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Popolo sovrano della finanza

di redazionale - 10/12/2007

Fonte: loafimo.it



Presentazione

Questo sito, sia pur con un linguaggio molto semplice (e forse proprio per questa sua
qualità), ha l'ambizione di far conoscere un aspetto della finanza e dell'economia
che è sempre rimasto nascosto nei luoghi oscuri del Palazzo, come qualcosa che non
convenisse svelare al popolo.

E' bene, invece, che il popolo sappia finalmente che lo Stato ha da tempo rinunciato
alla propria sovranità monetaria in favore di un ente privato, qual'è la banca
d'Italia; ha rinunciato, cioè, ad emettere moneta propria, con la conseguenza che,
per il perseguimento dei propri fini istituzionali, è costretto a chiedere in
prestito oneroso le necessarie risorse finanziarie, indebitandosi nei confronti
dell'Istituto di emissione. Ed è bene che sappia anche che questo inutile
indebitamento si trasferisce necessariamente ai cittadini mediante la pressione
fiscale. Pertanto, il popolo si ritrova debitore di quella moneta di cui, invece,
dovrebbe essere proprietario, anche perché essa acquista valore solo perché i
cittadini l'accettano come strumento di scambio, e quindi solo a causa ed in
conseguenza della sua circolazione.

Con la venuta dell'Euro si è determinato poi un altro trasferimento di sovranità
monetaria, questa volta dalla banca d'Italia (così come dalle altre banche
nazionali di emissione) ad un ente privato sovranazionale, qual'è la banca centrale
europea (BCE), che provvede ad emettere la nuova moneta addebitandola ai popoli
europei secondo la stessa "filosofia" monetaria utilizzata fino ad oggi dalle
banche centrali nazionali nei confronti dei rispettivi popoli; ed attuando i
principi del più sfrenato liberismo previsti dal Trattato di Maastricht, che sono
nettamente inconciliabili con quelli di opposta natura che ispirano la vigente
Costituzione italiana, e che sono riassunti specialmente nei suoi articoli 41, 42 e
43.

L'esplorazione di questo sito consente pertanto legittimamente al lettore
diligente di trarne motivo per due constatazioni:
§ la prima, di natura giuridica, che il potere monetario di Bankitalia ed il Trattato
di Maastricht hanno svuotato l'assetto economico-sociale della Costituzione
repubblicana all'insaputa del popolo "sovrano", e perciò in modo chiaramente
antidemocratico;

§ la seconda, di natura politica, che nessuna seria riforma di carattere
economico-sociale (anche per contrastare i negativi effetti della
globalizzazione) può avere possibilità di successo, se lo Stato non recupererà
preliminarmente la propria sovranità monetaria.

Nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero senza esserlo, e proprio nel nostro
attuale sistema monetario chi crede di essere proprietario dei soldi che ha in tasca,
si illude, in quanto ne è solo il debitore.

Scopo di questo sito è dunque di togliere al cittadino l'illusione di essere libero e
di avviarlo, con la verità, alla conquista della libertà.

La novità di questi argomenti, e la loro semplicità e chiarezza espositiva, stanno
già generando in te non solo sorpresa, ma scandalo in quanto essi non sono stati
manifestati prima, a causa dell'omertà del silenzio, che ha coperto da secoli la
verità monetaria.



La conoscenza della moneta porta fortuna
"Esistono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che si insegna 'ad usum
Delphini' e la
storia segreta, in cui si rinvengono le vere cause degli avvenimenti: una storia
vergognosa".
    Honoré de Balzac, "Commedia Umana"

Il successo di questo sito è dato dal fatto che esso è concepito come una moneta
portafortuna oltre la superstizione.
Oltre la superstizione significa oltre ciò che, senza motivo, sta sopra (super stat)
le cose. Ciò che invece con motivo dovrebbe stare sopra a tutto è infatti la
consapevolezza di ogni fortuna o interesse (anche solo come inizio o introduzione
alla fortuna dell'essere fra le cose, cioè dell'interesse - inter esse - reale di
esse).

Non esiste infatti argomento più interessante e stimolante della moneta, a
condizione che se ne colga l'esatto significato, e che se ne conosca l'unica funzione
cui essa dovrebbe essere destinata.

Ogni pensiero dell'uomo, nello svilupparsi, passa nel mondo interiore e diventa
un'entità attiva, associandosi e combinandosi con una forza di reintegrazione del
Regno umano. Esso sopravvive come intelligenza attiva per un periodo più o meno
lungo, in proporzione all'intensità originale dell'atto interiore che l'ha
generato. Così, un pensiero buono si perpetua come una forza attiva e benefica;
quello cattivo come un demone malefico, e così l'uomo popola continuamente la sua
corrente nello spazio con un suo proprio mondo, affollato dalla discendenza della
sua vita immaginativa, dai suoi desideri e dalle sue passioni; una corrente che
reagisce su ogni organismo sensitivo o nervoso con cui viene a contatto in
proporzione alla sua intensità dinamica. Il buddista la chiama il suo "skandha",
l'indù le da' il nome di "karma", il cristiano quello di "provvidenza" (in
riferimento all'apokatastasi - confr. gli "Atti degli apostoli", capitolo 3°,
versetto 21 - il cui significato etimologico è "restaurazione", nel senso di
"reintegrazione di ciò che fu disintegrato" e di "reintroduzione nel conforme di ciò
che fu deforme"). L'uomo può sviluppare queste forme-pensiero consapevolmente o
emetterle inconsapevolmente. Nella misura in cui esse vengono chiaramente
comprese, con tutto ciò che ne deriva, le incertezze riguardanti molti problemi
dell'esistenza, compresi quelli economici, in gran parte spariscono, e si afferra
il principio che governa l'azione del karma in ogni transazione sociale. Ed ogni
apokatastasi monetaria non è necessariamente un bene, soprattutto se non la si
conosce nelle sue dinamiche o se nemmeno si vuol conoscere cos'è la moneta.

Fra le tante, una definizione soddisfacente della moneta sembra quella che, pur
nella sua estrema concisione, comporta tutti i suoi dati essenziali e
caratteristici: è moneta ciò che è convenzionalmente usato come mezzo di scambio e
come misura di valore.

Quindi non è importante, perché una "cosa" acquisti dignità di moneta, che essa sia
fatta di una o di un'altra materia: la storia ricorda come i popoli abbiano conferito
valore e funzione di moneta non solo ai metalli preziosi ma anche ai più disparati beni
che fossero di difficile o faticoso reperimento (c'è ancora chi ricorda che, in tempi
relativamente recenti, in Abissinia il sale costituiva la moneta corrente tra la
popolazione?); è importante, invece, porre in evidenza come la nostra moneta debba
avere come causa la "convenzione" e come effetto la funzione di "misurare il valore"
dei beni, e di essere, pertanto "strumento di scambio" di quei beni.

Se questo secondo requisito sembra abbastanza comprensibile perché
l'intermediazione della moneta evita il ricorso all'antico e non pratico sistema
del baratto, il primo requisito, quello della convenzione, ha bisogno di una breve
riflessione.

Innanzitutto una moneta può adempiere la propria funzione in quanto sia accettata
dai cittadini: sono infatti costoro che, accettandola, le conferiscono valore. Per
dimostrare questo assioma si ricorre all'esempio dell'isola deserta, dove,
evidentemente, il possesso di moneta da parte dell'unico abitatore equivarrebbe al
possesso di nulla, proprio per l'impossibilità che quella moneta possa essere
accettata. Questo principio era stato colto anche da Aristotele: "Taluni ritengono
la moneta un non-senso, una semplice convenzione legale, senz'alcun fondamento in
natura, perché, cambiato l'accordo, tra quelli che se ne servono, non ha più valore
alcuno, e non è più utile per alcuna necessità della vita, e un uomo ricco di de
nari può spesso mancare del cibo necessario". (Aristotele, "Politica", libro
primo, 9, 1257 b; Ed. Laterza, 1972).

