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Cent’anni fa la strage di Monongah in miniera l’ecatombe degli italiani

di Mario Calabresi - 07/12/2007

   
Il giornalista Mario Calabresi ricostruisce la tragedia avvenuta nel 1907 a Monongah, West Virginia, in cui persero la vita circa mille minatori, quasi tutti emigranti europei, tra i quali anche 171 italiani. Calabresi racconta la dinamica del disastro, il più grande nella storia mineraria americana, ma soprattutto le condizioni di lavoro e di vita dei minatori-emigranti. Questi venivano ingaggiati appena approdati in America e trasferiti direttamente a Monongah, vivevano in baracche vicino la miniera di carbone e compravano il cibo dallo spaccio della compagnia, che detraeva tutte le spese dai loro stipendi. Dopo il disastro di Monongah si aprì un’ampio dibattito sulla sicurezza dei minatori, inducendo le compagnie a darsi nuove regole, anche se i morti sono continuati per tutto il XX secolo.

La Storia è passata di qui cento anni fa e ha lasciato il suo segno su un ripido pendio erboso. Il cimitero non ha un recinto, le lapidi sono messe nella terra senza un ordine, sono sparse come fossero state gettate a caso. Nella pancia della collina sono sepolti molti più uomini di quanti non si possa immaginare contando le pietre tombali: in un solo giorno le fu chiesto di accoglierne cinquecento, forse mille. Era il 6 dicembre del 1907. A Monongah, piccolo paesino tra i boschi dei monti Appalachi, abitavano 3.000 persone, vivevano per la miniera della Fairmont Coal Company. Estraevano carbone e ardesia. Ci lavoravano grandi e piccoli. Ogni uomo regolarmente assunto e con il bottone di ottone, che riportava la sua matricola, appuntato sul petto portava con sé almeno due aiutanti, erano adolescenti o bambini, la loro discesa sotto terra non era registrata da nessuna parte. Pochissimi furono riconosciuti.
Arrampicandoci sul crinale ne troviamo uno: «Qui è che giace Giuseppe Colarusso, in Santa Pace volò in grembo di Dio, nella tenera età di anni 10. Suo fratello Michele pose».
Gli adulti guadagnavano 10 centesimi l’ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie. Vivevano in baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.
Quel venerdì mattina alle 10 e 30 una scintilla incendiò il grisou, il gas che riempiva le gallerie, non si è mai saputo perché e le inchieste non hanno trovato responsabili. L’esplosione fu terribile e si propagò per centinaia di metri dalla galleria otto alla sei. Sopravvissero in cinque, per gli altri non ci fu scampo. Il boato si sentì a trenta chilometri di distanza. Ci vollero molti giorni per recuperare i corpi, che erano carbonizzati e sfigurati, in gran parte irriconoscibili. Venne allestita una camera mortuaria nella sede della banca, un luogo di cui nessuno si fidava tanto che i morti avevano i risparmi arrotolati nella cintura. Quando fu piena si cominciò ad allineare i cadaveri sul corso principale. Una folla di madri, vedove e orfani vagava alla ricerca di qualche segno di riconoscimento. Le scarpe, una giacca, i segni della barba. Alla fine soltanto 362 ebbero un nome e il diritto alla lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il carbone.
Su sei vagoni ferroviari arrivarono 500 casse di legno. Il sindacato dei minatori disse che tante erano state le vittime, i giornali arrivarono a parlare di mille morti. Di certo ci furono 250 vedove e un migliaio di orfani. [...] Fu il più grande disastro minerario della storia americana. E di quella italiana. 171 dei morti riconosciuti erano emigrati dal nostro Paese. Più che a Marcinelle, in Belgio dove nel disastro del 1956 morirono 136 italiani. Ben 87 venivano dal Molise, poi dalla Calabria, dall’Abruzzo e dalla Campania. Ce lo raccontano le lapidi. Scritte in italiano, piene di errori, piene di disperazione: «A riposo di Cosimo Meo del fu Donato e di Filomena Paolucci, morto di 20 anno nel disastro di Monongah nella miniera N 8, nato ha Frosolone di Campobasso lascia sua madre».
Gente povera, semianalfabeta, sfruttata. Solo l’anno precedente erano arrivavati ad Ellis Island, la porta d’ingresso per l’America, più di 300mila emigranti dall’Italia. Dalla baia di New York li portavano qui per soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale americano. La compagnia anticipava i 15 dollari del viaggio, che poi avrebbe trattenuto dalle paghe settimanali.
