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Iraq: gli americani hanno la meglio?

di Sergio Romano - 09/12/2007

L'’attentato in cui ha perso la vita il nostro Daniele Paladini è l’ultima dimostrazione di come l’attività terroristica sia in forte aumento in Afghanistan, in una fase storica in cui la situazione in Iraq si fa sempre più tranquilla. Questo fatto, di cui i giornali americani, primo fra tutti il New York Times, che certamente non nutre alcuna simpatia per il governo Bush, scrivono regolarmente da almeno tre mesi, viene messo in relazione con l’abile politica del generale Petraeus, il comandante supremo delle operazioni a Bagdad, che è riuscito ad attirare dalla sua parte i sunniti, mettendo Al Qaeda nella posizione del nemico numero uno di tutti gli iracheni; questo spiegherebbe lo spostamento dell'attività terroristica da Iraq ad Afghanistan. Inoltre, la relativa «quiete» ha dato modo agli americani di potenziare la ricostruzione delle strutture del Paese, migliorando la propria immagine con gli abitanti. I giornali italiani, sempre così pronti a rilanciare le notizie pubblicate dalla stampa statunitense, del nuovo «clima» a Bagdad e dintorni, e dei successi degli americani in quello scacchiere non fanno nessun accenno, a parte qualche rara eccezione. Mi piacerebbe conoscere la sua opinione sul motivo di queste reiterate omissioni.


Vieri Wiechmann, vieriw@libero.it


Caro Wiechmann,
in effetti la strategia del generale Petraeus ha dato buoni risultati. I 30.000 uomini aggiunti al corpo di spedizione gli hanno permesso di meglio controllare Bagdad e il «triangolo sunnita», vale a dire la regione dove si è verificato, negli scorsi anni il maggior numero di attentati.
Ma il fattore decisivo, per il miglioramento della situazione, è stato il sostegno delle tribù sunnite. Armate dagli americani, le tribù si sono ribellate alla tirannia di Al Qaeda e dei gruppi salafiti che avevano sconvolto con le loro operazioni la vita del territorio e messo in discussione l’autorità dei loro capi. La maggiore sicurezza ha favorito il ritorno alla normalità. E’ stato possibile riaprire scuole, negozi e aziende, ripristinare il movimento delle merci, ricostruire alcune delle opere distrutte dal conflitto.
Si è interrotto l’esodo dei profughi e molte famiglie sono rientrate nelle loro case. Complessivamente, insomma, l’operazione ha dato buoni risultati.
Gli attentati, nell’intero Paese, sono oggi grosso modo la metà di quelli che scandivano la vita quotidiana dell’Iraq prima dell’arrivo del generale Petraeus e del rafforzamento del contingente.
E’ possibile che a questo risultato abbia contribuito la maggior prudenza degli iraniani, oggi meno meno impegnati ad armare le formazioni sciite di quanto non fossero un anno fa.
Vi sono tuttavia altri elementi che non giustificano conclusioni ottimistiche. In primo luogo, alcune regioni del Paese sfuggono al controllo delle forze d’occupazione.
A Kirkuk, la città rivendicata dai curdi, e a Mosul, la situazione rimane tesa e pericolosa.
In secondo luogo il governo e il Parlamento sembrano incapaci di raggiungere un’intesa sulle leggi (fra cui quella petrolifera) da cui dipendono la ricostruzione dell’Iraq e il suo sviluppo economico.
In terzo luogo l’alleanza con i sunniti ha dato risultati positivi nel Triangolo, ma la maggioranza sciita non ha rinunciato ai suoi obiettivi egemonici e considera con diffidenza la nuova linea della politica americana. I comandanti americani rivendicano i buoni risultati della loro strategia, ma sono i primi a constatare che il miglioramento della situazione, in queste circostanze, potrebbe essere effimero.
Finché non verranno eliminate le cause del dissenso sunnita-sciita l’Iraq continuerà a essere teatro di una guerra civile. Il tempo e la scadenza elettorale americana del 2008, d’altro canto, non giocano a favore degli occupanti.
Che cosa accadrà quando il Dipartimento della Difesa dovrà cominciare il ritiro delle truppe, nella prossima primavera?
Può darsi che lei non abbia torto, caro Wiechmann, quando ritiene che il silenzio di una parte della stampa europea sia dovuto a un certo disappunto per il successo della strategia americana. Ma il relativo miglioramento degli scorsi mesi non cambia i dati fondamentali del problema.
Non esiste ancora, e non esisterà verosimilmente per molto tempo, uno Stato iracheno capace di garantire la propria sicurezza e organizzare la civile convivenza dei propri cittadini.