Il valore della moneta è quindi la conseguenza di una convenzione: se non c'è
accettazione da parte dei cittadini, la moneta non acquista, né perde valore, e
perciò, venendo meno la sua funzione caratteristica, cessa di essere moneta.

Questo significa che il concetto di moneta ha radice, come il concetto di materia e
come ogni altro concetto, nello spirito dell'uomo, e che appartiene pertanto al
mondo delle idee e del pensiero umano. La moneta fu pensata dall'uomo affinché
potesse servire come strumento per lo scambio dei beni, in un tempo in cui, ampliatisi
i commerci, il baratto, fino ad allora utilizzato, cominciò a denunciare la propria
inadeguatezza.

Non si tratta di fare qui ora tutta la storia della moneta. E' sufficiente, ai nostri
fini, ricordare semplicemente che all'inizio la moneta veniva emessa dal sovrano in
pezzi di metallo prezioso (oro, argento, rame, ecc.), appositamente "coniati"
perché fosse garantita la sua provenienza ed il suo peso, e quindi il suo valore.

In una seconda fase, quando sorsero le prime banche, tanto il sovrano quanto i
cittadini preferirono depositare in esse il loro capitale monetario, soprattutto
per motivi di sicurezza, ricevendo in cambio una ricevuta, detta "fede di deposito",
esibendo la quale si otteneva la restituzione del relativo importo in monete
metalliche.

Successivamente, commercianti ed artigiani, al fine di rendere più rapidi ed agili i
loro affari, si resero conto che, invece di ritirare i loro depositi bancari,
potevano utilizzare per i pagamenti quelle stesse "ricevute" dei banchieri, le
quali, in tal modo, cominciarono ad adempiere alle stesse funzioni della moneta che
rappresentavano, per cui venivano dette anche "note del banco" o "banconote".
Accettate dai creditori, in quanto costoro erano rassicurati dalla garanzia
rappresentata dai depositi bancari, quelle ricevute acquistarono funzioni e
valore di moneta vera e propria, nonostante non avessero alcun valore intrinseco,
essendo di carta.

A questo punto furono i banchieri a rendersi conto di un singolare fenomeno, al quale
occorre prestare la massima attenzione perché costituisce il punto di partenza
della "grande usura" bancaria.

Poiché per comodità i cittadini preferivano pagare ed essere pagati con quelle
ricevute bancarie o banconote invece che con le monete metalliche depositate in
banca, i banchieri, essendosi accorti che i depositi che venivano ritirati
ammontavano all'incirca ad un solo decimo del metallo depositato, in base a tale
percentuale molto bassa del 10%, escogitarono un "trucco" tanto semplice quanto
ingegnoso: emisero un numero di ricevute per un valore di gran lunga superiore a
quello dei depositi reali.

Quelle "ricevute" (uso le virgolette qui per indicare che erano in realtà ricevute
fasulle, astratte, non concrete) pur essendo prive della copertura delle monete
metalliche e quindi di ogni garanzia, circolarono assieme alle prime ricevute
(quelle vere, reali, concrete), funzionando anch'esse da moneta, in quanto
accettate dai cittadini.

E' chiaro che, mentre le prime ricevute rappresentavano il controvalore di monete
metalliche depositate, le altre, invece, non rappresentavano nulla.

Fu così che i banchieri cominciarono a creare moneta cartacea dal nulla, senza alcun
costo se non quello meramente tipografico, pur pretendendo ed ottenendo i relativi
interessi!

Ed oggi succede ancora così, in un duplice ordine di livelli: al livello più basso,
avviene che le banche, confidando nel fatto che la massa di moneta depositata dai
clienti non verrà mai ritirata tutta contemporaneamente, prestano, a chi ha
bisogno, denaro per un valore enormemente superiore al valore dei depositi;
prestano dunque denaro che non hanno e dal nulla percepiscono interessi.

La cosa è ancora più grave quanto si manifesta al livello più alto, vale a dire a quello
delle banche Centrali, le quali prestano allo Stato, per i bisogni istituzionali
dello Stato, ed al sistema bancario, e di conseguenza al sistema economico
nazionale, la moneta che esse stesse creano dal nulla, richiedendo non solo i
relativi interessi, ma anche un importo pari alla moneta prestata. Infatti la moneta
prestata, al momento della restituzione, ha il valore acquistato nel corso della
circolazione, valore che al momento dell'emissione, cioè del prestito, non aveva
per nulla, in quanto l'unica passività di tutta l'operazione è rappresentata dal
mero costo di fabbricazione della moneta.

Ognuno può facilmente già rendersi conto che in queste "trasparenti" operazioni si
fa esercizio di usura. E se nel primo caso le vittime sono solo quei cittadini
costretti a ricorrere alle banche per ottenere i finanziamenti necessari alle loro
imprese e, qualche volta, alle loro stesse esigenze personali, nel secondo caso la
vittima è l'intera struttura economica dello Stato, costretto, per ottenere le
necessarie risorse finanziarie, a indebitarsi con un Ente privato (qual è la banca
d'Italia), al quale ha trasferito la propria sovranità monetaria e, con essa, il
potere di controllare tutta la politica economico-sociale della Nazione.

Questa è dunque la moneta di cui si tratta in questo sito, la cui funzione è di informare
la collettività, comunicando al cittadino fatti e situazioni che ruotano intorno al
grave problema monetario, e che sono per lo più sconosciuti ai profani, perché
circondati da un omertoso silenzio o, nella migliore delle ipotesi, trattati con un
linguaggio troppo tecnico e scientifico e perciò incomprensibile a chi è digiuno in
materia.

Nel tracciare questi appunti, ho cercato di esprimermi con la maggiore semplicità
possibile, a costo anche di cadere in imprecisioni nell'uso di termini
tecnico-scientifici, ma, in ogni caso, esponendo sempre le idee con schiettezza,
non rinunciando neanche a qualche vena polemica, che si potrà cogliere soprattutto
nelle note.

Il webmaster, cioè l'autore di questo sito, non è l'autore del suo contenuto, anche se
ha fatto idealmente suo tale contenuto, consistente principalmente nel lavoro di un
saggio di 77 anni, Bruno Tarquini, che è stato pretore, giudice, presidente della
sezione penale e della Corte d'Assise di secondo grado, e procuratore(1) generale
della Repubblica presso la stessa Corte d'Appello: "La moneta, la banca e l'usura. La
Costituzione tradita", Ed. Controcorrente.

Il successo di questo sito è pertanto anche il trionfo della saggezza o sophia dei
nuovi tempi, procedenti nell'uomo come entusiasmo di conoscere cose di cui si parla
poco, e come immaginativa morale di comunicare agli altri tali nuove conoscenze, e
soprattutto perché si sappia che esistono alcune briciole recondite di una certa
cultura, di cui non si sospetta la benché minima esistenza.

La moneta, nei termini in cui è inquadrata in questo breve sito, costituisce una di
quelle briciole nascoste ed avvolte nel buio del silenzio omertoso. Ed il tema è di
così enorme rilevanza per la vita sociale di una Nazione che non può essere ignorato,
né minimizzato con una semplice alzata di spalle. È senz'altro legittimo avere su
questo tema un'opinione diversa da quella esposta qui. Ciò che però conta
incontrovertibilmente è di essere almeno informati dell'esistenza stessa del
problema, affinché nei momenti importanti e decisivi della vicenda monetaria si
possa essere in condizioni di esprimere un giudizio o, comunque sia, di tentare di non
perdere completamente l'orientamento nei suoi oscuri e misteriosi meandri.

