stesso processo. Inoltre, una cosa sul termine “psico-fisico” o meglio su “psico-“: ci riferiamo qui non solo alla mente in senso psicologico e psicanalitico, ma anche al suo significato etimologico: psiche vuol dire anima, e quindi il riferimento è anche alla struttura spirituale dell’uomo. Sappiamo bene che il concetto di anima è qualcosa di tipicamente occidentale: greco, latino, cristiano. Sarebbe un errore parlare di anima in contesti culturali, religiosi, filosofici differenti da questi. E allora intendiamo anima in un senso vasto di – appunto – struttura spirituale, il centro delle possibilità nell’uomo per una crescita personale, per le scelte morali, per la sua vita spirituale, ecc; quel centro su cui la meditazione dovrà agire per avere i suoi effetti.
Ora siamo venuti al momento di indicare alcuni aspetti di particolare importanza che troviamo nelle più diverse tecniche meditative, magari non tutti caratterizzati e tematizzati allo stesso modo nelle varie discipline, ma certamente assai caratteristici del percorso meditativo in sé.
Inizierei con l’importanza data al corpo. Poi, attraverso questo tema, faremo delle cosiderazioni che ci porteranno al di là del suo stretto ambito. Allora, in realtà l’idea secondo la quale la meditazione è qualcosa solo mentale, nella quale quindi il corpo non ha alcuna importanza, è abbastanza sbagliata. Ricordiamoci la definizione data a meditazione: tecniche psico-fisiche. Psico- ma anche –fisiche! Questa attenzione al corpo è tipica soprattutto alle meditazioni di tipo orientale. Pensiamo ovviamente alle varie asana proprie dello yoga: se ne contano a centinaia, dalle più semplici a quelle assai complicate. Biksu addirittura dice che ci sono tante asana quante sono le cose viventi. A cosa servono le asana? È un primo modo per pervenire all’immobilità attraverso gli effetti tipici delle asana quale elasticità, bellezza, salute, benessere fisico: è un riequilibrio del corpo. Sapete – no? – qual è la definizione di yoga. Gli yoga-sutra, che è il testo più antico e più importante sullo yoga, dicono: yogas cittavrttinirodhah. Vuol dire: lo yoga è la soppressione (nirodhah) delle modificazioni (vrtti) della coscienza (citta). Le modificazioni della coscienza (i pensieri) sono qualcosa di mobile e mutevole, dinamico. Lo yoga cerca di pervenire invece ad uno stato di immutabilità, di stasi. Questo dovrebbe essere l’esito della meditazione tipicamente yoga. Ma si parte dal livello più facilmente approcciabile: dal corpo. È una certezza propria di tutte le tecniche meditative: il corpo e la mente (o, se vogliamo, lo spirito, l’anima, …) si influenzano mutevolmente. È poi anche un’esperienza che abbiamo nella nosta vita quotidiana: certe posizioni del corpo comunicano un certo stato mentale a chi le assume, e anche l’inverso: un certo stato psicologico, sentimentale, emotivo si riverbera nel corpo, nelle sue movenze, nelle posizioni che esso assume. Poi, si passerà, dalla disciplina del corpo alla disciplina del respiro: qualcosa cui siamo un po’ meno sensibili rispetto al nostro corpo, ma che comunque rimane un elemento su cui poter lavorare in modo abbastanza agevole. O almeno certamente più facile da controllare rispetto ai livelli superiori: vedete? È proprio un graduale raggiungimento dell’immobilità, dal livello più esteriore, su cui è più facile lavorare - il corpo -, su su, passando per il controllo del respiro, fino al ritrarsi dei sensi dall’esterno, verso la concentrazione, fino alla meditazione.
