Il link al testo è il seguente: http://ita.vho.org/015Processo.htm. Tuttavia, per comodità dei nostri Lettori ne ripubblichimo qui il testo con il nostro editing.
Buona lettura.
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IL PROCESSO DEL KAISER
Di Vittorio Emanuele Orlando (1937)
Nota introduttiva: abbiamo deciso di ripubblicare questo articolo - alquanto dimenticato - di uno dei più illustri giuristi italiani del Novecento perché, come scrisse a suo tempo
Le obiezioni mosse da Orlando alla “giustizia” dei vincitori della prima guerra mondiale possono essere infatti rivolte anche – mutatis mutandis – a quella dei vincitori della seconda.
Nel 1945, come si sa, gli Alleati diedero sfogo a quello che gli inglesi avevano già provato a fare – senza riuscirvi - nel 1918: processare e condannare non tanto e non solo dei singoli imputati, quanto un intero popolo - il popolo tedesco - uscito sconfitto dall’”immane conflitto”.<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]-->
Così facendo misero in atto un meccanismo giuridico la cui concezione era stata saggiata proprio da Orlando nel 1937: una concezione tale che “ per pensarla, occorre indietreggiare di tre o quattro millenni nella storia della civiltà; occorre una mentalità da primitivi.”
Primitivi anche nell’arroganza, un’arroganza peraltro già impressionante nel 1918: quegli stessi inglesi che pretendevano di processare il Kaiser e i suoi sottoposti avevano provocato, con il blocco navale attuato a danno degli Imperi Centrali, la morte di centinaia di migliaia di civili, e questo non sono gli storici revisionisti a dirlo ma quelli “ufficiali”.<!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]-->
Andrea Carancini
Non credo di contravvenire, scrivendo quest’articolo, alla regola di silenzio che mi sono imposta circa la grande storia da me vissuta, con sì alte responsabilità, durante
La gravità del giudizio che è inerente alle espressioni or ora usate pone immediatamente alcuni quesiti di carattere preliminare. Come è possibile che anomalie e deformazioni di tal gravità siano avvenute nel sentimento universale di popoli così civili, come quelli che furono vittoriosi nella grande guerra e che si presume abbiano voluto le condizioni della Pace? E se anche possa comprendersi che siano talvolta senza freno le passioni che accendono l’animo delle moltitudini, come va considerata l’azione degli uomini rappresentativi e responsabili? Esercitarono essi verso quelle passioni un’azione moderatrice o preferirono, invece, secondarle?
Il fatto stesso di proporsi tali questioni dimostra come quel tecnicismo giuridico cui fu alluso dianzi non è (né del resto potrebbe essere) un carattere così esclusivo del tema nostro da potersi isolare da altre considerazioni di diversa natura; e, innanzi tutto, da quello che fu l’ambiente di psicologia collettiva nel quale quella data situazione si pose. La quale ricostruzione poi è quasi impossibile da rifare, ora, a così grande distanza da quei momenti ed in un ambiente così radicalmente mutato. Onde trova qui luogo opportuno il ricordo di quell’osservazione del Kaiserling, quando rileva che in nessuna epoca come nella nostra si è posto un contrasto così violento, una incomprensione così assoluta fra le generazioni che immediatamente precedettero la guerra e quelle che sono immediatamente susseguite; la quale contrapposizione riguarda meno l’età (vecchi contro giovani) che il modo di sentire, come politica, come etica, come diritto. Certo è però che gli uni non comprendono gli altri: spesso, anzi, non tentano nemmeno di cercare di comprenderli. Ne deriva un contrasto così acuto che spesso può dirsi ostilità.