La materia della moneta è infatti tra quelle in cui si è avverato - rispetto
all'opinione comune che (anche) in questo campo è chiaramente connotata da
ignoranza e da pigrizia mentale - il più radicale capovolgimento, che, prima di
tutto, spinge alla formulazione di alcune domande:

o - Perché lo Stato ha rinunciato alla propria sovranità monetaria?

o - Perché ha trasferito questa sovranità ad un Ente privato, come la banca d'Italia?

o - Quale beneficio può trarre dal fatto che, per realizzare i propri fini
istituzionali, debba prendere in prestito dalla banca centrale le necessarie
risorse finanziarie, con tutti gli oneri, le difficoltà e le limitazioni che
conseguono a questo tipo di operazioni?

o - Perché l'istituto di emissione, pur creando dal nulla la moneta che mette in
circolazione, si comporta come se ne fosse proprietario, pretendendo ed ottenendo
lucrosi interessi, che sono a carico di tutto il sistema economico nazionale?

o - Perché, ciò nonostante, la moneta che crea e presta, la iscrive nei propri bilanci
tra le poste passive?

o - Perché, insomma, tutto l'intero sistema economico della Nazione deve vedersi
addebitata la moneta creata e messa in circolazione dalla banca d'Italia?

Per poter dare, in questa materia, risposte che siano doverosamente complete ed
esaurienti, occorrerebbe ripercorrere tutti i sentieri della Storia, almeno
quelli degli ultimi secoli, e cogliere quel sottilissimo, ma solido, filo che lega
tra loro le rivoluzioni, le guerre e gli eventi, che si sono succeduti nell'arco di
questo lungo periodo, come in una tragica trama che forse, ai nostri giorni, sta
giungendo al suo programmato completamento.

E' evidente che per fare tutto questo sarebbe necessario un impegno che andrebbe ben
al di là di quello sufficiente per realizzare le poche pagine di questo sito.

L'intelligenza, la sensibilità e le riflessioni del lettore, potranno comunque
fornirgli un'idea propria dei problemi qui proposti, in modo da conquistare da sé le
risposte.

Qui infatti non si tratta di convincere qualcuno della fondatezza di una o di un'altra
tesi, in una determinata materia storica o economica che sia, ma di sapere almeno che
altre ipotesi, oltre a quelle diffuse dalla cultura ufficiale, esistono.

In questa sede è sufficiente rilevare che rivoluzioni e guerre, a partire dal 1789,
hanno mirato pervicacemente ad un traguardo finale, come quello che si sta
raggiungendo ai nostri giorni: la globalizzazione ed il Governo Mondiale, vale a
dire una umanità ridotta a masse indistinte di consumatori ed un governo unico, come
unico dovrebbe essere il pensiero, unico il mercato, unica la moneta. Moneta
cartacea, naturalmente, creata dal nulla, messa in circolazione dalla BCE, e
addebitata al Popolo, che, invece, ne dovrebbe essere l'unico proprietario, se lo
Stato si riappropriasse della sovranità monetaria.



    Breve storia della Banca d'Italia

    Prime norme (1893)

Subito dopo il conseguimento del tormentato processo di unificazione degli Stati
italiani sotto la dinastia Savoia, si dovette affrontare lo spinoso problema della
creazione di una banca centrale che estendesse la propria competenza sull'intero
territorio del nuovo Stato. Ma soltanto con la Legge n. 443 del 10 agosto 1893 avvenne
la nascita della banca d'Italia, frutto della fusione della banca nazionale del
Regno con la banca nazionale Toscana e con la banca toscana di Credito, e dalla
liquidazione della banca romana, conseguente al grande scandalo sorto dal suo
fallimento.

Fu personalmente Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio dell'epoca, a
dirigere tutte le operazioni necessarie per la nascita della nuova banca Centrale,
ed a lui, per primo, si devono tutte quelle norme dirette a garantire la sua autonomia
da ogni eventuale pressione del potere politico: a tal fine Giolitti volle mantenere
il più possibile il modello societario, tra l'altro evitando che fosse il Governo a
nominare i vertici della banca d'Italia, ed accettando, in sede di dibattito
parlamentare, soltanto l'emendamento secondo il quale "la nomina del direttore
generale della banca d'Italia dovrà essere approvata dal Governo", ben consapevole
che si trattasse di una concessione inidonea ad eliminare l'autonomia e
l'indipendenza del nuovo Istituto. Lo stesso Giolitti ebbe modo, in un discorso
tenuto il 18 ottobre di quell'anno, di mettere in evidenza i molti vantaggi che
derivavano al mondo bancario dalla legge istititutiva della banca, indicando, tra
gli altri, "la determinazione precisa delle operazioni consentite, la
determinazione rigida delle responsabilità degli amministratori, sanzioni
severe contro ogni violazione di legge, l'esclusione di qualsiasi ingerenza
parlamentare, una vigilanza molto più efficace". Lo Statuto della nuova Banca fu poi
approvato sotto il successivo governo presieduto da Francesco Crispi (in
particolare, esso non incontrò più l'ostacolo del nuovo ministro delle Finanze e del
Tesoro, Sidney Sonnino, il quale era stato il più accanito oppositore in Parlamento
della legge proposta da Giolitti).

La banca d'Italia, dunque, fin dall'origine assunse la forma di società anonima,
tenuto conto che di questa ricalcava essenzialmente l'organizzazione interna,
come ad esempio la nomina degli organi amministrativi e di controllo, spettante
all'assemblea della società.

    La legge del 1910

Con Regio Decreto 28 Aprile 1910, n. 204, fu approvato il testo unico delle leggi sugli
istituti di emissione e sulla circolazione dei biglietti di banca. All'art. 1 venne
stabilito che "la facoltà di emettere biglietti di banca od altri titoli equivalenti
pagabili al portatore ed a vista, è concessa, per un periodo di venti anni, dal 10
Agosto 1893, ai seguenti istituti: banca d'Italia, con un capitale di 240 milioni,
diviso in 300 mila azioni nominative da lire 800 ciascuna; banco di Napoli; banco di
Sicilia".

Degno di menzione di tale decreto è l'art. 25, che, dopo aver indicato la somma totale
delle anticipazioni che gli istituti di emissione debbono fare al Tesoro, al 2° comma
(come modificato dal successivo R. D. 16/09/1912, n. 1068) stabilì che "l'interesse
dovuto dal Tesoro per le dette anticipazioni è ragguagliato alla ragione di lire 1,50
per cento al netto di ogni imposta".

    La legislazione del '26 e '27

La posizione della banca d'Italia subì profonde modificazioni ad opera di una serie
di decreti-legge emanati negli anni 1926 e 1927, tra cui assume rilevante importanza
quello n. 812 del 6/02/1926, che, unificando in capo alla banca d'Italia il servizio
di emissione dei biglietti di banca, stabilì la cessazione dell'analoga facoltà per
il banco di Napoli ed il banco di Sicilia.

Cosicché la banca d'Italia assunse il monopolio dell'emissione dei biglietti di
banca, rafforzando, anche con tale attribuzione, il ruolo di banca Centrale, cui era
certamente predestinata fin dalla nascita.

