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L’antipolitica e l’Accademia. Un rapporto difficile.

di Carlo Gambescia - 07/12/2007

 

Alcuni giorni fa su invito di un caro amico ho partecipato a un incontro-seminario sull’antipolitica, con particolare riferimento all’Italia. Aperto in larga parte agli apporti di studiosi di formazione diversa: storici delle dottrine politiche, filosofi del diritto e della politica, costituzionalisti, politologi, sociologi e specialisti in scienze della comunicazione.
In linea generale, e come del resto avviene sempre in ambito accademico-scientifico, è emersa una grande diffidenza verso il termine stesso. La maggioranza dei presenti ne ha chiesto addirittura l’ “espunzione”.
Sotto questo aspetto, mi è però sembrata giustificata la richiesta di un illustre sociologo della politica lì presente, ad approfondire empiricamente, prima di definirla concettualmente (e genericamente) come antipolitica, l’area del malcontento. Dal momento che le componenti motivazionali dell’antipolitica sarebbero molto differenti, soprattutto in relazione ai gruppi sociali di appartenenza e alle passate provenienze ideologiche: si andrebbe, a grandi linee, da un’antipolitica “attiva” di chi vuole tornare a fare politica, all’antipolitica passiva, di chi invece, pur criticando i politici, rifiuta qualsiasi forma di partecipazione. Inoltre i “passivi” e gli “attivi” si distinguerebbero, a loro volta, per riassumere, in statalisti, antistatalisti , astatalisti.
Un altro aspetto interessante emerso nel corso della discussione mi è parso quello del rapporto tra critica del parlamentarismo e antipolitica. Per gli storici del pensiero politico, qualsiasi critica alle istituzioni rappresentative racchiuderebbe un pericolosa carica antidemocratica e antiliberale. Per altri, in particolare per i costituzionalisti, andrebbe invece esplorata la possibilità di ricondurre l’antipolitica nell’alveo della politica, attraverso l’introduzione di una riforma elettorale di tipo maggioritario.
Scarsi invece i riferimenti alla relazione tra sviluppo dell’antipolitica, fine del ciclo welfarista, dissoluzione dell’Unione Sovietica e progressiva predominanza dell’economia sulla politica. Tema approfondito invece da chi scrive. Ho infatti evidenziato, collocandomi, se così si può dire, all’estrema sinistra dell’illustre consesso, il fatto che quanto più la politica delegherà le sue scelte, soprattuuto in tema di solidarietà sociale, all’economia, tanto più crescerà l’area dell’antipolitica. Aggiungendo, che non va assolutamente escluso, visto che le istituzioni di democrazia liberale e rappresentativa sono solo una delle forme assunte storicamente dal politico, che l’antipolitica di oggi, in virtù delle sue componenti più attive e partecipative, non possa non essere l’embrione di una politica di domani.
Purtroppo il dibattito è stato invece monopolizzato dagli studiosi di comunicazione. I quali, però, tendono a ridurre, come è regolarmente avvenuto, l’antipolitica a “stile politico-comunicativo”, in relazione soprattutto al comportamento dei leader. Insomma, ci si ferma a un come, ristretto per giunta alla leadership, glissando sul perché dei fenomeni collettivi profondi. Anche se resta importante l’ invito, peraltro generico, di questi studiosi a non sottovalutare le potenzialità democratiche della Rete.
Un altro aspetto emerso nel corso del incontro, ma sempre in chiave di stili comunicativi, è quello della difficoltà per un leader antipolitico, ad esempio Berlusconi, di riuscire a mantenere le promesse antipolitiche, una volta divenuto capo del governo. Tema non secondario, ma comunque legato al come e non al perché dell’antipolitica.
In conclusione si è trattato di un incontro molto interessante. Ma dal quale è però venuto fuori un dato fondamentale. E non positivo.
L’Accademia - certo non tutta - continua a muoversi, oltre come ovvio all’interno dei rispettivi specialismi, nell’ambito di una visione liberale e democratico-rappresentativa della politica. E di conseguenza rifiuta di confrontarsi scientificamente con il conflitto. Pare credere soltanto nella forza della mediazione costituzionale o giuridico-razionale della politica. Di qui certa incapacità, se non addirittura la negazione (anche concettuale) di un fenomeno fondamentale come l’antipolitica, basato appunto sul conflitto, sulla volontà partecipativa e sulla consapevolezza, per ora informe ma abbastanza diffusa, che le istituzioni liberali e rappresentative non sono il punto di arrivo dell’intera storia umana.
Invece il ciclo politico, nel suo senso più ampio, è distinto da regolarità. E il momento dell’antipolitica, come critica non della politica ma di “una” classe politica, indica che le élite politiche al comando, non possono non sprofondare, quando giungono alla fine del ciclo politico, nella corruzione e nell'incapacità e/ o nella delega decisionale ad altri poteri. Provocando lo sviluppo di fenomeni di protesta collettiva, che secondo livelli di crescente intensità e in relazione alle circostanze storiche, possono assumere caratteri ed esiti diversi. Tra i quali anche c’è quello di dare vita a nuove forme istituzionali.
E di questo si dovrebbe discutere e non (o almeno non solo) degli stili comunicativi di Berlusconi.