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Il libro della settimana: Ludwig Gumplowicz, Il concetto sociologico dello Stato

di Carlo Gambescia - 06/12/2007

Il libro della settimana: Ludwig Gumplowicz, Il concetto sociologico dello Stato, a cura di Franco Savorgnan, pref. di Giovanni Damiano, Edizioni di Ar, Padova 2007, pp. 274, euro 20,00

La sociologia europea ha perso di vista, soprattutto dopo il 1945, il ruolo interpretativo delle grande categorie sociologiche, come ad esempio quella di conflitto. Dal dibattito teorico sono così scomparse le voci di quei pensatori che tra Otto e Novecento si erano posti in termini generali la questione del rapporto tra conflitto e altri fattori sociali. E tra questi Ludwig Gumplowicz (1838-1909), ebreo polacco, nato a Cracovia, ma formatosi come sociologo in quel crogiuolo culturale, all’epoca rappresentato dall’Impero austro-ungarico.
Gumplowicz da studioso positivista - come del resto quasi tutta la grande sociologia di quel periodo a partire da Durkheim - si poneva il problema dello sviluppo sociale e delle sue regole. Che “risolse” riconducendo tutti i fenomeni sociali all’interno di una teoria del conflitto. Sotto questo aspetto Gumplowicz può essere definito il padre della scuola conflittualista in sociologia. Per lui il conflitto è il cuore di tutti i rapporti sociali. E anche la stessa cooperazione tra gli uomini è giudicata in funzione del conflitto: ci si unisce sempre contro qualcosa o qualcuno.
Una teoria, come si può facilmente capire, che va a collocarsi sulla riva opposta del contrattualismo liberale e dell’irenismo socialista. E perciò gradita, come poi mostrerà un ferrigno Novecento, a quelle correnti politiche e intellettuali di tipo realista-attivista, rappresentate dal fascismo e dal nazionalsocialismo. Che, semplificando, vi giungeranno non attraverso Gumplowicz, appartato sociologo, ma puntando su una tendenziosa reiterpretazione socialdarwinista di Nietzsche.
Questo accoppiamento “poco giudizioso” tra teoria del conflitto e movimenti fascisti, spiega l’emarginazione politico-teorica, nel secondo dopoguerra, non solo dell’incolpevole Gumplowicz ma della stessa teoria conflittualista. Un silenzio - per limitarsi agli aspetti "epistemologici" della questione - dovuto allo spostamento della sociologia postbellica verso l’ambito teorico di una teoria sociale dello scambio e della cooperazione. In un orizzonte politico che si voleva o si dava per pacificato. E per sempre.
Fortunatamente con alcune lodevoli eccezione teoriche: quelle di Coser e Collins negli Stati Uniti e di Schmitt e Freund in Europa. Ma purtroppo prive di reale influenza sul mainstream sociologico.
Perciò bene hanno fatto le Edizioni di Ar a riproporre, in un' elegante anastatica e nella consolidata collana "Gli 'Inattuali' ", Il concetto sociologico dello Stato di Ludwig Gumplowicz. Curato all'epoca (1904) da Franco Savorgnan, uno dei tanti e oggi misconosciuti padri della sociologia italiana. Del quale viene riproposta la breve presentazione, seguita da una vivace attualizzazione dell'opera gumplowcziana di Giovanni Damiano. Tra all’altro all’inizio degli anni Ottanta apparve per Unicopli la traduzione dei suoi Grundriss der Soziologie (1887) con il titolo di Compendio di sociologia: altro testo fondamentale per capirne il pensiero.
Perché si tratta di un’iniziativa positiva?
In primo luogo, perché il conflittualismo di Gumplowicz costituisce un significativo contraltare alla teoria sulle origini contrattualistiche dello Stato. E dunque una "sana" rivalutazione del momento della forza su quello del do ut des
In secondo luogo, perché spiega come dietro le istituzioni sociali si nasconda spesso una sulfurea volontà di potenza. Che gli uomini spesso mascherano, invocando ragioni nobili e ideali.
Ovviamente, il conflittualismo non può spiegare tutto il “sociale”, e quindi le tesi di Gumplowicz non possono essere condivise fino in fondo. Negli uomini la volontà di potenza, come ricerca della sottomissione dell’altro, gioca un ruolo importante. E dunque spiega “anche” le origini dello Stato, spesso legate a una conquista militare, come rileva Gumplowicz. Ma accanto alla forza vanno collocati altri fattori sociali, spesso discordanti, ma reali ed effettivi come lo spirito utilitario e lo spirito di sacrificio, ma anche la volontà di capire, integrare e “integrarsi” come insegna ad esempio, in termini macrostorici, la millenaria storia di Roma antica.
Si deve, insomma, riconsiderare il conflitto all’interno di un ventaglio di fattori. Senza però sottovalutarne, come in politica, la natura di costante sociale. Tenendo però presente, che lo è anche la cooperazione disinteressata … Pertanto esiste il nemico ma anche l'amico. E spesso, sul piano sociale - ecco quel che va ribadito - l'uno non esiste solo in funzione dell'altro. Perché sussiste - certo tra le altre - una logica del dono puro, attiva ed operante.
Comunque sia, quel che va assolutamente rifiutato è la rozza trasformazione della teoria del conflitto, in filosofia della “Lotta per l’Esistenza”. Evitando così di commettere lo stesso errore di coloro che sul versante liberale, confondono, spesso intenzionalmente e solo per celebrarla, la teoria contrattualistica con una “Filosofia Mercantile dell’Esistenza”. Vanno perciò rifiutate entrambe le "assiomatiche": quella fondata sulla forza come quella basata sull’interesse economico.
In conclusione, Gumplowicz, va sicuramente riletto, ma cum grano salis.