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Quando un filosofo farebbe bene a tacere: Hegel e l'Africa

di Francesco Lamendola - 07/12/2007

 

 

Ma infine chi è, o che cosa è, un filosofo?

Un tuttologo che, oltre a costruire il proprio bravo sistema, deve anche sentirsi in dovere di dire la sua su tutto e di più, con tono di cattedratica solennità, atteggiandosi seriosamentea infallibile?

Strano destino, quello dei filosofi dell'età moderna. Ancora ai primi del XIX secolo sembravano essere i più alti depositari dell'umano sapere; per poi, nel giro di pochissimi decenni, precipitare da sì mirabili altezze e infine ridursi - mano a mano che gli scienziati realizzavano la più spettacolare avanzata di tutti i tempi, "occupando" quasi ogni ramo del sapere - a mendicare una non meglio precisata "competenza" in ambiti specialistici sempre più ristretti. Da ultimo, nei primi decenni del XX secolo, si erano arroccati nell'ultimo ridotto, quello della filosofia del linguaggio, apparentemente decisi a resistere a oltranza, a non cedere più neanche un pollice di terreno. Ma poi, ahimé, ecco che il cavallo di Troia di una critica demolitrice li ha sorpresi dall'interno delle loro stesse mura, costringendoli ad abbandonare ingloriosamente gli spalti sui quali avevano giurato di resistere o di soccombere. E proprio uno di loro, Ludwig Wittgenstein, aveva sentenziato con tono perentorio che ormai bisognava tacere quello che non si poteva dire, ponendo una vera e propria lastra tombale su quel poco che rimaneva di un'antichissima e gloriosa tradizione.

Senonché, anche nel loro caso, il tempo si è dimostrato galantuomo - un galantuomo un po' impietoso, magari - e ha mostrato ad abundantiam che non bisogna prendere troppo sul serio questi proclami altisonanti e melodrammatici, né quando intonano il più cupo e pessimistico de profundis sul futuro della filosofia (come nel caso di Wittgenstein), né quando auspicano addirittura una sorta di suicidio cosmico, che ponga fine non solo al pensiero, ma anche alla volontà di vivere dell'intero universo (Eduard von Hartmann). Parimenti si è visto che non è il caso di prenderli troppo sul serio quando, esaltati dalla hybris incontenibile del Logos strumentale e calcolante, cantano i ditirambi più sfrenati in lode dell'onniscienza dei filosofi e quando, come diceva Schopenhauer, agitano il tirso e si contorcono ebbri, simili agli antichi Coribanti, in preda ai furori di onnipotenza che li fanno grottescamente delirare.

Schopnehauer, a dire il vero, aveva in mente un Coribante in particolare: quel Georg Wilhelm Friedrich Hegel che poneva il pensiero al di sopra di ogni umana facoltà, lo Spirito Assoluto al di sopra di ogni realtà e se stesso, modestamente, in cima alla filosofia di tutti i tempi e quindi, con rigorosa consequenzialità, in cima all'evoluzione dialettica dell'Universo.

Effettivamente questo Coribante della filosofia (a proposito, i Coribanti erano quei sacerdoti della dea frigia Cibele, la Magna Mater del tardo paganesimo, che danzavano seminudi in preda all'estasi orgiastica e che arrivavano a tal punto di esaltazione da mutilarsi con le proprie mani) ha paralizzato per circa mezzo secoli il corso del pensiero europeo, più o meno come Benedetto Croce ha paralizzato per mezzo secolo lo sviluppo di quello italiano. E tuttavia bisogna essergli grati, perché la reazione antihegeliana ci ha dato una delle menti più acute di ogni tempo: quella di Sören Kierkegaard: lui sì un grande - anche se, a differenza del nume di Berlino, non cercava affatto la celebrità - coln il quale stiamo continuando, all'inizio del terzo millennio, a fare doverosamente i conti.

