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Nel mito polacco di Zywia e Swetawa l'eterno richiamo dell'umana compassione

di Francesco Lamendola - 06/12/2007

 

 

 

La mitologia polacca, così come, in genere, le mitologie dei popoli Slavi e quelle degli antichi Lituani, non ha avuto - come quella finlandese - il suo Elia Lönnrot e il suo Kalevala; non ha avuto, cioè, la fortuna di trovare uno studioso moderno che si preoccupasse di riportare gli ultimi racconti orali della sua tradizione letteraria e che li fondesse in un epos nazionale, paragonabile alla Saga dei Nibelunghi per il popolo germanico o all'Edda per gli Scandinavi. Ciò è dipeso da tutta una serie di fattori, a cominciare dall'insediamento tardivo dei Polacchi nella valle della Vistola e anche, in parte, alle distruzioni perpetrate dai Cavalieri Teutonici nel corso del Medioevo.

 

"I polacchi entrano nella storia d'Europa nel X sec. d. C. con la loro conversione al cristianesimo. Scarse sono le notizie che ci restano del loro passato pagano, sì che arduo è rispondere al problema se sia esistita, prima della conversione, una letteratura: certo dovettero esservi tradizioni oralmente tramandate, come in ogni altro paese, ma nessun documento di quell'epoca lontana ci è pervenuto e quanto ci  è rimasto  nei canti e nelle tradizioni popolari si è talmente trasformato col passare di generazione in generazione che è difficile scernervi le vestigia di un'epoca primitiva.

Gl'inizi della storia polacca si perdono d'altronde in quella degli Slavi: è noto che gli Savi, membri della grande famiglia Indoeuropea, occuparono qualche secolo prima di Cristo le pianure dell'Europa Orientale e di qui si diffusero gradualmente verso occidente e verso mezzogiorno.

"Tra il VII e il IX sec., cessate le loro migrazioni, i polacchi dovettero differenziarsi tra di essi:; nel X secolo essi erano già un gruppo etnico compatto e forte, caratterizzato da una unità che si conservò nella lingua, attraverso i secoli, sino ad oggi." (1)

 

Intanto - po' come faranno i conquistadores con la religione e la letteratura dei Maya - i Cavalieri Teutonici si spinsero sempre più a est dell'Oder e della Vistola inferiore, distruggendo i templi, bruciando gli oggetti di culto e sterminando i sacerdoti pagani tanto dei Polacchi, quanto dei loro vicini nord-orientali di stirpe baltica. Questi ultimi, infatti, furono uno degli ultimi popoli d'Europa a convertirsi al cristianesimo. Ciò avvenne solo fra il XIII e il XIV secolo, ossia quando, in Italia - tanto per fare un confronto - scriveva la Divina Commedia, che al tempo stesso l'epos nazionale del nostro popolo e la summa dell'intera cultura cristiana del tardo Medioevo.

Proprio per togliere ai cavalieri tedeschi il pretesto di compiere incursioni nel loro regno, e sfruttando abilmente i contrasti fra papato e Impero, i sovrani polacchi nel X secolo decisero di convertire in massa il proprio popolo al cristianesimo; dopo di che l'avidità di terre e di bottino dell'Ordine teutonico dovette dirigersi solo contro i Lituani e il Baltico settentrionale.

 

"Col pretesto di cristianizzare gli Slavi (in realtà con un chiaro intento di conquista) , i feudatari germanici eseguivano frequenti incursioni nel territorio polacco.

Per evitare questo costante pericolo d anche perché l'idea cristiana cominciava ad essere accettata dalla popolazione (grazie soprattutto all'opera missionaria della Chiesa di Roma), si giunse ad una conversione in massa, avvenuta per iniziativa personale dello stesso Mieszko I:

"La cerimonia del battesimo collettivo di Mieszko I, della sua corte e dei suoi sudditi avvenne il Sabato Santo del 966 sul Monte di Lech, a Gniezno.