    La legge fondamentale del 1936 e le successive

Tale ruolo assunse un definitivo assetto con il R. D. L. 12/03/1936, n. 375
(convertito con modificazioni nella Legge 7 Marzo 1938, n. 441), e con il successivo
statuto, approvato con R. D. 11/06/1936, n. 1067. Queste disposizioni legislative
confermarono l'autonomia della banca d'Italia, alla quale, per la prima volta, fu
esplicitamente riconosciuta la qualifica di "Istituto di Diritto Pubblico",
nonostante che fosse sostanzialmente mantenuta la sua organizzazione interna
originaria, che, come si è accennato, era quella di una società anonima (oggi "per
azioni"). Degna di rilievo è la norma contenuta nel 4° comma dell'art. 25 (come
modificato dal D. P R. 19/04/1948, n. 482, e successivamente sostituito dall'art. 1
del D. P R. 18 Luglio 1992), con la quale si stabilisce che il Governatore della banca
d'Italia, tra l'altro, "dispone, in relazione alle esigenze di controllo della
liquidità del mercato, le variazioni alla ragione normale dello sconto e alla misura
dell'interesse sulle anticipazioni in conto corrente e a scadenza fissa presso la
banca d'Italia, con proprio provvedimento da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana". Tutto ciò, per porre in evidenza l'enorme potere
attribuito al Governatore, capace di incidere in maniera decisiva sulla vita della
Nazione, tanto più che la sua nomina non incontra limiti temporali, a meno di
dimissioni o di revoca, quest'ultima disposta dal Consiglio Superiore, ed
approvata con decreto del Presidente della Repubblica promosso dal Presidente del
Consiglio dei Ministri di concerto col Ministro per il Tesoro, sentito il Consiglio
dei Ministri (v. art. 19, 1° e 6° comma, dello statuto, così modificato
rispettivamente dall'art. 1 del D. P R. 14 Agosto 1969, n. 593, e dal D. P R. 19 Aprile
1948, n. 482). Per concludere su questo specifico argomento, e per dimostrare come il
potere politico abbia continuato nel tempo a defilarsi dalla responsabilità di
mantenere una competenza di tanta importanza, quale è quella concernente il tasso di
sconto (le manovre sul quale in aumento o in diminuzione acquistano una grandissima
rilevanza per il tessuto sociale della Nazione), la Legge 7 Febbraio 1992, n. 82 (tra
l'altro promossa dall'allora Ministro del Tesoro, Guido Carli, che, guarda caso,
era stato Governatore della Banca d'Italia), ha attributo all'Istituto di
Emissione la facoltà di disporre le variazioni del tasso ufficiale di sconto senza
doverla più concordare con il Ministro del Tesoro, vale a dire con lo Stato (per avere
un'idea, quanto meno approssimativa, dell'importanza del tasso di sconto e di
quello sulle anticipazioni, concesse dalla banca Centrale alle banche ordinarie,
basti sapere che dalle loro variazioni dipende non solo il costo del denaro, cioè
l'interesse che i clienti debbono pagare alle banche, ma anche l'importo degli
interessi sulle obbligazioni e sui titoli pubblici. Queste variazioni, che
incidono così profondamente sull'economia del paese, sono dunque decise soltanto
dal Governatore della Banca d'Italia).



    La natura giuridica della Banca d'Italia

Si è già posto in rilievo che, nonostante l'esplicita formula adoperata dalla legge,
secondo cui la banca d'Italia è Istituto di Diritto Pubblico, tuttavia la
organizzazione interna ricalca sostanzialmente quella che è propria di una società
per azioni. Infatti gli Organi Amministrativi e di Controllo, come avviene nelle
suddette società, sono nominati dall'Assemblea Generale dei "partecipanti": in
particolare il Consiglio Superiore, che poi provvede a nominare tra i propri
componenti il Comitato, il Governatore, il Direttore Generale e i due vice Direttori
Generali.

L'approvazione della nomina delle cariche monocratiche (come pure la loro revoca)
da parte del potere politico (come prevede l'art. 19, sesto comma, dello statuto),
lungi dal costituire una significativa ingerenza politica limitativa
dell'autonomia e della indipendenza della banca d'Italia (e quindi in palese
contraddizione con queste, che sono i pilastri su cui si regge l'istituto), appare
piuttosto rivestire, in concreto, tutti i caratteri di un mero visto di legittimità;
è vero che la legge fa riferimento all'istituto dell'approvazione ("le nomine e le
revoche debbono essere approvate"), e quindi ad una valutazione da parte
dell'autorità governativa della nomina (o della revoca), rivolta peraltro ad
influire non sulla validità quanto sulla sua efficacia; ma è anche vero che, sul piano
meramente fattuale, il controllo del Governo si limita ad accertare soltanto se la
nomina (o la revoca) sia aderente alla legge.

Deve poi aggiungersi che, oltre alla organizzazione interna, contribuisce in modo
decisivo a ritenere che la banca d'Italia sia di fatto ricalcata su una società per
azioni la posizione dei suoi "partecipanti", perché costoro, come appunto gli
azionisti di una società per azioni, hanno diritto non solo al rendiconto annuale
della gestione sulla base del bilancio (da sottoporsi all'approvazione
dell'assemblea), ma anche (e ciò costituisce un elemento di giudizio decisamente
risolutivo) alla partecipazione all'utile della gestione ed ai frutti derivanti
dall'investimento delle riserve.

Queste innegabili analogie di struttura organizzativa della banca Centrale e di
posizione giuridica dei suoi "partecipanti" consentono senza dubbio di negare,
malgrado l'esplicita dichiarazione della norma, la natura di ente pubblico della
Banca stessa, e di riconoscerle quella di società commerciale (per azioni), sia pure
sottoposta per determinati aspetti a principi particolari (per esempio con
riferimento alla titolarità delle quote ed al loro regime di circolazione). Una cosa
è certa: non può essere minimamente attribuita alla formula scelta dal legislatore
una rilevanza decisiva, anche perché in altri punti dello stesso decreto del 1936
questa stessa scelta si è rivelata erronea nei confronti di banche di interesse
nazionale, che furono qualificate banche di diritto pubblico, sebbene siano
unanimemente considerate come società private, anche se soggette a principi
particolari.

La considerazione che i fini istituzionali dell'ente in esame sono stabiliti con
legge e, come tali, sono obbligatori agli stessi partecipanti, e non da loro
modificabili per mezzo di una deliberazione assembleare, non può giustificare la
tesi che quell'ente sia dunque di diritto pubblico.

Il nostro ordinamento giuridico, infatti, riconosce ammissibile che una società
privata sia concessionaria di un pubblico servizio o sia investita di una pubblica
funzione; è proprio in tale quadro che si muove la banca d'Italia, la quale, oltre
all'attività propriamente bancaria (pur con delle limitazioni), esercita il
servizio di tesoreria per lo Stato, come concessionaria di pubblico servizio e di
emissione della carta-moneta, come investita di pubblica funzione.

In conclusione la banca Centrale deve essere riconosciuta come ente privato,
atteggiato strutturalmente come una società per azioni, cui è stata affidata in
esercizio esclusivo la funzione statale della emissione di carta moneta, e concesso
il pubblico servizio di tesoreria per lo Stato (oltre, come si è detto, all'attività
propriamente bancaria).

Questi fini di natura pubblica la banca d'Italia assolve in piena autonomia e
indipendenza, ritraendone gli utili e i frutti, che divide tra i "partecipanti" come
una società per azioni.



La proprietà della moneta all'atto della sua emissione - Risposta del Governo a due
interrogazioni parlamentari

Continuiamo il nostro discorso prendendo in considerazione la banca d'Italia solo
come ente privato, investito della pubblica funzione di emettere carta-moneta.

Dunque lo Stato ha rinunciato alla propria sovranità monetaria, trasferendola ad un
istituto privato: questo, perciò, in perfetta autonomia e indipendenza, esercita
una pubblica funzione di essenziale rilevanza per la vita della Nazione, essendo
noto che la politica monetaria (vale a dire l'emissione della moneta e la
regolamentazione della sua circolazione nonché del mercato monetario) condiziona
l'intero sistema economico di uno Stato ed influisce quindi anche sulla sua politica
generale, e particolarmente su quella sociale.