Ma possiamo fare anche altri esempi: lo zazen ad esempio. Sapete etimologicamente zazen cosa significa? Significa meditazione (zen) da seduti (za). Pensate quanto è importante la meditazione nella filosofia e spiritualità zen! Così importante che lo stesso zen significa meditazione. Zen è una parola giapponese che deriva dal cinese chan, che a sua volta deriva dal sanscrito dhyana, che significa – appunto – meditazione. E pensate l’importanza del corpo nello zazen: così importante che nello stesso nome della meditazione tipica dello zen – lo zazen – è indicato come deve essere il corpo: seduto. Ovviamente non basta stare semplicemente seduti: bisogna assumere una certa postura, molto precisa, particolareggiata in ogni suo aspetto. E stare in quella posizione completamente immobili. A volte i maestri zen amano ripetere: “zazen è semplicemente stare seduti”. Cosa vuol dire? Vuol dire che stare seduti semplicemente è una cosa assai ardua. Stare seduti vuol dire solo stare seduti: è così semplice che nessuno di noi ci riesce. Stiamo seduti e pensiamo a qualcosa, stiamo seduti e ci fa male la schiena, stiamo seduti e il rumore di un motorino che passa per strada ci distrae, e via di questo passo. Vedete come è difficile stare seduti. Ecco, lo zen ha questa caratteristica che gli è propria: è di una semplicità disarmante. Ma proprio perché noi siamo tutto tranne che semplici, allora ecco che lo zen è difficilissimo: da comprendere e da praticare. Il presupposto che sta dietro alla meditazione zen, ma non solo a questo tipo di meditazione, è che tra noi e la realtà ci sia una serie di filtri, di barriere, di detriti, che ci impediscono di avere un contatto pieno con la realtà stessa. Noi non guardiamo alle cose o alle persone così come sono, ma attraverso tutta una serie di attese, aspettative, richieste, paure, speranze, giudizi, riflessioni, e molto altro ancora. Allora lo zen dice: guardate alle cose nella loro nudità. Ma come si fa? Spogliandoci noi stessi di tutto ciò che ci è di intralcio: lo zazen compie questa operazione. L’illuminato chi è se non colui il quale è riuscito a realizzare completamente il vuoto in sé? Essere semplici, assolutamente semplici è anche essere liberi, liberi da fantasmi della mente: ciò permette di veder le cose nella loro altrettanto assoluta semplicità e quindi nella loro bellezza.
Ma parlavamo dell’importanza del corpo… Abbiamo un po’ preso la tangente. Sempre riguardo allo zen, c’è anche la pratica del kin hin, che è una sorta di meditazione dinamica. È una pratica che si fa tra due sedute di meditazione. Le gambe dopo essere state per lungo tempo incrociate, dolgono: allora il kin hin è qualcosa di assai propizio. Ma non è ovviamente un semplice sgranchirsi: è invece una sorta di zazen dinamico. Se stare seduti vuol dire essere consapevoli della propria postura, allora camminare significa mantenere questa consapevolezza anche quando non siamo più immobili. È anche un gran allenamento per il portamento: non so se vi è mai capitato di vedere dei monaci zen. Si muovono, camminano, stanno seduti in un modo veramente suntuoso, con una nobile compostezza quasi aristocratica. Anche nella meditazione vipassana c’è un tipo analogo di meditazione in camminata. Ora, non vorrei fare della confusione: per chi non fosse a conoscenza di che cosa stiamo parlando: zazen e vipassana sono entrambe tecniche buddhiste. Ma il vipassana è una tecnica che appartiene al buddhismo delle origini, quello proprio di Buddha. Infatti abbiamo anche dei discorsi di Buddha (essenzialmente il Satipatthana Sutta e il Anapanasati Sutta) in cui egli spiega la meditazione vipassana: quindi sembra che questo tipo di meditazione fosse quello usato dallo stesso Buddha! Invece lo zazen, come abbiamo detto, appartiene alla tradizione zen, che è a sua