"I battesimi di massa si eseguivano generalmente sulle rive dei laghi. Mieszko ricevette il battesimo dalle mani di preti cechi che accompagnavano Dubrawka, principessa boema e sua consorte.

"Con la distruzione dei vecchi idoli di legno, la Polonia entrò nel mondo della civiltà latina in condizioni di particolare indipendenza anche dal lato religioso, poiché la Chiesa polaca non venne sottoposta a quella tedesca.

"La cristianizzazione rafforzò quindi la Polonia in campo internazionale e l'introdusse nell'ambito della cultura dell'Europa occidentale." (2)

 

Ad ogni modo, tra i miti polacchi che si sono salvati dalla distruzione e dall'oblio uno dei più affascinanti, oltre che dei più antichi, è quello relativo alle divinità Zywia e Swetawa, che ricorda - per alcuni aspetti - quello di Cerere e Proserpina della letteratura latina, così cpme è narrato dal poeta Claudiano nel suo poemetto De Raptu Prosperpinae del V secolo d. C., una delle ultime perle della morente classicità.

Non possediamo, ovviamente, il testo originale di quello che dovette tramandarsi, per molte generazioni, mediante la sola letteratura orale; quella che presentiamo è una versione moderna, liberamente adattata e che, tuttavia, conserva il sapore incantato di quei tempi lontanissimi, in cui gli antichi Polacchi, forse, stavano ancora vagando attraverso le fittissime foreste e i numerosi laghi di quel vasto bassopiano, tra l'Oder e le immense paludi del Pripjat, che solo col tempo si sarebbe trasformato nella loro sede definitiva.

 

"Si sa che vi furono tempi in cui grandi zone della terra erano ricoperte da foreste e paludi e gli uomini, per sopravvivere, dovevano lottare contro insidie d'ogni genere. La stessa cosa accadeva anche là dove un giorno ci sarebbe stata la Polonia. Un mito delle genti di Polonia narra infatti di quell'epoca remotissima, e delle bianche ninfee, che in cima ai loro flessibili steli che l'acqua faceva dondolare, fissavano con sguardo di rimprovero il cielo, dove gli dèi indifferenti se ne stavano beati. Un giorno esse riuscirono a suscitare l'interesse di Swetawa, la figlia di Zywia, dea della vita. La fanciulla, ammirando le bianche corolle che si muovevano dolcemente sulle acque di un lago, disse alla madre: «Voglio quei fiori». Zywia le fece notare che non avevano né colore né profumo, e che sarebbe stato pericoloso coglierli perché affondavano i loro steli nel regno della Morte, sulla quale essa non aveva alcun potere. Ma la giovane dea insistette: «Voglio quei fiori, voglio scendere sulla terra e toccarli con le mie mani».

«Non ci pensare nemmeno, figlia mia - tentò di dissuaderla la madre. La terra è un luogo dominato dal dolore. Non vedi quegli esseri miserabili che si chiamano uomini? Sono esposti a mille pericoli e stanno immersi nelle tenebre per la metà del tempo… Che ci faresti laggiù, tu che sei figlia della luce?».

"Mentre la dea Zywia così parlava, Swetawa osservava la terra con più attenzione; più la guardava, più sentiva il suo cuore stringersi per la pena: quegli uomini avevano fame e sete; erano minacciati da animali feroci, da fiumi che straripavano e da paludi che li inghiottivano; erano tormentati dal freddo e bruciati dal Sole; si ammalavano e morivano. D'un tratto una lacrima cadde dagli occhi di Swetawa. Fu la prima lacrima di pietà che cadde sulla terra e gli uomini provarono una sensazione di dolcezza mai provata prima.

"«Tu che fai rinverdire la terra a primavera - chiese la fanciulla alla madre - perché non asciughi il pianto degli uomini? Aiutali, fa che anch'essi abbiano la loro parte di felicità».

