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Il libro della settimana: Supercapitalism: The Transformation of Business, Democracy, and Life

di Carlo Gambescia - 13/12/2007

Il libro della settimana: Supercapitalism: The Transformation of Business, Democracy, and Everyday Life, A. Knopf, Mew York 2007, pp. 272, 25 $.

Lo storico Christopher Lasch non s’era sbagliato. Già all’inizio degli anni Novanta dell’altro secolo aveva infatti liquidato Robert Reich, all’epoca Ministro del Lavoro di Bill Clinton, come esponente tipico di certe élite, dedite più a monetizzare la propria creatività che a servire la democrazia.
Lasch, uomo dal carattere tremendo ma sincero individualista democratico all’antica (del tipo “un uomo, un cavallo, un fucile” ), se la prendeva in particolare con la visione sociale di Reich, in quegli anni sulla cresta dell’onda, grazie al bestseller The Work of Nations (1992). Una concezione, quella di Reich, che auspicava la partizione della futura società capitalistica in creativi da un parte, e tutti gli altri dall’altra… Il futuro, doveva essere degli imprenditori, intellettuali, artisti, pubblicitari, attori e cantanti. Secondo lo scontroso Lasch, Reich, rivelava di essere dalla parte di una pseudo-aristocrazia, lontana anni luce dal popolo, tesa ad arricchirsi e a “fabbricare” un immaginario, capace di tenere buona la gente, ubriacandola di film, hot dog e pettegolezzi divistici. Insomma, un vero e proprio, “tradimento della democrazia” come recitava il sottotitolo di un suo bellissimo libro: La ribellione delle élite (Feltrinelli 1995).
Lasch purtroppo scomparve nel 1994, vittima di un male incurabile. E, come dire, si è perso le puntate successive della telenovelas-Reich. Il quale “forte” di una preparazioni molto americana (un po’ giurista, un po’ economista, un po’ tuttologo…) ha sfornato altri libri tutti più o meno dedicati al futuro del capitalismo-secondo-il Reich-Pensiero… Ultimo, ma non ancora uscito in Italia, anche se già se ne parla: Supercapitalism: The Transformation of Business, Democracy, and Everyday Life (A. Knopf, New York 2007, pp. 272, 25 $).
Per ragioni di spazio, non è questa la sede per dedicargli una recensione accurata, ma ovviamente nello spirito guerriero di Lasch. Al lettore basti però conoscere quella che è la sua tesi fondamentale: il capitalismo, anzi il supercapitalismo attuale ha bisogno solo di espandersi senza limiti. Dal momento che il mercato capitalistico avrebbe in sé le forze per autoregolamentarsi moralmente. Per dirla brutalmente: la morale sorgerebbe dai quattrini: più si diventa ricchi, grazie ai buoni affari, più si è morali: perché solo chi è morale viene baciato dal successo. La morale di Reich, per usare un parolone, è tautologica: si avvita su se stessa…
Ma quali sono i “buoni affari”? E chi stabilisce che cosa è buono o cattivo? Il lettore capisce da sé quanto sia difficile, sempre che non ci si chiami Reich, far nascere una morale dallo scambio, spesso sotto il tavolo e rivolto al puro profitto. In particolare quando si rifiuta di collocare il mercato nel quadro preesistente di un sistema di norme e di relazioni fiduciarie. E soprattutto nel contesto di un potere politico, capace di indirizzare e controllare, senza ovviamente snaturare la natura privata delle imprese.
Esiste un mercato della pornografia, della prostituzione e dei commerci più sordidi; tutti rispondenti alle leggi della domanda e dell’offerta… Sono anch’essi leciti? A quali regole morali rispondono? Sono tutti interrogativi che potrebbero essere estesi alla produzione di armi nocive all’umanità o di beni altamente inquinanti. Oppure alla gestione di prodotti borsistici puramente speculativi, eccetera. Invece il mercato va sempre inteso come al centro di regole giuridiche e morali, se non religiose. Fissate dall’esterno. E rispettate grazie all’occhio super partes dello Stato. O comunque da un’autorità politica.