volta una ramificazione del buddhismo che si è realizzata in Giappone. Allora, dicevo, che anche nel vipassana c’è la meditazione in camminata, ma è ancora più estrema – diciamo così – che nello zazen. Cioè è molto più lenta. L’idea, che è poi tipica di tutto il vipassana, è quella di osservare: cioè essere consapevoli. Questa è la grande idea del vipassana: la pura consapevolezza è di per sé trasformatrice. Troviamo scritto nel Satipatthana Sutta: “Un monaco, quando cammina, sa ‘sto camminando’; quando è fermo, sa ‘sto fermo’; quando si siede sa ‘sono seduto’; quando giace sa ‘sto giacendo’; o comunque sia atteggiato il corpo, ne è cosciente”. Ecco anche qui l’attenzione al e l’importanza del corpo! La meditazione coinvolge l’essere umano nella sua interezza, nella sua unità: corpo, anima, mente, spirito, sentimento, emozione, pensiero. Dunque noi siamo completamente fuori di noi; facciamo le cose senza consapevolezza. Fare le cose con consapevolezza che effetti ha? Prima di tutto sentiamo la pienezza di quello che stiamo compiendo, anche se si può trattare dell’azione più semplice, come appunto camminare. Cioè siamo pienamente padroni della situazione, la stiamo vivendo, non siamo immersi nel nostro fantasticare, nel nostro mondo illusorio, mentale: siamo qui, ora, stiamo facendo qualcosa e la stiamo facendo con tutto noi stessi. E poi, essendo consapevoli, capiamo che anche quello che prima ritenevamo scontato, non lo è affatto. Una cosa così scontata come la camminata in realtà ci riserva molte sorprese: camminiamo lentamente fino a sentire tutto il meccanismo muscolare-scheletrico che è in azione. Ci accorgeremo di tanti disequilibri che di solito non notiamo. Stiamo solo osservando, siamo solo consapevoli, ma questo cosa comporta? Ecco l’aspetto caratteristico del vipassana: osservando, essendone cosapevole, io automaticamente aggiusto, raddrizzo, miglioro. Non è una scelta cosciente: non è che io prima osservi che c’è qualcosa che non va e dopo, con una scelta deliberata, lo metta a posto. No, questo sarebbe assai banale. È invece un processo automatico: automaticamente la cosapevolezza, una volta realizzata, fa tutto da sola. Forse è strano a pensarsi, ma infatti non è qualcosa da pensare: è solo un’esperienza. Funziona così senza tanti perché. Ovviamente stiamo parlando dell’osservazione del corpo e dei suoi movimenti; ma la stessa intuizione è a base di tutta la meditazione vipassana. All’interno di essa, la concetrazione è posta sul respiro; se arriva un pensiero distraente, lo si osserva spuntare e svanire, e poi si ritorna all’osservazione del respiro.
Vedete, c’è una differenza radicale tra questo tipo di tecnica e tecniche come lo yoga: nello yoga il respiro lo si regola in un certo modo (il famoso pranayama); oppure anche le asana dello yoga di cui abbiamo parlato prima: ogni praticante yoga sa che non sono mica delle posizioni facili facili da assumere. Ci vuole molta pratica, costanza, anche sforzo. Invece nel vipassana non c’è questa ‘volontà di potenza’. Non si tratta, nel vipassana, di forzare il corpo o i processi mentali attraverso una ferrea volontà. È invece un approccio più delicato: il tuo sforzo non è fare qualcosa, respirare in un certo modo, realizzare certe posizioni con il corpo, ecc. No, lo sforzo è quello di osservare. Certo, c’è tutta una disciplina in merito: bisogna sapere come osservare, cosa osservare, in quale ordine, e tanto altro. Ma resta il fatto che è l’osservazione il motore di tutto. Un esempio molto semplice che tutti possono sperimentare: se ci si siede, con il busto eretto e si comincia ad osservare il respiro così come esso va e viene, spontaneamente, dopo qualche minuto il respiro stesso si acquieta, si distende, trova il suo centro d’equilibrio, senza nessuno sforzo cosciente da parte nostra.