Ed abbiamo già accennato al fatto, davvero singolare, che dall'esercizio di questa
pubblica funzione la banca d'Italia ricavi degli utili che distribuisce ai
"partecipanti", così come avviene per gli azionisti nelle società private di cui
sono soci (v. art. 54, commi 6 e 7, e 56 dello Statuto, come sostituiti dal D. P. R.
19/04/1948, n. 482).

Questo significa che la Banca d'Italia, dalla pubblica funzione di emettere moneta,
della quale è stata investita dallo Stato, ricava degli utili che vanno a suo
beneficio, proprio come una società privata commerciale.

Ciò può avvenire perché l'istituto emette la moneta (biglietti di banca, che sono
privi di ogni garanzia) che crea, prestandola al sistema bancario ed economico della
Nazione e percependone quindi un interesse, il cui tasso esso stesso determina,
poiché come si è avuto modo di accennare, il Governatore, tra le altre facoltà, ha
quella di disporre "le variazioni alla ragione normale dello sconto e alla misura
dell'interesse sulle anticipazioni" (v. art. 25, comma 4°, dello Statuto, come
modificato dal D. P. R. 19/04/1948, n. 482; nonché art. 1 della già citata Legge 7
Febbraio 1992, n. 82)(1).

Ma la banca d'Italia può ritenere di essere proprietaria della moneta cartacea al
momento in cui, ponendola in circolazione, la presta al sistema economico
nazionale? La domanda appare del tutto doverosa, poiché sul punto la legislazione
tace completamente, e di conseguenza l'interprete non è in condizione di dare una
risposta che sia sostenuta da un preciso riscontro normativo. La risposta appare
dunque molto difficile, e di tale difficoltà si è avuta la prova in sede parlamentare
in due occasioni recenti:

a) nella seduta della Camera dei Deputati tenutasi il 17/03/1995, il deputato
Pasetto rivolse una interrogazione al Ministro del Tesoro per sapere se non
intendesse promuovere una riforma legislativa diretta a definire la moneta un bene
reale conferito, all'atto dell'emissione, a titolo originario di proprietà di
tutti i cittadini appartenenti alla collettività nazionale italiana, con
conseguente riforma dell'attuale sistema dell'emissione monetaria, che
trasforma la banca centrale da semplice ente gestore ad ente proprietario dei valori
monetari. Nel rispondere a tale interrogazione, il Sottosegretario di Stato per il
Tesoro, Carlo Pace, dopo aver premesso essere inesatto sostenere che la banca
centrale fosse proprietaria dei valori monetari, avendo per legge (solo) il compito
istituzionale di emettere moneta e quindi crearla e di immetterla in circolazione
"mediante il trasferimento ad altri soggetti, normalmente verso il corrispettivo
di titoli o valute estere, attraverso le operazioni a tal fine legislativamente
previste (quali, ad esempiò, quelle di risconto o di anticipazioni, disciplinate
dagli articoli 27 - 30 del Regio Decreto 28 Aprile 1910, n. 204, e successive
modificazioni)"; ciò premesso, affermò che "in sostanza, per tutta la durata della
circolazione, la moneta rappresenta un debito una passività dell'Istituto di
Emissione; e come tale è iscritta, nel suo Bilancio, fra le poste passive";

b) rispettivamente il 3 novembre 1994 e il successivo 1° dicembre, i senatori Natali e
Orlando (appartenenti il primo al gruppo di Alleanza Nazionale, ed il secondo al
gruppo di Rifondazione Comunista), interrogarono il Ministro per il Tesoro per
conoscere se non si ritenesse necessario l'intervento del Ministero, per la
doverosa tutela dei rilevantissimi interessi nazionali, nella causa civile
promossa dinanzi al Tribunale di Roma dal Professor Giacinto Auriti(2) nei
confronti della banca d'Italia, e diretta ad ottenere una sentenza di mero
accertamento, che dichiarasse "la moneta, all'atto della emissione, di proprietà
dei cittadini italiani ed illegittimo l'attuale sistema dell'emissione
monetaria, che trasforma la Banca Centrale da Ente gestore ad Ente proprietario dei
valori monetari".

Nella prima delle due interrogazioni il Senatore Natali pose in risalto che "la
declaratoria della proprietà della moneta costituisce pregiudiziale
indispensabile ed irrinunciabile per stabilire chi sia il creditore e chi il
debitore di tutti i valori monetari in circolazione e, quindi, il presupposto
necessario per la formulazione del Bilancio, per la programmazione di qualsiasi
legge finanziaria e per la valutazione della stessa consistenza patrimoniale dello
Stato italiano e dei conseguenti rapporti tra la collettività nazionale ed il
sistema bancario".

Alle due interrogazioni fornì risposta scritta il Sottosegretario di Stato per il
Tesoro, Vegas, il quale (sentita, questa volta nel merito, anche la banca d'Italia)
si adeguò alla precedente risposta del collega di Governo, ripetendo quale fosse il
compito istituzionale dell'Istituto di Emissione e ribadendo che questo non fosse
proprietario dei valori monetari e che per tutta la durata della circolazione la
moneta rappresentasse un debito, come tale iscritto nel bilancio dell'istituto fra
le poste passive.

Come ulteriore argomentazione il Sottosegretario Vegas ricordò come nella attuale
dottrina economica e nelle opinioni pubbliche degli Stati europei fosse avvertita e
radicata l'esigenza "di non concentrare nelle mani di uno stesso soggetto politico,
quale potrebbe essere l'autorità di governo, il potere di creare moneta e quello di
spenderla, onde impedire che la moneta diventi strumento di lotta politica"; e
ricordò che tale esigenza aveva trovato esplicito riconoscimento giuridico nel
Trattato di Maastricht, che "sancisce il principio cardine dell'autonomia delle
banche centrali dalle autorità governative statali, affidando in via esclusiva
alle prime le funzioni monetarie e lasciando invece alle seconde la cura della
politica fiscale e di bilancio".

    Critica

Le risposte dei due membri del governo alle interrogazioni parlamentari sono, come
si è accennato, sostanzialmente sovrapponibili. Quella del sottosegretario
Vegas, temporalmente posteriore all'altra, contiene inoltre un rapido accenno al
motivo che sconsiglia la concentrazione del potere di emettere moneta nel potere
politico, confortato in ciò dal parere, fornito nel merito, della banca d'Italia.

Riservando ogni ulteriore commento sul "di più" contenuto nella seconda risposta
del governo, si può subito affermare che entrambe le risposte si raccomandano per il
tasso di ambiguità da cui sono permeate. Infatti, in primo luogo, stupisce che tutte e
due le risposte (e la seconda con il vantato sostegno della banca Centrale), sul punto
relativo alla proprietà della moneta al momento della sua emissione, si rifugino in
una dichiarazione negativa, affermando che quella non spetta alla banca d'Italia:
affermazione questa, forse volutamente, elusiva, ma che, tuttavia, non può
sfuggire all'accusa di menzogna) per ciò che essa non può non sottintendere.

Posto infatti che la moneta (al momento della sua creazione ed emissione) non può non
avere, come tutti i beni mobili, un proprietario (a meno che non siano res nullius;
ipotesi impensabile per la "res" di cui si parla), deve trarsi necessariamente la
conclusione che, dunque, in quel preciso momento la moneta, se non è della banca
d'Italia, è di proprietà dello Stato. Ma ciò contrasta in modo irrimediabile con
quanto riconosciuto dagli stessi rappresentanti del Governo (e d'altronde
legislativamente previsto), secondo cui la banca d'Italia adempie la pubblica
funzione di emettere moneta prestandola come se ne fosse proprietaria e ricevendo
come corrispettivo titoli o valute estere mediante le operazioni di risconto o di
anticipazione (è doveroso far conoscere che nel luglio del 1981 il Ministro per il
Tesoro, Beniamino Andreatta, liberò la banca d'Italia, di cui era Governatore Carlo
Azeglio Ciampi, dall'obbligo di acquistare i titoli di Stato, concretando un
ulteriore cedimento del potere politico in favore di quello monetario).