"Zywia, che si limitava a governare le stagioni e a buttare a caso sulla terra i semi della vita, non comprese. Si lasciò anzi travolgere dall'irta ed esplose: «Hai permesso alla pietà di turbare il tuo cuore! Hai perso l'indifferenza verso gli uomini, che è la nostra forza e la nostra gloria! Hai tradito gli dèi! Va, raggiungi i mortali sulla erra e dividi la loro sorte».

"Swetawa, cacciata dal cielo, scese sulla riva del lago: ecco i fiori che l'avevano incantata. Felice, si chinò per coglierne uno, ma le ninfee, sollevate dal movimento delle onde, si allontanarono; poi tornarono e di nuovo fuggirono, come in un giuoco misterioso. Swetawa rideva, rideva… Riuscì infine ad afferrare una bianca corolla, ma perse l'equilibrio e cadde nel lago.

Placata l'ira, la dea Zywia scrutò la terra per vedere sua figlia, ma non scorgendo di lei alcuna traccia provò una fitta di angoscia. S'accorse allora di avere un cuore capace di soffrire e se ne vergognò, ma ciò non valse ad impedire che il suo dolore aumentasse.

"Abbandonata la dimora celeste, Zywia percorse la terra chiamando sconsolatamente la figlia, che essa stessa aveva esiliato, e chiedendo di lei a chiunque incontrasse. Ma non la trovò. Nel frattempo, poiché nessuno in sua vece governava le stagioni, gli inverni incrudelivano, mentre il sole dell'estate, troppo ardente, bruciava la vegetazione. L'umanità, già tanto provata, era alla disperazione.

"Zywia decise di cercare Swetawa sotto terra. Per rimuovere la grossa pietra che chiudeva l'ingresso della grotta che conduceva nel regno della Morte, dovette chiamare in aiuto la folgore, poi penetrò nella gola buia e profonda. Camminò e camminò, fino a quando sai trovò davanti una parete di cristallo al di là della quale, finalmente, vide sua figlia. Stava seduta immobile su un trono d'oro, in una stanza col soffitto e le pareti di pietre preziose che scintillavano nella penombra; al centro della stanza, in una vasca di marmo, una ninfea in fiore galleggiava sull'acqua d'argento.

"«Swetawa!». Al richiamo della madre, la fanciulla si alzò, ma il suo volto non espresse né gioia né dolore né sorpresa.  «Figlia mia, mi hai dunque dimenticata? - chiese Zywia con angoscia. - Perché ti trovi qui?»

"Con calma Swetawa le si avvicinò.

"«La dea della Morte mi ha rapita mentre china sul lago coglievo le ninfee. Sono diventata la sua compagna. Mi ha fatto ritrovare l'indifferenza verso gli uomini, che è la virtù degli dèi».

"«Come puoi tu, figlia della luce, vivere in quest'ombra profonda? Ritorna con me nel regno celeste dove hai conosciuto la gioia».

"«Io sto bene così. Ho imparato a dimenticare l'ira degli dèi e a ignorare il pianto degli uomini. Non senti la pace che mi circonda?».

"Dopo aver pronunciato queste parole, Swetawa ritornò lentamente a sedersi sul trono dorato e riprese la sua immobilità.

"Zywia, la dea della vita, capì che sua figlia apparteneva ormai al mondo sotterraneo. Come inebetita risalì in superficie, e per sfuggire il ricordo ossessionante di Swetawa si diede a rimettere ordine nelle stagioni e cercò di capire meglio l'umanità. Si accostò agli uomini e insegnò loro a dissodare la terra e a coltivarla, a costruire gli attrezzi da lavoro, a innestare gli alberi da frutto, a tessere la lana e la canapa. Gli uomini allora si sentirono amati e conobbero la gioia.

"Quando la dea Zywia ritornò nel suo regno celeste, gli uomini scolpirono la sua immagine nella pietra e nel legno, raffigurandola con una corona di spighe in testa e con una mela nella mano. Da allora, ogni volta che l'uomo getta il seme nella terra, nasce nel suo cuore la speranza e con essa la gioia, frutto della prima lacrima di pietà che cadde sul mondo."