Ma, per tornare alla domanda iniziale che ci eravamo posti - se, cioè, il filosofo debba essere un tuttologo querulo e petulante, autorizzato ad affliggerci con il suo incontenibile pontificare a trecentosessanta gradi - desideriamo riportare un campione della prosa hegeliana, tratto dalle celeberrime Lezioni sulla filosofia della storia (Bari, Gius. Laterza & Figli, 2003, pp. 81-87) affinché il lettore possa giudicare da sé stesso e formarsi una propria opinione.

Si tratta di un brano relativo all'Africa, colta nella sua (sic) "essenza spirituale"; ma perle analoghe sono dedicate all'Asia, all'Europa, eccetera, sempre partendo dal presupposto che la forma dei continenti e il loro clima esercitino un influsso diretto sull'evoluzione spirituale dei loro abitanti. Così, ad esempio, leggendo queste righe il lettore apprenderà che "i negri" hanno incominciato a rendersi conto del valore della persona grazie alla tratta degli schiavi; prima, selvaggi com'erano, non possedevano una tale nozione; per cui è auspicabile che la schiavitù venga abolita poco a poco e non tutto ad un tratto, altrimenti essi non potrebbero trarre pieno giovamento dal suo ineffabile valore pedagogico.

Ma cediamo la parola al filosofo più riverito nelle università tedesche ed europee nei primi decenni dell'Ottocento; e che, sia pure in forme un poco più guardinghe, tuttora è venerato in diverse università, anche italiane, da parte di alcuni professori i quali non mancano di rendergli un commovente culto privato nelle loro facoltà, ora che il culto pubblico è stato purtroppo abolito da una generazione ingrata.

 

"Nel caso dei negri, l'elemento caratteristico è dato proprio dal fatto che la loro coscienza non è ancora giunta a intuire una qualsiasi oggettività - come, per esempio, Dio, la legge: mediante tale oggettività l'uomo se ne starebbe con la propria volontà e intuirebbe la propria essenza. Nella sua unità indistinta, compressa, l'africano non è ancora giunto alla distinzione fra se stesso considerato ora come individuo ora come universalità essenziale, onde gli manca qualsiasi nozione di un'essenza assoluta, diversa e superiore rispetto all'esistenza individuale. Come già abbiamo detto, il negro incarna l'uomo allo stato di natura in tutta in tutta la sua selvatichezza e sfrenatezza. Se vogliamo farci di lui un'idea corretta, dobbiamo fare astrazione da qualsiasi nozione di rispetto, di morale, da tutto ciò che va sotto il nome di sentimento: in questo carattere non possiamo trovare nulla che contenga anche soltanto un'eco di umanità. Le relazioni circostanziate dei missionari confermano in pieno la nostra asserzione e sembra che solo il maomettismo sia ancora capace di avvicinare in qualche modo i negri alla cultura. I Maomettani sanno meglio degli Europei anche come penetrare nell'interno del paese.

"Questo stadio della cultura è riconoscibile poi più da vicino anche nella religione. La prima cosa a venirci in mente, quando parliamo di religione, è che l'uomo abbia coscienza di un potere superiore (fosse pure inteso come potenza solo naturale),al cospetto del quale egli si pone come qualcosa di più debole, inferiore. La religione esiste con la consapevolezza che esiste qualcosa di più elevato rispetto all'uomo. Tuttavia già Erodoto (II, 33) ha parlato dei negri come maghi. Ora, nella magia non si trova la rappresentazione di un dio, di una credenza morale; al contrario, la magia fa vedere che proprio l'uomo è la potenza suprema, che si comporta verso la potenza della natura solo alla maniera di qualcuno che dia ordini. Perciò qui non si parla né una venerazione spirituale di Dio né di un regno del diritto. Dio tuona, ma non viene riconosciuto; per lo spiriti umano è necessario che Dio sia qualcosa di più che una creatura tonante, tuttavia non è questo il caso dei negri. (…)