Pertanto, accettando acriticamente le affermazioni dei due sottosegretari di
Stato, dovremmo ammettere una ben singolare situazione, vale a dire la percezione di
un utile monetario da parte di un Ente che non è proprietario della moneta che crea ed
immette in circolazione; tanto più che, per tutta la durata della circolazione, la
moneta rappresenterebbe un debito della banca d'Italia, una passività che la
abilita ad inserirla, nel proprio bilancio, tra le poste passive. Ne deriva che, caso
unico, la moneta sarebbe fruttifera nelle mani dell'istituto di Emissione, benché
questo non ne sia proprietario, ma anzi debitore.

Mentre, quindi, nei casi normali, il creditore percepisce interessi dalla moneta
che presta, ed è il debitore che paga questi interessi, nel caso in esame le posizioni
appaiono stranamente invertite, con un debitore che, anziché pagare, incassa gli
utili.

Peraltro i due rappresentanti governativi, oltre a tacere l'identità del
proprietario della moneta al momento della emissione (essendosi limitati come si è
già detto - ad affermare chi non lo è), nulla dicono nemmeno sulla identità del
creditore: se la moneta, durante la sua circolazione, costituisce un debito della
banca d'Italia, una sua passività, si sarebbe voluto conoscere, expressis verbis,
chi è (o chi dovrebbe essere) il creditore. Solo il ricorso alla logica dovrebbe
permettere di individuarlo nello Stato (cioè nel popolo), ma allora, per quanto si è
sopra esposto circa la strana posizione della banca centrale di ente creditore (ma
non proprietario) o di debitore (ma percettore di interessi), non può dubitarsi che
si debba dare ragione a chi sostiene che la moneta appartenga allo Stato (cioè al
popolo) e che, ciò nonostante, in modo truffaldino essa sia addebitata allo Stato
(cioè al popolo) invece di essergli accreditata.


(1) Ha scritto Massimo Fini: "Basti considerare che attualmente tutti i principali
fattori dell'economia 'reale'... dipendono dal tasso di sconto, cioè dal costo del
denaro. Quindi nemmeno più direttamente dal denaro in se stesso ma dal frutto della
sua gravidanza isterica: l'interesse" (in "Il denaro sterco del demonio", Marsilio
Ed., 1992, pag. 189). Ciò per dare soltanto l'idea al lettore dell'enorme potere che
ha il Governatore della banca d'Italia nel campo della economia nazionale e come la
sua "politica" possa incidere profondamente sulle tasche dei cittadini.
(2) Il professor Giacinto Auriti, già docente di diritto della navigazione, di
diritto internazionale, di diritto privato comparato e di teoria generale del
diritto presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Teramo, della quale
è stato anche preside, è fondatore della "Scuola di Teramo", che da anni, felice
eccezione nel mondo universitario italiano, si batte per una riforma della politica
monetaria.



    Le anomalie del bilancio di bankitalia

In secondo luogo, continuando l'esame delle risposte del governo alle menzionate
interrogazioni parlamentari, bisogna pur dire che i due sottosegretari
affermarono anche una cosa esatta, perché obiettivamente vera: che la banca
d'Italia, nei propri bilanci, inscrive tra le poste passive la moneta che immette in
circolazione.

Questo ritiene di poter fare in virtù di un mero gioco di parole, che si risolve in
definitiva in una presa in giro del popolo (ieri, sfruttando in modo truffaldino la
formula che ancora si trova scritta sulle banconote "Lire centomila, pagabili a
vista al portatore, firmato: Il Governatore", che non aveva più alcuna ragione di
essere, perché non significava nulla. Se infatti il cittadino avesse provato
presentarsi ad uno sportello qualsiasi della banca d'Italia, esibendo una
banconota contenente quella inutile promessa di pagamento e avesse chiesto di
essere "pagato a vista", probabilmente sarebbe stato preso per matto! Oggi,
occultando il tutto con l'eliminazione dall'Euro di questa importante scritta, un
"reset" che distrugge la memoria e "legalizza" la truffa!!!).

Infatti si trattava di un'obbligazione che l'istituto bancario si assumeva nel
passato (nel tempo, cioè, in cui vigeva la convertibilità del biglietto di banca, in
oro) di convertire appunto la carta moneta nel metallo prezioso che ne costituiva la
garanzia (base aurea).

Nei tempi dell'altro ieri, in cui quella convertibilità fu abolita e in cui veniva
imposto il corso forzoso della moneta cartacea, tale "promessa di pagamento a vista"
aveva già perso ogni contenuto e non avrebbe quindi mai potuto avere alcun valore.
Tuttavia la banca d'Italia riteneva ancora di potersene avvalere, confidando che la
mera apparenza di cambiali a vista, e quindi formalmente di debito, che ancora
conservavano i biglietti di banca in lire, le potevano legittimamente consentire di
considerare la moneta, immessa in circolazione, come propria passività, da
iscrivere in bilancio tra le poste passive. Ed è noto come l'aumento artificioso del
passivo, in un bilancio societario, determini un illecito annullamento
dell'attivo (ovviamente, facendo ricorso a quanto stabilisce l'art. 2424 del
codice civile, secondo il quale il bilancio delle società per azioni deve indicare
nel passivo, tra l'altro, anche "il capitale sociale al suo valore nominale..."
sarebbe giuridicamente infondato sostenere la legittimità dell'indicazione in
passivo della moneta al momento della emissione - ed a maggior ragione durante la sua
circolazione - in quanto nella massa di moneta creata e messa in circolazione dalla
banca centrale non può identificarsi il capitale sottoscritto e depositato dagli
azionisti ("partecipanti"), dei quali costituisce un credito e, quindi, per la
società un debito. Quella moneta, come si dirà più oltre, la stessa banca d'Italia la
definisce infatti "merce").

Quindi l'Istituto di Emissione immette in circolazione banconote che sono non solo
prive di alcuna copertura (neanche parziale) o garanzia, ma anche strutturate come
cambiali false, che da un lato offrono una parvenza di legalità alla loro iscrizione
nel passivo dell'azienda, ma dall'altro costituiscono un "debito inesigibile",
come affermano le stesse autorità monetarie, inventandosi una fattispecie
giuridica di cui facilmente si può misurare l'assurdità. A parte, infatti, che la
inesigibilità non può che riguardare il credito (perché è questo che, caso mai, non
può essere esatto), con la formula del "debito inesigibile" si fa decidere allo
stesso debitore di non pagare il debito!!!

Una cosa infatti è dire che "il credito" è inesigibile perché il debitore non può
pagare, altra cosa è invece dire che esso è inesigibile perché il debitore (la banca
centrale) per legge ha la garanzia di non dover pagare.

Riassumendo, delle due l'una: o la banca d'Italia non è proprietaria della moneta al
momento dell'emissione (come hanno affermato i rappresentanti del governo
rispondendo alle interrogazioni parlamentari) ed allora appare del tutto
ingiustificato che ne tragga un utile, tanto più che la banca stessa assume di essere
debitrice dei simboli monetari emessi, così da iscriverli come posta passiva nel
proprio bilancio; oppure la banca centrale, contrariamente a quanto dichiarato dai
due Sottosegretari di Stato, è proprietaria di quella moneta e con giustificazione
(solo apparente) ne ritrae un utile dal suo prestito al sistema economico nazionale,
ma allora assume i contorni di un fatto illecito far figurare come poste passive
operazioni che sono invece indubbiamente attive.



La tesi della banca d'Italia come scotomizzazione del sudore della fronte del
cittadino - L'importanza della scoperta del valore indotto del professore Giacinto
Auriti.