 

Come si è detto, questo mito ricorda in parte quello del rapimento di Proserpina, compreso l'episodio della disperazione della madre, dea delle messi, che rischia di causare danni gravissimi alla Terra e ai suoi abitanti. Tuttavia sono presenti anche altri elementi, per cui la sua struttura appare molto più complessa e ricca di una pluralità di significati.

Il tema centrale è quello della compassione: l'ultima realtà che rimane quando tutti gli altri ideali sono miseramente caduti e si sono dimostrati ingannevoli e strumentali, dice Foscolo per bocca di Jacopo Ortis nella famosa Lettera da Ventimiglia. Gli dèi, in origine, non nutrono alcun interesse per il genere umano; conducono una vita beata che ricorda quella degli dèi secondo Epicuro, negli intermundia, serena e non toccata da alcuna preoccupazione. Ma Swetawa si commuove per la sorte degli uomini primitivi che - a differenza di altre mitologie - sono qui presentati ab initio come esseri miseri e totalmente indigenti. Non vi è pertanto un'antropologia della "caduta", come - ad esempio - nel cristianesimo (ma anche nella Tradizione iniziatica), perché l'uomo non è visto come un essere originariamente felice e addirittura destinato all'immortalità.Al tempo stesso, Swetawa è attratta dalla bellezza del mondo terrestre, simboleggiata dalle bianche ninfee che dondolano dolcemente sulla superficie azzurra di laghi e stagni (il racconto, quindi, potrebbe aver avuto origine nella regione della Masuria, ricchissima di laghi circondati da foreste d'abeti e da dune sabbiose).

La commozione per il triste destino degli umani e l'invincibile attrazione verso la bellezza della vegetazione terrestre spingono la dea a protendersi con tutto il suo desiderio verso il mondo che giace al di sotto della felice dimora dei celesti: al punto che sua madre, indignata, la scaccia. Swetawa non se ne preoccupa, è completamente assorbita dalla gioia di poter cogliere le desiderate ninfee: ma scivola in acqua cercando di coglierle e annega. O, più esattamente - visto che una divinità non può morire - viene rapita nelle regioni infere e trasportata nella grotta della dea della Morte, che laggiù regna sovrana e incontrastata.

Il pentimento, l'ansia e l'amore materno sconvolgono ora l'animo di Zywia, che ha perso tutta la sua olimpica indifferenza; ella inizia la sua affannosa ricerca che la porta fin nel cuore del mondo sotterraneo, ove ritrova Swetawa, ma solo per rendersi conto che ormai l'ha perduta per sempre. La fanciulla, infatti, non desidera ritornare, ammesso che lo potrebbe; è divenuta la compagna della dea della Morte e vive una vita di pace perfetta, non turbata dalle umane emozioni: ha ritrovato quella impassibilità e quella indifferenza che, secondo sua madre, erano appunto le qualità più invidiabili della condizione celeste. Nella sua algida bellezza, resa ancor più inumana dalla lastra di cristallo che la separa dal resto del mondo e sottolineata dalla bianca ninfea che galleggia al centro della fontana di marmo, seduta su un trono dorato, la fanciulla divina che, per prima, aveva versato una lacrima di compassione sul destino degli uomini, si è ora chiusa in una assoluta lontananza, si è avvolta in un impenetrabile mantello di gelido distacco. Adesso non teme e non desidera più nulla; non prova nostalgia per sua madre né per il mondo dei celesti: è appagata, impermeabile alle emozioni. Del resto, la dea della Morte (e qui, forse, tra essa e Swetawa, da lei rapita e divenuta sua "compagna", è adombrato un rapporto saffico, visto come metafora di quella sterilità che nasce dalla bellezza paga di sé stessa) non la lascerebbe certo andar via: meno ancora di quanto Plutone, nella mitologia classica,  sia disposto a lasciar partire Proserpina - cosa che poi avviene, ma solo per sei mesi all'anno, grazie a un compromesso con Zeus.