Il respiro è qualcosa di veramente centrale in tante tecniche meditative. Il respiro infatti gode di diversi aspetti estremamente significativi. Per esempio, è qualcosa di cui tutti noi possiamo fare esperienza. Sì, lo so che è una banalità quella che ho appena detto. Ma rimane il fatto che il respiro è qualcosa su cui sempre, in qualsiasi momento della giornata, possiamo porre attenzione; inoltre, il respiro è qualcosa – sì – sempre presente, ma non statico: è dinamico, vivo. E la sua mutevolezza incide sullo stato mentale dell’uomo, e viceversa. È un po’ una sorta di ponte tra il fisico e il mentale, tra il materiale e lo spirituale (del resto il termine ebraico ruah – che designa lo spirito – significa propriamente ‘soffio’): quindi agendo sul respiro, si agisce su tutto l’apparato umano. È una sorta di unione di tutto ciò che compone l’uomo: ovvio, stiamo parlando un po’ per metafora, ma c’è una parte di verità anche in ogni metafora. Per questo il respiro ha avuto così successo presso le varie meditazioni. Ha una sua importanza anche quando apparentemente lo si bistratta. Facciamo riferimento a una tecnica meditativa che non abbiamo ancora incontrata; si tratta in questo caso di una tecnica appartenente al cristianesimo, per la precisione al cristianesimo ortodosso, orientale: mi riferisco all’esicasmo. Ecco, Nil Sorskij (un monaco del 1400) per esempio raccomanda di controllare, per quanto è possibile, il respiro, per non respirare troppo spesso. Niceforo l’Esicasta dice di fare entrare il respiro dalle narici, di forzarlo ad arrivare al cuore e di abituarlo a non essere sollecito ad uscirne. All’inizio sarà una fatica, cercherà di uscire appena possibile, ma con l’abitudine, non proverà alcun piacere ad uscire fuori. Gregorio il Sinaita consigliava di sedersi su una seggiola bassa per rendere la respirazione difficoltosa, in quanto la respirazione distrae l’anima, la rende soggetta all’oblio. Vedete anche qui l’importanza della postura del corpo. Simeone il Nuovo Teologo diceva: “Comprimi l'inspirazione che passa per il naso, in modo da non respirare agevolmente”. Poi, tanto per fare un altro esempio in cui postura e respiro sono direttamente collegati, basta ricordare quella posizione tipica della tradizione esicastica: guardarsi l’ombelico e di conseguenza contrarre il ritmo respiratorio. Naturalmente siamo in un ambito molto distante dal vipassana, ma l’importante è vedere che anche in una tradizione meditativa occidentale, grande attenzione viene data al respiro. Qui, ripeto, l’idea è diversa da quella del vipassana: il respiro in questo caso, visto come direttamente collegato con i movimenti e ribollimenti del sangue, va trattenuto, per portare il corpo e l’anima ad uno stato di silenzio, di tranquillità, di adorazione. L’attività propriamente spirituale ha luogo in noi solo quando vengono soppresse – per quanto possibile – le attività naturali del nostro apparato psico-fisico. Tutto deve essere abbandonato, messo a tacere – è una piccola morte – perché Dio possa agire in noi. A questo punto si potrà iniziare l’orazione mentale tipica dell’esicasmo: "Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore", che verrà ripetuta continuamente, in sincronia con il respiro – proprio come i mantra indiani - ininterrottamente. Quindi una sorta di mantra, fino ad arrivare al punto nel quale non si è più noi, con la nostra volontà, a pregare, ma ‘si viene pregati’ dalla preghiera stessa: ormai è diventato qualcosa di automatico, di totalmente intrinseco al nostro psichismo. Diverrà una preghiera automatica, attiva in ogni momento della vita quotidiana. Conoscerete quel gran testo della spiritualità russa che sono “I racconti del pellegrino russo”: ivi si narra di un pellegrino che all’età di trent’anni entra di domenica in una chiesa dove ode questa frase di san Paolo, che compare nella prima lettera ai Tessalonicesi: “Pregate incessantemente”. Questa esortazione lo induce a mettersi in viaggio in cerca dell’uomo che saprà insegnargli la pratica necessaria per pregare sempre. L’esicasmo è la risposta: fine dell’esicasmo è la preghiera perpetua, per un continua unione tra l’uomo e Dio. Un’altra cosa sull’esicasmo. Qual è la sua definizione? Climaco, nella sua opera, la Scala del Paradiso, dice: hesychia gar estin apothesis noematon (l’hesychia è la soppressione dei pensieri). La stessa definizione data dello yoga negli yoga-sutra.