Nella sua concretezza, la verità risiede proprio nel secondo lato del dilemma: nel
senso che la banca d'Italia ritiene di essere proprietaria (e si comporta come tale)
della moneta che crea ed emette. E sostiene ciò l'Istituto stesso, proprio nel
giudizio civile promosso dal professor Auriti (di cui si è fatto cenno): infatti
nella comparsa di costituzione e risposta, datata 20/09/1994, si legge: "alla
stregua della puntuale disciplina della funzione di emissione, i biglietti appena
prodotti dall'officina di fabbricazione biglietti della banca d'Italia
costituisco una semplice merce di proprietà della banca centrale che ne cura
direttamente la stampa e ne assume le relative spese spese"... "Essi acquistano la
loro funzione e il valore di moneta solo nel momento logicamente e cronologicamente
successivo, in cui la banca d'Italia li immette nel mercato trasferendone la
relativa proprietà ai percettori". E più oltre: "Tale immissione... avviene
tramite operazioni che l'Istituto di Emissione, in piena autonomia, conclude con il
Tesoro, con il sistema bancario, con l'estero e con i mercati monetario e
finanziario; operazioni tutte previste e completamente disciplinate dalla legge e
dallo Statuto della Banca d'Italia".

Va detto subito che, come si è già accennato, tra queste operazioni si annoverano
quelle di risconto e di anticipazione contro pegno, che presuppongono
indiscutibilmente il prestito della moneta e di conseguenza l'obbligo del
mutuatario al rimborso ed al pagamento di un interesse. Valga, a titolo dì esempio,
quanto dispone l'art. 50 dello Statuto della Banca d'Italia, che recita al primo
comma: "Chi riceve l'anticipazione assume l'obbligo del rimborso entro il termine
indicato nella polizza. Deve esservi sempre una differenza in più non inferiore al
quindici per cento, fra il valore della cosa in pegno e l'ammontare
dell'anticipazione".

Questo vuol dire che l'Istituto di Emissione, come corrispettivo
dell'anticipazione di moneta creata senza alcuna base di garanzia, e soprattutto
priva di alcun valore (che, come ha ammesso la stessa Banca, si incorpora nella
banconota solo con la circolazione), pretende oltre al rimborso, la dazione in pegno
di titoli, in genere di Stato (e quindi garantiti dai cittadini), o di merci (che hanno
una quotazione basata sui prezzi di mercato) di valore almeno del quindici per centro
superiore all'ammontare dell'anticipazione. Basta poi leggere gli altri due commi
della stessa norma statutaria per comprendere come sia rigida la disciplina
legislativa a difesa del profitto della Banca Centrale(1).

Deve dunque dirsi che è volutamente ambiguo l'Istituto di Emissione quando parla di
trasferimento della proprietà delle banconote ai cosiddetti "percettori", senza
chiarire doverosamente che si tratta solo di prestiti indubbiamente usurari, dato
il rilevante tasso di interesse (si consideri fra l'altro che è proprio il concetto di
"usura" che ha generato l'idea che la moneta è utile solo se produce altra moneta, e che
Henry Ford, a tal proposito, affermò che "la moneta non ha la funzione di produrre
moneta ma di movimentare i beni").

A tutto ciò, peraltro, lo stesso Istituto accenna, sia pure sotto altro aspetto,
quando nella stessa comparsa dichiara: "La Banca d'Italia cede la proprietà dei
biglietti, i quali, in tale momento, come circolante, vengono appostati al passivo
nelle scritture contabili dell'istituto di Emissione, acquistando in
contropartita, o ricevendo in pegno, altri beni o valori mobiliari (titoli, valute,
ecc.) che vengono, invece, appostati all'attivo".

Dunque è vero: la banca centrale iscrive al passivo del proprio bilancio i biglietti
che crea ed emette (peraltro di bassissimo costo, come può essere quello
tipografico), nonostante che l'emissione di banconote non rappresenti, neanche
contabilmente, una perdita; infatti la moneta è soltanto un "metro", è la misura del
valore delle cose, e come tale ha solo valore convenzionale e mai creditizio. E' come
se un ingegnere (naturalmente questo è un paradosso), nel fare un bilancio dei lavori
di costruzione di una strada, ponesse tra le poste passive i chilometri che sono stati
necessari per costruire la strada, che sono anch'essi un "metro", vale a dire la
misura della lunghezza della strada! Così la banconota non ha un valore intrinseco,
ma serve solo come strumento necessario per misurare il valore dei beni.

Poniamo il caso di un falsario, che dia in prestito il risultato della propria
illecita attività, che a lui non costa nulla se non le spese di fabbricazione: nel fare
il bilancio finale dell'operazione, iscriverebbe forse come posta passiva la somma
falsificata e prestata, e come posta attiva la somma restituitagli (perfettamente
legale), oltre agli interessi? No, perché così facendo, altererebbe il bilancio, in
quanto la somma falsificata che egli da' in prestito non costituisce una perdita,
così come peraltro non rappresenta un guadagno (essa non ha infatti alcun valore);
inserendola nel passivo, il falsario non farebbe altro che occultare
fraudolentemente una parte dell'attivo.

Tanto per continuare nell'esempio, se il falsario desse in prestito la somma
falsificata di un miliardo di lire al tasso d'interesse del quindici per cento, e alla
scadenza convenuta avesse in restituzione la somma di lire (autentiche) un miliardo
e centocinquanta milioni, il suo attivo sarebbe costituito da quest'ultima somma
per intero, ed il passivo dalle spese sostenute per la fabbricazione della moneta
falsa; non si può dire, insomma, che egli guadagni dall'operazione soltanto
centocinquanta milioni di lire (cioè gli interessi). Egli guadagnerebbe in verità
un miliardo e centocinquanta milioni, meno le spese di fabbricazione. Se nelle
scuole elementari si impostassero i problemi di aritmetica con esempi di questo
genere, anche i bambini lo capirebbero!!!

Mutatis mutandis, lo stesso concetto dovrebbe informare, in via naturalmente molto
semplificata, il bilancio della banca d'Italia: certamente qui non si tratta di
moneta falsificata (con tutta evidenza per la contraddizione che non lo consente),
ma, come si è detto, di moneta, che all'atto di emissione non può avere ancora alcun
valore né di credito né di debito, perché destinata, solamente durante ed a causa
della circolazione, a misurare il valore dei beni e ad acquistare il connotato di
misura del valore. Perciò la banca centrale non è legittimata ad iscrivere la moneta,
che immette nella circolazione, come posta passiva del suo bilancio (se non
limitatamente alle spese relative alla sua fabbricazione), con la conseguenza che
il suo attivo (per questo genere di operazione) è costituito non solo dagli utili che
le provengono dai beni e dai valori mobiliari ricevuti in pegno come corrispettivo
delle anticipazioni e dei risconti, ma anche dal rimborso della moneta che,
mettendola in circolazione, aveva prestato, e che al momento della sua emissione non
aveva alcun valore. L'acquisizione del valore dei soldi non avviene infatti al
momento dell'emissione cartacea o di conio, bensì per effetto della circolazione e
del valore indotto nella moneta. In altre parole, avviene per effetto del sudore
della fronte del cittadino. Qui sta l'importanza della scoperta del valore indotto
del professore Giacinto Auriti. Da questo punto di vista, la tesi della banca
d'Italia, nella misura in cui scotomizza l'importanza del valore indotto,
scotomizza di fatto l'importanza del sudore della fronte del cittadino.