Erano giovanissimi e vivevano quasi da reclusi come racconta il direttore dei Quaderni sulle Migrazioni, Norberto Lombardi, nel libro Monongah 1907, una tragedia dimenticata, che il Ministero degli Esteri ha pubblicato questa settimana. I campi di lavoro erano controllati da guardie armate, non si poteva evadere, se non prima di aver pagato tutti i debiti. Anche il cibo si comprava allo spaccio della compagnia mineraria che tratteneva la spesa dallo stipendio. Così erano sempre sotto scorta, tanto che circolava una battuta: «Gli emigranti italiani fanno parte tutti della famiglia Reale». [...]
La storia è passata di qui e poi se ne è andata con la fine della miniera. Oggi tra queste colline boscose abitano meno persone dei morti di quella mattina di cento anni fa. Non sono diventati ricchi, ce lo raccontano le casette bianche ad un piano in finto legno, le automobili datate, la merce nei negozi. La storia ha lasciato non solo la West Virginia ma tutta questa parte d’America, le acciaierie di Pittsburgh hanno spento gli altiforni, il periodo d’oro cominciato con Andrew Carnegie, l’uomo che pagò per le sepolture, è finito da un pezzo e il declino non ha risparmiato nessuno. La miniera ha segnato la storia anche perché da quel momento cominciò la discussione per mettere nuove regole, la richiesta di sicurezza. Ma la strage dei minatori continuò, l’anno dopo, mese dopo mese, in decine di incidenti morirono in 700. In un secolo rimasero sotto terra 20mila persone solo in questo Stato, e gli ultimi 14, poco lontano da qui, li hanno persi lo scorso anno.
Ma la memoria è rimasta. «Come sarebbe possibile dimenticare, ogni famiglia ha un antenato che era nella miniera quel giorno. Il bisnonno di mio marito si salvò perché doveva scendere il turno dopo»: Diane Masters, caschetto biondo, è la proprietaria del piccolo ristorante Diary Kone. [...] «Ma il vero campione della memoria è stato il reverendo». Everett Francis Briggs è morto lo scorso anno, era nato due anni dopo la tragedia, era cresciuto ascoltando la storia dell’esplosione che uccise italiani, polacchi, irlandesi, russi e slovacchi e si è battuto perché non si dimenticasse.
Nel cinquantesimo anniversario ha aperto una casa di riposo per anziani intitolata a Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Oggi ci vivono 57 vecchi non autosufficenti della zona. La dirige suor Mary, che non ha molto tempo da perdere, sotto il braccio ha un fascio di cartelle cliniche, ma con la mano libera con tre gesti secchi ci indica la statua della santa patrona («Sotto sono incisi i nomi di tutti i caduti»), il ritratto di un ragazzino minatore («È originale e mostra che sotto terra andavano anche i bambini») e la targa che ricorda il reverendo. Poi apre la porta del suo ufficio e ci congeda: «Buona fortuna». Nella sua struttura ci sono persone che hanno combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e per loro ha messo l’adesivo sul vetro all’ingresso: «Se ami la libertà ringrazia un veterano». Anche il cimitero è costellato di bandierine a stelle e strisce, perché tra le tombe dei minatori ci sono anche quelle dei reduci delle Guerre Mondiali, della Corea e del Vietnam. [...]
Oltre il fiume West Fork, sui cui lati stavano le due gallerie della miniera, c’è la città vecchia, da allora non si è mai ripresa. Il ponte è dedicato a padre Briggs, sopra ci sono gli striscioni della regione Molise, scritti in due lingue. Accanto all’ufficio del sindaco e dello sceriffo, di fronte Blumberg building del 1911, dove oggi c’è il «Dark Side Karaoke», c’è la statua dell’»Eroina di Monongah», una donna con il fazzoletto in testa, un figlio in braccio e l’altro per mano: «In memoria delle mogli vedove e della madri delle vittime della miniera».
Una di queste si chiamava Caterina Davia, perse il marito e due figli, ma i loro corpi non vennero mai trovati. Ogni giorno, per quasi trent’anni, tornò all’ingresso delle gallerie per portare via un sacco di carbone che poi svuotava nel suo giardino. Diede vita ad una collina, “la collina di carbone”, che arrivò a sommergerle la casa. Diceva che lo faceva per togliere loro un po’ di peso. E per dare un senso alla sua follia.