Il respiro ha una sua rilevanza anche in un’altra tecnica meditativa occidentale: il dhikr. Ci siamo spostati in ambito islamico. Sapete che il sufismo costituisce l’aspetto mistico, esoterico dell’Islam. Un po’ come la mistica cristiana nel Cristianesimo o la kabbala nell’ebraismo. Ecco, tipica dei sufi è questa pratica spirituale: il dhikr. Esso ha moltissimi punti di contatto con l’esicasmo. Esso è il ricordo di Dio. Viene ripetuta una certa frase continuamente, così come nell’esicasmo. Può essere una singola parola, una frase presa dal Corano, uno dei 99 nomi divini con cui si indica Allah, … Una formula spesso ripetuta è ‘La ilaha illa allah’ (Non c’è altro dio all’infuori di Allah). Naturalmente, così come nell’esicasmo, non c’è uno e un solo dhikr; ci sono invece diverse tecniche a seconda della scuola sufi, del maestro, della confraternita a cui si fa riferimento. Ecco, tra questi esercizi ne abbiamo ad esempio alcuni in cui il respiro ha un ruolo principale. Ad esempio c’è una tecnica respiratoria usata per la purificazione del cuore (un organo assai importante nella psico-fisiologia sufi come centro vitale dell’intero organismo). Si visualizzerà uno specchio appannato da varie incrostazioni. Inspirando, si immaginerà di assorbire dalle narici una luce bianca, per mandarla al cuore; poi, espirando, di rimuovere dallo specchio la polvere. Altre volte si usano movimenti del busto o della testa reiterati durante la recitazione del dhikr, accompagnati da una respirazione ritmica con cadenza assai rapida: questa produce fenomeni di iperventilazione, stati di stupore e di obnubilamento. Non sono stati di trance, ma possono portare a quel torpore psico-fisico che facilita la concentrazione mentale richiesta per l’interiorizzazione del dhikr. Vedete la vicinanza con certe tecniche esicaste.
Tornando sull’esercizio di visualizzazione dello specchio, diciamo solo di passaggio che questa metafora e altre affini le troviamo in tantissime tradizioni meditative, sia orientali che occidentali. L’idea sostanziale è che la mente è come uno specchio purissimo, un mare quieto, un cielo terso, un vetro perfettamente pulito. Queste e altre sono le metafore che spesso vengono ripetute. Questa è la mente autentica, quella originaria. Il resto è qualcosa di aggiunto, a causa della nostra vita, delle nostre scelte, delle nostre distrazioni, della caduta in questo mondo: sullo specchio si posa la polvere, le onde agitano il mare, le nuvole coprono l’azzurro del cielo, il vetro viene sporcato; ma nella loro essenza essi sono, sarebbero, perfetti, puliti, purissimi. Scrive San Nilo (esicasta): “Chi vuole vedere cosa sia veramente la propria mente deve liberarsi di tutti i pensieri; la vedrà come uno zaffiro o come il colore del cielo”. Quindi la pratica meditativa ha questa funzione di togliere il superfluo. Ricordate quello che dicevamo sui filtri che si interpongono tra noi e la realtà, anche quindi tra noi e noi stessi. Non si tratta di aggiungere qualcosa, ma di togliere. C’è quel famosissimo passo di Plotino, filosofo greco del III secolo: “Se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finchè nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il superfluo … Non cessare di scolpire la tua propria statua”. Ecco, è un togliere, per giungere alla perfezione originaria. Poco dopo Plotino dice che solo rendendoci belli (una bellezza interiore ovviamente) possiamo contemplare la bellezza, solo facendoci deiformi possiamo sperare di entrare in unione con il divino. Diversi studiosi hanno evidenziato aspetti molto vicini a tecniche meditative orientali in Plotino. Per esempio una sua idea, ma anche di altri filosofi antichi, è quella del ritrarsi dagli oggetti esterni, il “diventare estraneo a ogni cosa”, ad ogni cosa esterna ma anche ad ogni pensiero: fare piazza pulita di tutto, rientrando in se stessi, e lì contemplare nell’intimo la bellezza nascosta. Una contemplazione dell’Uno che con il tempo si tramuta in piena realizzazione. Prima c’era un contemplante e un oggetto contemplato, ora una piena fusione, in cui colui che contempla, l’oggetto della contemplazione e la contemplazione stessa sono divenuti uno. Vedete quanta vicinanza con tecniche orientali di meditazione. Per esempio, abbiamo già parlato dello yoga: ecco, anche in quel contesto abbiamo prima una meditazione dedicata alla concentrazione su un solo punto, su un solo oggetto, cercando di allontanare tutti i pensieri distraenti, poi si arriva ad una totale assimilazione dell’oggetto contemplato, che giungerà poi al samadhi, all’unione, all’assorbimento, dove non c’è più differenza tra yogi e oggetto di meditazione. Ma si può fare anche l’esempio della meditazione nel buddhismo tibetano, caratteristica della quale è la meditazione di certe divinità del pantheon buddhista. Il meditante deve sforzarsi nel meditarle, visualizzandone tutti i dettagli: uno sforzo che richiede molta applicazione e molto tempo. Si dovrà meditare sulle loro posizioni, sul significato dei loro gesti, sulle qualità positive, morali, spirituali di cui sono portatrici, fino a comprenderle in quanto aspetti della propria mente! Esse sono più che altro, per il meditante, simboli dello stato illuminato. Quindi si tratta di riflessi della nostra natura, o almeno quello che la nostra natura è in potenza. Dunque anche qui si parte dalla contemplazione di singole divinità, concepite come distinte da noi, con la loro vita, e si arriva alla realizzazione che tutto è prodotto della nostra mente, assunto tipicamente buddhista.
