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Il complotto. Teoria, pratica, invenzione (recensione)

di Filippo Rossi - 07/12/2007

 

 
Se fossimo dei sostenitori della “teoria del complotto” potremmo pensare che l’ammuina che Silvio Berlusconi ha messo in piedi in questi giorni abbia come vero obiettivo non il partito unico del centrodestra, come il Cavaliere continua a urlare ai quattro venti, ma esattamente il suo contrario. Potremmo pensare che questa sua scelta di non seguire le regole del rispetto reciproco
sia stata studiata a tavolino proprio per fare in modo che il centrodestra si disintegri sotto la mannaia di un populismo troppo di maniera e caricaturale per essere genuino. Potremmo... No, basta. Perché da queste parti siamo davvero vaccinati sull’onnipresenza di complotti, trame e cospirazioni. Per troppi anni la vecchia destra è stata accusata di fiancheggiare trame di ogni sorta oppure di essere succube della teoria del complotto applicata all’interpretazione della politica, così oggi ci sembra doveroso pensare che la politica debba essere il risultato di decisione chiare e dirette. E ne siamo ancor più convinti dopo aver letto il numero dell’Almanacco Guanda curato da Ranieri Polese, che esce nelle librerie con un titolo che è tutto un programma: Il complotto. Teoria,pratica, invenzione (pp. 216, euro 22).
Il messaggio del volume è pienamente sottoscrivibile: è vero che spesso la storia è fatta anche di complotti e cospirazioni, ma l’Italia si deve liberare da una malattia, il complottismo, che sostanzialmente contribuisce a scaricare sempre le responsabilità su un’entità misteriosa dalle cui azioni dipenderebbero tutti i mali del Paese: «Passati dalla Guerra Fredda alla globalizzazione, dalla Prima alla Seconda Repubblica, noi italiani ci siamo trascinati dietro ombre e misteri. Con l’effetto – scrive Polese – di un sovraccarico di scheletri nell’armadio davvero imponente». Ecco, forse l’Italia e gli italiani, per riuscire finalmente a rinnovare la società e la politica come tutti diciamo di volere, dovrebbe riuscire a liberarsi di questa catasta informe si scheletrivecchi e nuovi, cercando di tornare all’aperto in una sorta di infinta notte dei morti viventi, in una strisciante notte della Repubblica, per dirla con Sergio Zavoli, che sembra non finire mai. Purtroppo – spiega Polese – «viviamo in un clima propizio per le teorie dei complotti.
Mai così fertile per leggende, dicerie, credenze dai tempi della Guerra Fredda. Nell’ostinato segreto di chi sa, di chi detiene il potere, ogni spiegazione, anche le più paradossali, acquista una sua popolarità, se non addirittura una certa credibilità». È per questo che è sempre difficile sfuggire dall’antico vizio italico della dietrologia che, quasi sempre, sfoga nell’irresponsabilità individuale. Lo spiega Filippo Ceccarelli:«I protagonisti della dietrologia si muovono sulla scena come dei robot. La loro umanità, le loro pulsioni individuali sono come azzerate. Gli imprevisti non esistono. Mentre le coincidenze, le combinazioni e le sincronicità, pure estese ai parenti, hanno un ruolo fondamentale». In ogni ricostruzione dietrologica «tutto torna e tutto si tiene subito e direttamente», finendo «per annichilire lo spirito critico del lettore, ridotto a puro destinatario passivo» E se c’è un tratto distintivo di chi infarcisce la storia e la cronaca di trame e
complotti è quello di essere profondamente noioso: «Una noia – ancora Ceccarelli – che trae origine dalla mancanza del benché minimo distacco». I professionisti del complottismo, come i teorici del “doppio Stato” o i “pistaroli” in servizio permanente effettivo, «difettano di qualsiasi ironia, mai li sfiora l’ala leggera e imprevedibile della commedia». Il difetto vero di che si nutre ogni giorno di pane e sospetto, sembra di capire, è che in definitiva non crede nella politica come capacità dell’uomo di intervenire sulla realtà: c’è sempre qualcuno, una setta, una loggia, una consorteria più potente perché può entrare nella stanza dei bottoni veri. Come se la storia umana fosse una serie infinita e inestricabile di cause oscure ed effetti diabolici, un po’ come nella