C'è un'altra considerazione che conviene fare: i biglietti di banca che l'Istituto
di Emissione, in ipotesi, fabbricasse e non mettesse in circolazione,
conservandoli nei propri depositi, costituirebbero senza dubbio anch'essi "merce
di proprietà della banca centrale" (per usare la stessa terminologia letta
nell'atto giudiziale sopra ricordato); sarebbero in tal caso da considerare
attività o passività dell'istituto? Certamente né l'una né l'altra delle due,
trattandosi di "merce" di nessun valore (se non come rappresentativo eventualmente
del costo per la loro fabbricazione). Perciò non si riesce a comprendere come,
all'atto della immissione in circolazione di tale "merce" senza valore, questa
possa per ciò solo, acquistare valore, per di più negativo, tanto da essere
considerata come una passività (e ad ogni buon conto, se proprio fosse necessario -
non si sa per quale misteriosa esigenza - inserire nella contabilità della banca
d'Italia il volume di moneta immessa in circolazione, cioè "la merce", è certo che il
suo posto non dovrebbe in nessun caso essere quello riservato alle passività!!!).
Per comprendere questo mistero si deve necessariamente far ricorso alla finzione
della "cambiale apparente", di cui si è già rilevato il carattere truffaldino.

Sennonché questi "errori" di contabilità costituiscono in definitiva solo un
aspetto secondario dell'intera questione monetaria, la quale si impernia
essenzialmente sul fatto, veramente gravissimo, che l'istituto di Emissione,
nell'esercizio della pubblica funzione di cui è stato investito dallo Stato,
anziché accreditare a quest'ultimo (e quindi al sistema economico nazionale e, in
ultima analisi, al popolo) la moneta che emette, gliela addebita mediante
operazioni di prestito, lautamente remunerative. Così facendo, la banca centrale
alimenta il debito pubblico e rende ingiustificabile l'abdicazione del potere
politico di fronte a quello finanziario.


(1) Art. 50, secondo comma: "Ogni qualvolta il prezzo corrente dei titoli o delle
merci subisca una diminuzione che riduca della metà la differenza risultante fra il
valore dei titoli o delle merci e l'ammontare del credito aperto, il depositante
deve, in ragione dell'avvenuto ribasso di prezzo, o reintegrare il pegno o
restituire una parte proporzionale dell'importo dell'anticipazione. Qualora
peraltro vi sia differenza sufficiente in confronto dell'ammontare
dell'anticipazione, la reintegrazione avrà luogo mediante corrispondente
riduzione del credito aperto". Art. 50, terzo comma: "Quando, avvenuto il
deprezzamento di cui al comma precedente, il debitore non ottemperi a quanto ivi
provveduto, la Banca, previa diffida a mezzo di ufficiale giudiziario, notificata
al domicilio dichiarato o eletto nella polizza, può, trascorsi cinque giorni dalla
data della diffida, procedere senz'altra formalità alla vendita totale o parziale
dei titoli o delle merci depositate". (Quest'ultimo comma è stato aggiunto dal D. P.
R. 19 Aprile 1948, n. 482).



    Smascheramento del potere occulto di Bankitalia
[Smascheramento del potere (non autonomo e indipendente ma) incontrollabile di
Bankitalia]

Nella già ricordata comparsa depositata dalla banca d'Italia nel giudizio civile
instaurato dal professor Giacinto Auriti è stato anche affermato che "le decisioni
riguardanti la quantità dei biglietti da immettere nel mercato ed i tempi
dell'immissione, competono alla sola Banca Centrale, in quanto strumentali
all'esercizio delle funzioni di controllo della liquidità del sistema e di
salvaguardia del valore del metro monetario, affidatele nell'ordinamento
italiano"... "e ora trovanti fondamento, anche a livello comunitario, nell'art.
105 del Trattato di Maastricht sull'Unione Monetaria Europea".

Sostanzialmente è quanto aveva dichiarato il Sottosegretario di Stato Vegas
rispondendo ai senatori interroganti, anche al fine di dimostrare come le dottrine
economiche dominanti ritenessero inammissibile la concentrazione nell'autorità
politica anche del potere monetario.

Ora sul punto desta veramente impressione il contenuto di un articolo apparso su La
Repubblica del 1° giugno 1994, dal titolo già di per sé altamente significativo: "La
religione di Bankitalia". Questo articolo, scritto con accenti che sembrano
davvero ispirati al più cieco fanatismo, dopo aver affermato che "la continuità
storica dello Stato italiano resta affidata alla banca d'Italia assai più che alle
altre Istituzioni", rileva che "la religione della moneta" deve rimanere integra
nella sua ortodossia "al servizio di una divinità altamente simbolica - quel
biglietto di banca firmato dal Governatore, che personifica il potere d'acquisto
del cittadino - ma altresì una divinità che, se fedelmente servita, è dispensatrice
di beni, mentre, quando viene tradita, si fa implacabilmente vendicativa"; e più
oltre che "i Governatori sono i sacerdoti addetti al suo culto", i quali "se non
fossero pienamente indipendenti e soggiacessero a poteri esterni la loro qualità
liturgica verrebbe meno"(1).

Dunque la dottrina di Montesquieu non è più attuale, perché accanto al potere
legislativo, al potere esecutivo ed al potere giudiziario, nei quali fu frantumato
il potere assoluto dei sovrani dopo la rivoluzione francese, ce n'è un quarto, quello
monetario: ma mentre, a ben guardare all'interno dei principi, il potere esecutivo
ed il potere giudiziario sono in una posizione di ineliminabile subordinazione
(almeno concettuale) rispetto al potere legislativo, perché entrambi
assoggettabili, nella loro concreta manifestazione, alla legge, e quindi a chi ha il
potere di emanarla (basti pensare alle limitazioni che può subire il potere
giudiziario in conseguenza di nuove leggi processuali o di provvedimenti di
clemenza; o il potere esecutivo in conseguenza di leggi diversamente disciplinanti
il funzionamento degli organi della pubblica amministrazione), tanto che è
giustificato il dubbio che l'uno e l'altro possano considerarsi veri poteri(2);
quello monetario, invece, non solo dev'essere autonomo e indipendente, ma
addirittura aspira ad occupare e a mantenere un ruolo di tutore dello Stato in materia
di politica monetaria, tanto da assumere, assecondando la mistica dell'articolo de
La Repubblica, persino la dignità e l'intoccabilità di una religione, con i suoi
misteriosi riti ed i suoi onnipotenti sacerdoti.

Peraltro tra questi ultimi non può di certo annoverarsi il Governatore, come troppo
riduttivamente è scritto in quell'articolo, in quanto il Governatore di questa
religione pagana è piuttosto il pontefice massimo, non fosse altro che per la durata
della sua carica che non soffre di alcun limite temporale(3).

Inoltre può legittimamente dubitarsi che questo quarto potere abbia le carte in
regola con la Costituzione della Repubblica Italiana, o almeno con il suo spirito
informatore(4): la nostra Costituzione non brilla certo per sinteticità, poiché,
anzi, dopo aver trattato dettagliatamente nella prima parte della posizione del
cittadino, inteso come individualità e poi anche nei suoi rapporti con la società
nelle sue diverse manifestazioni, nella seconda parte si diffonde nel disciplinare
la società politica in tutte le sue espressioni (Parlamento, Presidente della
Repubblica, Governo e Magistratura), ricalcando proprio la classica
tripartizione del Montesquieu, ed omettendo qualsiasi accenno, anche solo
indiretto, al problema della moneta ed agli enti che ne dovrebbero regolare la
politica nell'ambito del sistema economico dello Stato.

Né questa omissione potrebbe in ipotesi trovare una giustificazione nella
considerazione che il problema della moneta e del suo governo sia sorto in epoca
successiva alla entrata in vigore della Costituzione, perché è vero proprio il
contrario, e cioè che tutte le leggi principali e gli statuti sulla materia sono di
data precedente al l° gennaio 1948, e che quindi i nostri costituenti avevano davanti
il modello della banca d'Italia, quale era stato già delineato da quelle leggi.

Quale significato può, pe