Il manifesto della Regione Toscana 

Recentemente un manifesto della Regione Toscana, in collaborazione con il Ministero delle Pari Opportunità italiano, ha esposto un cartellone pubblicitario che mostrava un neonato con una targhetta al polso che portava la scritta: “omosessuale”, accompagnata dallo slogan: “L’orientamento sessuale non è una scelta”. Non si sono fatte attendere reazioni di sdegno, soprattutto in ambito omosessuale, dove è stata denunciata la scelta di “affibbiare” etichette per combatterne altre.
Ne abbiamo preso spunto per toccare la questione con il prof. Claudio Risé, psicoterapeuta e autore della prefazione al libro di Joseph Nicolosi: “Oltre l’omosessualità. Ascolto terapeutico e trasformazione” (San Paolo edizioni, 2007).
«Non mi sento di sostenere che la posizione omosessuale sia per forza di cose patologica o deviata. È’ una posizione che porta con sé una notevole dose di guai, ma anche quella eterosessuale non mette certo al riparo dai problemi», precisa al primo colpo lo psicoterapeuta al GdP.
«Una stupidissima campagna che fa dell’omosessualità un fatto genetico, quando non lo è, regala però a un neonato un’etichetta che non è la sua. Non perché sia infamante, ma perché un neonato avrà diritto, crescendo, di esprimere il suo orientamento sessuale senza che la Regione Toscana gliene regali uno dalla culla».

Infatti è un abuso che va di moda tra le Istituzioni pubbliche.
Il manifesto, come tutte le scelte di questo tipo, è grave perché mette in circolo una cosa falsa: che l’omosessualità sia genetica. Dà l’idea che sia qualcosa di accertato dalla nascita e questo è assolutamente falso perché, nonostante siano state investite enormi risorse della ricerca scientifica per dimostrare il fondamento genetico dell’omosessualità, questa origine non è stata affatto trovata. Istituzioni pubbliche che veicolano notizie false in merito alla condizione di interi gruppi sociali, fanno un’operazione distruttiva perché creano immagini erronee, non fondate sui fatti, ma su valutazioni ideologiche.

Ma allora l’orientamento sessuale è una scelta?
La fase omosessuale o la presenza di pulsioni omosessuali sono particolarmente caratteristiche nell’adolescenza, in cui l’individuo cerca il proprio orientamento sessuale. Non ci si può identificare con un genere solo perché vi si appartiene biologicamente, lo si deve sperimentare sul piano relazionale. Da qui l’interesse cognitivo, estetico, affettivo per il proprio sesso. Un passaggio molto importante nel processo di identificazione che porta all’assunzione del proprio genere sessuale, e quindi ad un autentico interesse per l’altro sesso. L’adolescente o preadolescente attraversa anche fisicamente la presenza nel proprio corpo di aspetti dell’altro sesso: ad esempio nel maschio si sviluppano le ghiandole mammarie, la femmina ha fenomeni piliferi. Messaggi pubblici come il manifesto inducono nell’adolescente questo pensiero: “non preoccuparti se hai un interesse verso le persone dello stesso sesso, questo vuol dire semplicemente che tu sei omosessuale, e che lo sei dalla nascita e questa è la tua condizione. Lì sei e là rimani”. Ciò è falso perché non è detto che sia la sua condizione stabile, e non un passaggio.

Dal punto di vista psicologico, del suo campo medico quindi, come si colloca l’affettività eterosessuale e omosessuale?
Queste due definizioni sono estremamente povere: nascono entrambe nella seconda metà dell’800, dai tentativi nelle varie teorie positiviste di fissare l’uomo dentro una tipologia psicofisica precisa. In realtà l’uomo ha una sua ricchezza affettiva che è fatta di forti slanci e interessi per l’altro ed anche verso il proprio sesso. Queste due definizioni quindi sono gravemente approssimative dal punto di vista psicologico, perché l’affettività umana non è riducibile ad esse. Un eterosessuale che non prova amore per le persone del suo stesso sesso è una persona malata. Cristo stesso dice “ti amo” agli apostoli. Usare questi due termini come scatole per ridurre l’affettività umana è davvero molto pericoloso. Ci sono tante forme di umanità e non possiamo mettere un’etichetta a tutto!

Bene, quindi è solo un problema di “etichette”…?
E di giudizio. In questa posizione giudicante c’è il problema, tipico della modernità, di identificare l’amore con la sessualità. Invece, in moltissime situazioni sia etero che omo, c’è amore, ma non c’è sessualità, diversamente dalla presentazione “iper-sessualizzata” che mostrano i media o i vari gruppi. Tra molte persone dello stesso sesso c’è amore ma non c’è sessualità, molti stanno insieme e si aiutano e non per forza fanno sesso. La vita umana è molto più ricca di quanto la presentino i politici, i media e persino alcuni preti: questi ultimi dovrebbero pur saperlo, perché spesso vivono insieme, fanno una vita di comunità. La stessa esigenza la vivono altre persone, non necessariamente consacrate. È un problema di termini. Che significato diamo all’amore, chi dice che l’amore va identificato con la sessualità?