fiction Lost dove ogni mistero è immerso in un mistero più grande e poi in uno ancora più grande, e così via in una serie infinita di Matrioske subdole.
Una cosa è certa: chi crede ai complotti abdica alla politica.Come se la politica non potesse mai intervenire sulla storia perché quest’ultima viene sempre regolata dall’alto (o dal basso) da un burattinaio che tutta sa e tutto conosce. Come scrive Mordecai Richler nel suo In un mondo di cospiratori: «Il mio problema con i teorici della cospirazione è che, se gli dai un dito di porcherie accertate, loro si prendono tutto un braccio di fantasie». È così che ogni decisione diventa sterile, svuotata da ogni significato e da ogni speranza perché c’è sempre un grande complotto che la annulla con le sue strategie misteriose:
«La teoria del grande complotto – spiega anche lo storico Franco Cardini – che conosce versioni antiche e moderne, di destra e di sinistra, conservatici e progressiste, clericali e laiciste, fondamentaliste e “moderate”, “apocalittiche” e “integrate”, radicali e moderate, assolute e relativistiche, innerva gran parte del dibattito storico parascientifico e semiscientifico, inonda la letteratura divulgativa e amateuriste, invade i mass media, inquina talora anche giudizi storici severi e documentati e argomentazioni politiche sorvegliate, avvelena il dialogo tra forza, posizioni, opinioni e confessioni religiose diverse. È talora platealmente, volgarmente, squadernata: e in qual caso diventa ridicola, di qualunque segno sia e a qualunque schieramento intenda giovare».
E allora, l’unica soluzione alla monotona noia del ridicolo è quella ricominciare a giocare a carte scoperte. Perché la malattia dietrologica italiana è figlia illegittima di un sistema bloccato da troppo tempo che, ormai incancrenito nell’incapacità di prendere decisioni, di individuare responsabili, di fare scelte, preferisce ogni volta cercare il capro espiatorio, l’untore di turno, colpevoli dei piccoli e grandi mali italiani. Per i professionisti dell’anti-complotto vale sicuramentequello che diceva Leonardo Sciascia sui professionisti dell’antimafia: il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è scagliarsi contro qualche oscuro complotto. Ma questo è il sintomo di una politica che abdica a se stessa, che si astiene dall’agire per attardarsi a fare domande che non sono di sua stretta competenza.
Fateci caso: ogni richiesta di commissione d’inchiesta che nasce in Parlamento nasce sostanzialmente dalla convinzione dell’esistenza di qualche trama oscura. È così che il politico diventa perenne inquisitore, per dare il via a una caccia alle streghe che troppe volte ha lo scopo autoriprodursi. Ma se un Paese vuole riuscire a liberare energie creative, deve smetterla di credere ai complotti. Non perché i complotti non esistano, ma perché, come ha spiegato Karl R. Popper, «ogni cospirazione non ha mai l’esito previsto» e la politica deve riuscire a ragionare sull’imprevisto che anima la società, non sui mille burattinai, veri e presunti, che cercano di influenzare la storia senza riuscirci quasi mai.
Tutto questo, però con un’accortezza che porta Polese ad avvertire comunque, attraverso le parole del celebre commentatore politico del Washington Post, Art Buchwald:«Il problema delle teorie della cospirazione che molte si sono rivelate vere. Per anni ho preso in giro i miei amici di sinistra quando sostenevano di avere i telefoni sotto controllo, oppure che Nixon era un delinquente, e adesso guardaun po’, viene fuori che avevano ragione».