E poi per dirla tutta: perché non leggere invece di Reich, un classico come Max Weber, il quale non era tuttologo ma sociologo, e tra i massimi? Weber ha insegnato come la forza di certo capitalismo delle origini risiedesse nel senso del dovere, quasi religioso, verso il bene della comunità. Il “fare quattrini” non doveva essere un fine ma un mezzo per favorire la crescita della comunità nel suo insieme. E invece Reich, nel suo libro, addirittura contesta i cosiddetti filantropi sociali: i ricchi che donano ai poveri… A suo avviso l’assistenza dovrebbe essere fornita Stato. Ma con quali mezzi visto che, sempre a suo giudizio, i poteri pubblici non devono intervenire nell’economia?
Incongruenze da “tuttologi” d’oltreoceano. Che per usare un’espressione, oggi politicamente scorretta, sognano la botte piena e la moglie ubriaca…
In realtà, la lezione di certo capitalismo puritano, attento ai valori comunitari, e ancora inaspettatamente presente nei grandi capitani di industria novecenteschi come Henry Ford, fa a pugni con quella società elitistica teorizzata da Reich. Fondata sul potere fin troppo visibile delle élite (presunte) colte e sul panem et circenses per il popolo.
Il capitalismo, avrebbe invece una grande necessità di ritrovare la capacità di fare grandi cose per la comunità. Un capitalismo sociale-morale, oggi difficile da individuare. Capace, ad esempio, secondo quella che fu in Italia la lezione comunitaria di Adriano Olivetti, di conciliare efficienza e solidarietà. Oppure, secondo le tradizioni del capitalismo sociale tedesco (di una volta s’intende), di integrare i lavoratori, attraverso al partecipazione progressiva, prima agli utili e poi (perché no?) anche alla proprietà.
Ecco un tema sincero: come favorire lo sviluppo di una comunità all’interno dell’impresa? E dunque come coinvolgere socialmente l’impresa? Certo, c’è il settore della ricerca sociale, ad esempio della cura di alcune malattie, dove i soldi sembrano non bastare mai. Ma questo riguarda l’esterno. E già vi operano le fondazioni benefiche, finanziate dai privati. Il vero problema invece è quello di coinvolgere lavoratori e imprenditori in un impegno comunitario, dove il filo d’oro del bene attraversi il profitto, facendolo ricadere sulla comunità. E, dove ad esempio, la scelta di produrre nel rispetto delle regole morali sia finalmente considerata una vera e propria missione d’impresa, e non vuote enunciazioni di principio. E qui si pensi solo alle gravi conseguenze, oggi sotto gli occhi tutti, del non rispetto delle regole poste a tutela dell’ambiente e dei consumatori. E delle stesse officine, come purtroppo è avvenuto alla ThyssenKrupp di Torino… Per non parlare dei fili segreti e illeciti che spesso legano criminalità comune e colletti bianchi.
Si dirà che le nostre proposte, certo sommarie, quasi a braccio, sono “inattuali” a fronte di tesi “mercatiste”, come quelle di Reich, oggi applaudite, a destra e quel che è peggio pure da certa sinistra riformista. E confermate, stando agli operatori, da un mercato mondiale capace di produrre ricchezza, gettandosi alle spalle la “questione morale”. Ma anche, per questo, sempre più disonesto e aggressivo, soprattutto verso i deboli. Basti qui pensare ai continui scandali finanziari e al vergognoso sfruttamento del lavoro minorile e ai durissimi tagli ai sistemi sociali.
No, nessun elitismo amorale, o peggio immorale ci salverà. Siamo spiacenti caro professor Reich, il capitalismo del futuro sarà comunitarista o non sarà affatto… Ma in che modo? Difficile rispondere.