"Tuttavia, proprio perché l'uomo è posto come entità suprema, ne viene che egli non ha nessun rispetto di se stesso: infatti, solo con la coscienza che esista un essere superiore l'uomo arriva a guadagnare una veduta capace di assicurargli un autentico rispetto. Se l'arbitrio è l'Assoluto, se l'arbitrio è l'unica salda oggettività che ricada sotto l'intuizione, è impossibile che su questo piano lo spirito abbia una qualsiasi nozione di universalità. Perciò i negri possiedono quel completo disprezzo per gli uomini che forma propriamente la loro determinazione fondamentale dallato del diritto e della morale. Non c'è nemmeno un sapere dell'immortalità dell'anima, sebbene i morti appaiano come fantasmi. La mancanza di valore dell'uomo si spinge fino all'incredibile; la tirannia non è considerata un'ingiustizia e mangiare carne umana passa per un costume affatto diffuso e lecito. Da noi è l'istinto che ci trattiene dal fare altrettanto, sempre che, in generale, si possa parlare d'istinto nel caso dell'uomo. Tuttavia, ciò non avvenne fra i negri e la pratica di divorare l'uomo sta in stretto rapporto con il principio africano  in genere, per il negro, fermo alla sfera dei sensi,  la carne umana è solo qualcosa di sensibile, è una carne qualsiasi. In occasione della morte, di un re sono macellati e divorati migliaia di uomini; i prigionieri vengono ammazzati e la loro carne venduta al mercato; di regola, il vincitore mangia il cuore del nemico ucciso. Durante lo svolgimento di una magia accade assai spesso che il mago ammazzi il primo venuto e ne dia le membra in pasto alla folla.

"Un altro elemento caratteristico nella considerazione dei negri è la schiavitù. I negri sono condotti in schiavitù dagli Europei e venduti in America. Ciò nonostante, la loro sorte è quasi peggiore in patria, dove vivono una schiavitù altrettanto assoluta. Infatti, il fondamento della schiavitù in genere è che l'uomo non abbia ancora coscienza della propria libertà e così decada a una cosa, a un'entità senza valore. Fra i negri, i sentimenti morali sono debolissimi o, per dir meglio, affatto inesistenti. I genitori vendono i loro figli e questi fanno altrettanto con i loro genitori. A seconda di chi sia il primo a impadronirsi dell'altro. L'azione profonda della schiavitù cancella tutti i vincoli del rispetto morale che portiamo gli uni verso gli altri, e ai negri non viene neppure in mente di aspettarsi per sé quel rispetto che noi possiamo esigere dal prossimo. La poligamia dei negri ha spesso il fine di procreare molti figli, che possano essere venduti come schiavi, tutt'insieme o separatamente, e capita assai spesso di udire ingenui lamenti, come quello di un negro a Londra, il quale si doleva di trovarsi nella più completa miseria, perché aveva venduto ormai tutti i suoi parenti. Nel disprezzo dei negri per l'uomo, l'elemento caratteristico non è tanto il disprezzo della morte quanto l'incuranza per la vita. A tale incuranza per la vita dobbiamo ascrivere anche il grande coraggio dei negri, sostenuto da un'enorme forza fisica, che li spinge a farsi abbattere a migliaia nella guerra contro gli Europei. La vita ha, cioè, un valore solo quando abbia per fine qualcosa di degno. (…)

"Il fanatismo che può destarsi fra i negri, nonostante la loro abituale mitezza, supera ogni immaginazione. Un viaggiatore inglese racconta che allorché nell'Ashanti è decisa una guerra, son fatte precedere cerimonie solenni; fra queste, il rito di lavare con sangue umano le gambe della madre del re. Come preludio alla guerra, il re decide un attacco alla sua capitale stessa, quasi per arrivare al furore. (…)

"Da tutti questi tratti addotti in vario modo risulta che è la sfrenatezza a contrassegnare il carattere dei negri. questa condizione è incapace di sviluppo e di cultura; i negri sono sempre stati così come li vediamo oggi. L'unico legame essenziale che hanno avuto, e ancora hanno, con gli Europei è quello della schiavitù. Nella schiavitù i negri non vedono nulla di sconveniente, anzi accade addirittura che gli Inglesi, i quali si sono adoperati di più per l'abolizione del traffico degli schiavi e della schiavitù siano trattati come nemici. Per i re infatti, vendere i loro nemici prigionieri, o anche i propri sudditi, anziché ucciderli è un affare della massima importanza: e così la schiavitù ha destato maggiore umanità fra i negri.

