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La tragedia alla ThyssenKrupp e la perduta “sacralità” del sociale

di Carlo Gambescia - 11/12/2007

 

La tragedia avvenuta all’interno dello stabilimento torinese della ThyssenKrupp ci riporta indietro nel tempo. Per la sua dinamica rinvia agli albori della Rivoluzione industriale: scarsa o nulla sicurezza e orario di lavoro massacrante. Fortunatamente a Torino non vi erano minori e donne alle macchine. Ma il quadro, quello di morire carbonizzati, rimanda direttamente alle "diaboliche buie officine" della prima metà dell’Ottocento inglese. Dove la merce-lavoro contava meno che nulla.
Ora, crediamo, che la responsabilità politica di quel che è accaduto vada “equamente” divisa tra una classe politica, soprattutto a sinistra, più attenta alle esigenze produttive che ai problemi della sicurezza e un sindacato fin troppo arrendevole sulla tutela effettiva del lavoro. Quanto alla destra e agli imprenditori, il neoliberismo fa parte del loro Dna.
Sarà perciò difficile aspettarsi, almeno per ora, politiche sociali adeguate. Purtroppo.
Ma quel che più preoccupa è che oggi, al di là della retorica d’occasione di politici, imprenditori e sindacalisti, sia venuto meno quel senso di sacralità del sociale, come realtà capace di suscitare religioso rispetto. Così faticosamente sviluppatosi nel secondo dopoguerra, attraverso le legislazione welfarista e sul lavoro. E qui basti pensare al carattere fortemente sociale e sacrale attribuito al lavoro nella Costituzione Italiana, quale mezzo di liberazione dallo sfruttamento economicista del capitale.
La tragedia di Torino è perciò figlia di una visione "secolare" ed economicista del sociale, dove il profitto economico è tutto e l’uomo persona sociale e morale nulla. Pertanto anche un pur auspicabile aumento dei controlli da parte dell’Ispettorato del Lavoro, potrà in futuro magari limitare gli incidenti, ma non favorire il mutamento di quella mentalità volgarmente produttivista che oggi distingue i diversi attori sociali, incluso il sindacato.
Infatti, se per un verso si procede a precarizzare, con il consenso del sindacato, la posizione sociale del lavoratore, tagliando il welfare e modificando il diritto del lavoro, per l’altro si spinge il lavoratore ad accettare, magari sottobanco, le condizioni più umilianti di lavoro. Come appunto sembra sia avvenuto a Torino.
Ora, in un quadro dove siano gli stessi operai, obtorto collo, ad accettare di lavorare in condizioni disagiate, anche i controlli più efficaci rischiano di essere giudicati dagli stessi lavoratori, come nemici della conservazione di un posto di lavoro, che per quanto sgradevole e sottopagato resta pur sempre una condizione preferibile alla disoccupazione. Soprattutto in un sistema, dove l'uomo è nulla e l'economia tutto.
Ed è su questo fatto che il sindacato dovrebbe pronunciarsi in sede nazionale, rivendicando, la sacralità sociale del lavoratore e del lavoro, e non la sua "secolare" funzionalità economica a un sistema che debba comunque accrescere a ogni costo la sua produttività, attraverso, appunto, la minaccia della precarizzazione economicista. O per essere chiari: della perdita del posto di lavoro.
Il nemico da battere è la crescente precarizzazione. Che ricostituisce la figura antisociale di un lavoratore disposto a tutto pur di sopravvivere. Anche a rinunciare, spesso perché costretto dalla propria condizione di anello debole di una nuova catena dello sfruttamento, alla propria sacralità di persona sociale. Complice, ovviamente, un sindacato (o comunque nelle sue componenti dominanti) attento solo alla produttività… Come impone certo "secolarismo" economicista e mercatista.
In questo senso il cerchio sembra chiudersi. E il sistema capitalistico ritornare alla origini. Mentre sarebbe necessario, nel senso qui attribuito, "risacralizzare" il sociale e quindi il lavoratore e il lavoro.
Ma come?