Quindi ogni essere umano è libero di “scegliere” l’orientamento sessuale che più preferisce in base ai desideri del momento?
No, bisogna vedere qual è la maturità affettiva di un persona. Se dire “ti amo” a un’altra persona ti fa mettere nella categoria “omosessuale”, vuol dire che qualcuno non capisce cosa è l’amore e che vuole inscatolarti esattamente come fa il manifesto della Regione Toscana. Mi ricordo di un episodio accaduto un po’ di tempo fa in una chiesa: finita la cerimonia di ordinazione al diaconato, un giovane diacono ha detto «ti amo» all’altro amico diacono, felice per il sacramento ricevuto e i fedeli si sono scandalizzati. Il vescovo e il parroco hanno preso le difese dei diaconi ricordando che dire “ti amo” a un’altra persona è lo scopo del messaggio cristiano. Non possiamo ragionare a “scatole”: gli omosessuali vorrebbero allargare la loro a tutto il mondo e gli eterosessuali vorrebbero metterli nella scatola dei “patologici, malati”. Pensano entrambi che l’amore sia solo questo. Ripeto e ci tengo a sottolinearlo che è un problema che scava nelle parole, in questo caso “omo e eterosessuale”, per le quali si ritiene che l’affettività umana debba rientrare in un certo tipo di comportamenti rigidamente predefiniti.

Se l’omosessuale non è un malato, allora perché esistono delle case di cura ed è in aumento la richiesta di psicoanalisi per essere liberati da questa condizione?
Oltre l'omosessualità. Ascolto terapeutico e trasformazioneLa questione della malattia è impropria dal punto di vista psicologico. Ci sono delle persone che vivono la condizione omosessuale come tranquilla o con un livello di difficoltà simile a tanti altri nella vita. Chi invece la vive con profondo disagio, come è anche previsto dal manuale psichiatrico americano di riferimento universale DSM 4 (di cui invece si dice che ha tolto l’omosessualità dalle patologie), ha diritto a ricevere cure, come tutti quelli che si riconoscono come portatori di una sofferenza.
Quando un comportamento sessuale è vissuto come un male rispetto al riconoscimento dell’io che ne preferirebbe un altro, allora richiede di essere preso in cura da uno psicoterapeuta. Il paziente chiede di essere curato, e il terapeuta deve rispondere.

E chi non sente nessun tipo di disagio?
Una posizione di questo genere non è per forza, come le altre posizioni sessuali, una scelta definitiva. C’è chi fa una scelta eterosessuale e trasgredisce, o viceversa. Quello che a me interessa, come psicoterapeuta, è che l’individuo venga seguito se sta male, e non venga appiattito in posizioni necessariamente “gay friendly”, o, al contrario, omofobiche.
Una persona non deve essere fissata da interventi pubblici nella condizione omosessuale, perché spesso è solo una fase del processo di identificazione sessuale tipico dell’adolescenza. Questa fase della vita poi, oggi, dura molti anni.
Inoltre, la persona umana si trasforma continuamente, dalla nascita alla morte, da ogni punto di vista. La caratteristica dell’uomo è quella di un continuo cambiamento, fisico e psichico. Ogni posizione che interferisce con questa caratteristica dinamica della personalità, chiedendo invece una fissità è pericolosa, perché tende a bloccare uno sviluppo che interessa tutta la vita.

Un ruolo fondamentale nell’identificazione sessuale lo gioca la famiglia. Quali sono le cause che possono disturbarlo o comprometterlo?
Il processo di identificazione è fisiologico e necessario per consentire un buon sviluppo complessivo della persona umana che per crescere ha bisogno di immagini positive del proprio sesso.
Nella famiglia, il figlio o la figlia devono trovare nel padre o nella madre dei personaggi sufficientemente positivi (che non mostrino comportamenti ossessivi e invasivi), per essere presi come modelli affinché il ragazzo o la ragazza possano dire: “io voglio diventare come quella persona lì”.
Oggi siamo di fronte a gravi problemi in questo senso: sono molte le condizioni che rendono difficoltosa questa identificazione. Tra figlio e padre poi diventa più difficile perché il padre è spesso assente, espulso dal nucleo familiare da una separazione-divorzio, o si ritira lui stesso dalle responsabilità.

E le coppie dello stesso sesso? Cosa costituiscono?
Una coppia, cos’altro? Anche due persone che si mettono insieme e non intendono avere figli sono una coppia. Ma non sono una famiglia, la cui caratteristica è la riproduzione umana. Esistono tante forme di compagnia: due persone che decidono di vivere insieme per pregare cosa sono? Ripeto, ci sono tante forme di umanità e non possiamo mettere un’etichetta a tutto!

C’è chi insiste perché si equiparino le coppie gay alla famiglia…
Antropologicamente e storicamente, la famiglia è formata da due persone di sesso opposto che danno vita ad una progenitura o che intendono farlo. Il ragionamento per cui una coppia sia una famiglia, è rozzo e impreciso.
In tutte le culture troviamo coppie che non sono famiglie. La nostra è una società conformista e ignorante, che non vuole riconoscere la ricchezza di queste differenze nelle posizioni umane.
Quello che mi innervosisce di questo dibattito è l’estrema povertà cognitiva: stiamo parlando dell’organizzazione umana quindi andiamo a vedere come si è precisata nella storia e nei vari contesti culturali, storici, geografici. La famiglia richiede certe prerogative che non vanno confuse con la coppia. E quest’ultima, diversa dalla famiglia, non può però essere fulminata perché esiste.

Cosa pensa delle manifestazioni dell’“orgoglio omosessuale”?
I “gay-pride” sono operazioni di imperialismo culturale, volte a far credere che la realtà di chi non si mette dentro una scelta familiare sia quella omosessuale. Una strumentalizzazione di potere indebita nella quale bisogna cercare di non cadere. Però cerchiamo di non buttare via tutta la ricchezza del mondo relazionale perché c’è il “gay-pride”, o la campagna della Regione Toscana.
Ricordo un salmo che dice: «Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!». Questa è una cosa che dobbiamo difendere.
L’amicizia cristiana, l’amore cristiano, libero da etichette, che va oltre l’istintività sessuale ma guarda la persona, l’amico, l’altro, chi gli sta accanto.

(Intervista a Claudio Risé, a cura di Gioia Palmieri, dal “Giornale del Popolo”, www.gdp.ch)