Di passaggio ricordiamo quello che abbiamo detto sulla ‘meditatio’ in occidente. Vedete che le visualizzazioni – e ne troviamo tante anche nelle tradizioni occidentali, non solo in oriente – sono a volte, per certi aspetti, delle forme di meditatio. Cioè a volte si medita su certe qualità morali, su certe verità spirituali per farle più proprie, per realizzarle pienamente in se stessi. È qualcosa poi che va al di là delle semplici visualizzazioni. C’è tutta una serie di meditazioni che vengono chiamate spesso “meditazioni analitiche”, sviluppate soprattutto nella tradizione buddhista, in cui si medita su temi che sono ritenuti fondamentali per una vita spirituale autentica: per esempio la meditazione della vacuità, della compassione, del significato della morte, dell’equanimità, ecc. Vedete che la meditatio non è così lontana dalla meditazione di tipo orientale…
Non so, forse non abbiamo ancora molto tempo. Ma volevo almeno accennare ad altri quattro punti. Cercherò di essere il più breve possibile: solo per darne un’idea.
Primo. L’importanza della morale. Quasi sempre, nelle istruzioni che vengono date per questo o quell’altro tipo di meditazione (sia in oriente che in occidente) si riserva un’importanza non secondaria e non accidentale al comportamento morale, etico, nella vita quotidiana. La funzione non è solo quella di ‘essere buoni’, non si tratta di qualcosa di moralistico. No, la funzione è direttamente collegata alla pratica della meditazione. Avere un certo comportamento, diciamo così, retto, pulito, integro, permette alla mente di fare ordine, anche da un punto di vista psicologico: essa è più – come dire – compatta, integrata, meno dispersiva. Disciplinarci moralmente significa anche prepararci alla disciplina più interiore che è quella propria della meditazione. E poi le cose non sono così separate: non c’è interiore ed esteriore. L’uno influenza sull’altro. Una pratica meditativa porta a cambiare anche la vita quotidiana e il tipo di vita quotidiana che fai incide sull’esito della tua meditazione.
Questo ci porta direttamente al secondo punto. Ricordate le parole di Paolo: “Pregate sempre”. Ecco, la meditazione all’inizio è qualcosa di separato dalla vita di tutti i giorni. Noi, purtroppo, in un certo senso siamo abituati a questo modo di intendere le cose: pensate alla classica distinzione tra sacro e profano. Chessò, la domenica si va a messa, e il lunedi mattina si è subito pronti a formulare pensieri malevoli su un collega, a irritarsi al primo appunto fatto da qualcuno, ecc. È una battuta, non voglio certo apparire offensivo nei riguardi di chicchessia; ma a volte le cose vanno così. Qualcosa di analogo per la meditazione: pratico meditazione e lo faccio quasi se stessi facendo, che so, ginnastica. Allora, un’ora, due, tre a settimana; ma poi il resto del tempo adotto uno stile di vita totalmente separato. Ma è naturale che l’esito corretto della meditazione è tutt’altro. In realtà essa trasfigura la vita intera, o almeno dovrebbe. Sapete, c’era Gurdjieff che diceva che anche il semplice lavare i piatti doveva diventare preghiera. Lui non si riferiva all’idea tipica di preghiera, ma al mantenimento di una certa mentalità in ogni azione, in ogni attività della propria vita. Cioè, mantenere una particolare consapevolezza in tutto quello che si fa: questa è una delle prove del successo della meditazione. Questo è qualcosa che fa parte di tutte le tradizioni meditative: cioè trasfigurare tutta la propria vita in meditazione. Ricordo solo Thich Nhat Hanh, famoso monaco zen vietnamita, il quale ha posto come centro della sua riflessione di studioso e della sua vita la pratica della ‘presenza mentale’: ogni gesto, ogni azione, fatti con presenza mentale, consapevolezza, appunto presenza. Respirare, mangiare, pulire, camminare, parlare: tutto viene trasformato e illuminato dalla presenza mentale.