Tornata in superficie, Zywia per la prima volta guarda gli uomini da vicino e ne ha compassione. Tormentata anche dal rimorso per aver scacciato la figlia, provocandone la perdita irrimediabile, decide di insegnar loro l'agricoltura e altre arti utili, affinché la loro vita sia meno dura e anche per essi sia possibile un po' di gioia. Ha scoperto la compassione: come sua figlia, e grazie al dramma di sua figlia. Ma Swetawa si è pentita di quella debolezza e ha voluto ritrovare l'impassibilità; la madre, ammonita dalla sua vicenda, ha imparato a proprie spese, dolorosamente, a non reputare una debolezza, ma una ricchezza, il farsi carico della sofferenza e dell'indigenza altrui. Con Zywia gli dèi si spogliano della loro aura di beato distacco dalle vicende umane e divengono compassionevoli. Come Buddha, che scoprì la compassione allorché scoprì l'esistenza del dolore umano vedendo un vecchio, un malato, un cadavere, e lasciò la reggia in cui viveva, la notte stessa; come Cristo, che provò compassione per gli sposi di Cana, per la folla affamata e stanca che lo aveva seguito in luoghi deserti, per gl'infermi che chiedevano a lui il dono della guarigione, per l'amico Lazzaro che era morto durante la sua assenza.

Se al mondo non vi fosse posto per la compassione, esso (usiamo ancora l'espressione adoperata da  Foscolo nell'Ortis) non sarebbe che una foresta di belve.

È un errore, a nostro avviso, distinguere le religioni di salvezza come se formassero un gruppo a sé: il mithraismo, il mandeismo, il cristianesimo e lo gnosticismo nel mondo antico; i culti revivalistici e fondamentalisti della modernità, ivi compresi quelli sincretistici cristiano-animisti (come la ghost dance predicata da Wovoka fra i Paiute del Nevada a fine Ottocento). (4) Le religioni sono tutte religioni di salvezza, anche quelle in cui nemmeno si parla di Dio, come è il caso del buddhismo: perché tutte, indipendentemente dal fatto che vi sia, oppure no, la figura di un Messia divino (o - come nell'induismo- di un avatar, di una incarnazione della divinità), nascono da un fondamentale atto di compassione verso la condizione umana.

Ed è proprio questa la ragione per cui la scienza non potrà mai sostituire la religione, per quanto ci abbia provato. La scienza si basa sul Logos strumentale e ad esso è estraneo il sentimento della compassione, così come qualunque altro sentimento - tranne una tenace volontà di dominio sulla natura, sulle cose, sugli uomini.

Ma gli uomini, da parte loro, hanno bisogno di compassione, nel senso più alto del termine, perché si sentono insufficienti, inadeguati e sofferenti. Perché hanno un estremo bisogno di perdonare e di essere perdonati, che solo la compassione è in grado di soddisfare.

Compassionare, infatti, anche etimologicamente non significa tanto commiserare, quanto soffrire insieme all'altro, condividere la sua condizione di angoscia, povertà e dolore; la sua limitatezza insuperabile di essere umano che vorrebbe trascendere i propri limiti, e che in tale sforzo trova la testimonianza della sua fragilità e, al tempo stesso, il presentimento della sua grandezza.

 

 

NOTE

 

1)      Marina Bersano Begey, Storia della letteratura polacca, Milano, Casa Editrice Accademia, 1953, p. 9.

2)      Zielinski, Andrzej (a cura di), Polonia, Milano, Edizioni Aristea, 1969, p. 40.

3)      Mina Benvegna, Miti e leggende, Milano, Editrice La Sorgente, 1979, pp. 51-52.

4)      Cfr. Francesco Lamendola, I Paiute del Nevada alla vigilia della predicazione di Wovoka, il Messia Indiano, sul sito di Arianna Editrice.