"L'insegnamento ricavabile per noi dalla condizione di schiavitù fra i negri, il solo a costituire un lato interessante ai nostri occhi, è quello che conosciamo dall'idea che lo stato di natura come tale è lo stato di in assoluta e universale ingiustizia. Anche lo stato intermedio fra lo stato di natura e la realtà dello Stato razionale possiede momenti e tratti d'ingiustizia; perciò troviamo la schiavitù perfino nello Stato greco e in quello romano, così come troviamo la servitù della gleba fino ai tempi più recenti. Tuttavia, allorché esiste all'interno dello Stato, la schiavitù è, a sua volta, un momento di progresso rispetto all'esistenza sensibile, puramente isolata, è un momento di educazione, un modo di partecipare a una morale superiore e alla cultura che vi si accompagna. La schiavitù è in sé e per sé un'ingiustizia, poiché l'essenza dell'uomo è la libertà; tuttavia, bisogna che prima l'uomo divenga maturo per la libertà. Perciò l'abolizione graduale della schiavitù è qualcosa di più appropriato, di più coretto, che non la sua cancellazione improvvisa."

 

Davanti a tanto candore, davvero non si saprebbe da che parte incominciare.

La cosa che più balza all'occhio è che Hegel procede per generalizzazioni assolute: i "negri" sono tutti maghi, tutti cannibali, tutti spregiatori della vita, tutti venditori dei parenti, tutti homo homini lupus; ergo, il meglio che poteva loro capitare era di esser fatti schiavi dagli Europei, in modo da imparare una buona volta il valore della vita umana.

Quello che maggiormente stupisce, in queste inverosimili semplificazioni (e ricordiamo che la vera filosofia consiste nel riconoscere sfumature e differenze, anche minime, di statuto ontologico) non è neanche l'immensa credulità con la quale Hegel ha trangugiato ciecamente i racconti di alcuni commercianti e missionari europei, che si accostarono al mondo africano con assoluta incomprensione e con la mente ingombra di ogni sorta di pregiudizi, quanto la totale mancanza di cognizione delle categorie antropologiche che egli maneggia in universale. Per fare un esempio, quando parla dell'antropofagia, non viene neppure sfiorato dal pensiero che, dopotutto, potrebbero esisterne svariate forme; e che essa, in ogni caso, possa avere un significato rituale piuttosto che puramente gastronomico.

Nemmeno per un istante la sua dura scorza di professore tedesco è sfiorata dal dubbio che quei "negri" non siano altro che barbari feroci e irragionevoli, capaci solo di massacrarsi a vicenda e di calpestare i vincoli più sacri dell'amore filiale o parentale, solo per squallide ragioni venali. Peccato sia vissuto troppo presto per poter vedere Auschwitz o Dachau o anche il genocidio che i suoi compatrioti condussero contro il popolo africano degli Herero, in piena belle époque (cfr. il nostro articolo Namibia 1904: il genocidio dimenticato del popolo Herero, sul sito di Arianna Editrice; vedi anche il numero 1 del 2007 della rivista Il pensiero mazziniano, Forlì, pp. 137-171). Ma nemmeno se avesse potuto assistere a tali eventi, crediamo, egli si sarebbe lasciato smuovere dalle proprie convinzioni: non aveva forse affermato che la schiavitù esercitata da uno Stato, come Atene o Roma, è un fattore altamente apprezzabile di progresso morale, mentre quella delle tribù selvagge non è che ingiustizia pura e semplice? Armato e corazzato di una simile doppia morale, tale da far impallidire quella del più scaltrito gesuita del XVII secolo, egli ci avrebbe pazientemente spiegato che i campi di sterminio dello Stato sono una cosa, mentre le uccisioni decretate da un piccolo despota tribale sono tutta un'altra cosa.

E poi, magari, qualcuno ha pure il coraggio di dire che Hegel non sa apprezzare le debite sfumature e distinzioni e che procede per generalizzazioni eccessive…