Terzo punto. La questione dei fenomeni eccezionali che spesso sono effetti di una pratica meditativa intensa. Si ripete sempre o quasi, in tutte le istruzioni di meditazione di qualsiasi tradizione, che non bisogna fermarsi e crogiolarsi in questi poteri e sensazioni di beatitudine. Ne sono enumerati tanti: sensazione di leggerezza, di pienezza, di felicità, visioni di lampi di luce, di divinità o esseri sovraumani, poteri particolari come la capacità di leggere il pensiero, di rimanere per lungo tempo senza respirare, la levitazione, sensazioni estatiche, e tanti altri effetti più o meno ‘paranormali’. Anche se essi sono dei segnali del fatto che si è giunti a un certo grado elevato nel percorso meditativo, sono spessissimo considerati degli ostacoli o comunque dei pericoli. Negli yoga-sutra c’è scritto: “Queste facoltà, che nel mondo sono considerate poteri (siddhi), costituiscono degli impedimenti nel proseguimento sulla via del samadhi”. Bisogna spogliarsi di tutto, di ogni identificazione, anche di ciò che appare come estremamente positivo e bello, per riuscire ad arrivare a quella nudità completa che porterà alla piena realizzazione. Un mistico cattolico, forse quello ritenuto dalla Chiesa il più grande, Giovanni della Croce, dice che l’anima che indugia nelle visioni non continua verso l’invisibile; esse “sono d’impedimento alla fede”. Anche il Visuddhimagga, un testo del V sec., uno dei testi più importanti sulla meditazione buddhista, chiama “dieci corruzioni della penetrazione” quei segnali straordinari che fanno parte del percorso meditativo di ogni meditante che sia giunto almeno fino ad un certo punto e che possono essere scambiati come sinonimi del raggiungimento del nirvana: vedete come le chiama? ‘Corruzioni della penetrazione’!
Ultimo punto e poi ho finito. Vorrei indicare un aspetto che sembra distinguere in modo netto la meditazione di tipo occidentale-monoteistico (cioè quella che possiamo riscontrare nella tradizione ebraica, cristiana e islamica) dalla meditazione di tipo orientale. Non è che ci sia solo questo aspetto che differenzia le due tradizioni meditative, ma mi sembra che sia particolarmente significativo. E poi fare delle generalizzazioni troppo frettolose è sempre in parte sbagliato. Comunque, facendo un discorso di massima, mi riferisco all’elemento della ‘grazia’, tanto per usare un termine cristiano. Nelle meditazioni di tradizione orientale, il meditante è fautore del proprio nirvana, della propria liberazione, della propria realizzazione. Nella visione monoteistica invece è Dio che opera: l’uomo deve fare la sua parte, certo, e quello che compie la pratica meditativa in questo ambito è quello di fare spazio, di svuotarsi. Ma per cosa? Perché Dio trovi posto in un’anima che sia giunta ad uno stato di semplificazione, di purezza, di libertà spirituale. Quindi in questo contesto è Dio che opera, nella sua libertà. Non è tutto in potere dell’uomo, delle sue capacità e della sua volontà. Al-Ghazzali, teologo e mistico musulmano, parlando dello stato del sufi che pratica il dhikr, scrive: “È in suo potere giungere a quel limite e far durare quello stato respingendo le tentazioni; non è però in suo potere attirare a sé la misericordia del Dio Altissimo”. Poi, naturalmente ci sono delle eccezioni: a volte lo stato di annullamento del proprio io psicologico, della propria soggettività, coincide in alcuni mistici con il ‘ritrovamento’ della pienezza divina sempre presente in noi: quindi qui ci sarebbe una vicinanza con un’ottica più orientale. Ma di solito, quando vi sono differenze tra queste due prospettive, questo punto è uno dei più importanti.
Ecco, ho finito. Vi ringrazio per l’attenzione e soprattutto per la pazienza!
*Conferenza del 21 Marzo 2003 presso il Centro Natura