Bisogna per altro lealmente riconoscere che a un tale effetto si proporziona la gravità delle cause: troppo eccezionali furono certe situazioni per essere comprese da chi non ci si trovò. Così, dunque, per quanto gravi possano apparire ad ogni giurista (del passato, del presente e del futuro) le deviazioni da elementari regole di giustizia e di diritto (e, per altro, anche da ovvii criteri di opportunità) che rileveremo a proposito delle questioni agitatesi circa il processo del Kaiser e dei dipendenti di lui, considerati come autori e responsabili degli orrori della guerra, ciò malgrado sarebbe pure ingiusto un giudizio che non tenesse conto dello stato d’animo, individuale e collettivo, da cui quei sentimenti furono determinati. Infiniti ed atroci furono gli orrori della guerra; e i peggiori fra essi (basti ricordare quelli della guerra sottomarina e dei bombardamenti delle città aperte) erano stati attribuiti ai tedeschi, in maniera da determinare una violenta reazione immediata di rancori e di odii, specie nei paesi che maggiormente ne avevano sofferto.
Che di tali atti, alcuni non sussistano, altri siano stati deformati da esagerazioni, è probabile. Che nell’attribuirli a ferocia belluina, a premeditata barbarie, non si sia tenuto sufficientemente conto delle ragioni che si fan valere dall’altra parte per scusarne la portata, può anche ammettersi. Che su tutti questi ricordi di rancore e di odio si sovrapponga e prevalga una sincera volontà di riconciliazione, appare anche a me desiderabile. Che, però, anche ammettendo tutto ciò, ne resti annullato il giudizio iniziale intorno ai metodi di guerra tedeschi, sarà tanto più difficile consentire quanto più i tedeschi stessi dell’efficacia risolutiva di quei loro metodi in certo senso si eran vantati e forse ancora si vantano. Al qual proposito, anzi, avverto (se pur ce ne fosse bisogno) che la mia opposizione ai criteri allora prevalsi dipese esclusivamente da ragioni di principio, che erano nel tempo stesso ragioni di opportunità, non certo di simpatia verso le persone e gli atti che si volevano incriminare; da questo lato, tengo a riaffermare la mia solidarietà col sentimento allora universale. Ad ogni modo, quel che qui importa è la constatazione, come di un fatto materiale, di quello che era lo stato d’animo dei paesi dell’Intesa man mano che si aggravavano le sofferenze di guerra, stato d’animo che esplose con particolare violenza alla fine di quell’apocalittico periodo.
Si era dunque per tal modo formata presso i popoli stessi come una coscienza collettiva, secondo la quale i tedeschi nella condotta della guerra si erano resi colpevoli di veri e propri crimini contro la civiltà e l’umanità: onde si comprende e sino ad un certo punto si giustifica che di tali delitti fosse richiesto il castigo, meno come atto di vendetta che di giustizia. Importa poi avvertir subito che tali sentimenti ed idee trovarono un terreno assai più adatto alla loro formazione e sviluppo presso i popoli anglosassoni, anziché presso i latini, (non alludo ai soli italiani, ma anche agli stessi francesi): effetto di quel senso di misura che è un nobile contrassegno della nostra razza, ma effetto altresì di una nostra più alta vocazione per il diritto e di una più progredita evoluzione, come meglio sarà visto appresso.
Meno si spiega ed ancor meno si giustifica come gli uomini di Stato rappresentativi di quei popoli non abbiano avuto un sufficiente senso della loro responsabilità che si poneva verso quello stato d’animo delle moltitudini, e del dover loro di rendersi conto degli ostacoli che si frapponevano, evidenti ed insuperabili: al contrario invece, essi non frenarono, ma forse secondarono quello stato d’animo, per fini elettorali e politici.
Anche qui, furono gli uomini di Stato inglesi in prima linea nel proporre e sostenere la tesi del giudizio e della punizione del Kaiser. Peggio ancora: fu questa una delle basi su cui ebbero luogo le elezioni inglesi del Dicembre del 1918: affrettate elezioni, avvenute in un momento in cui le passioni erano in uno stato di morbosa esaltazione e che furono, le elezioni stesse, una delle cause non trascurabili degli errori commessi durante
Quanto ai francesi, non mi accorsi mai che partecipassero con eguale fede e fervore a questi propositi: avevano ben altro cui pensare! Tuttavia li secondavano: da un lato, non doveva spiacere a Clemenceau di rassodare, anche in quell’occasione, quella sua fama di <
Fatte queste premesse, rese necessarie dall’estrema delicatezza dell’argomento, e venendo ora più direttamente al tema proposto, la trattazione di esso potrebbe distinguersi in due momenti: l’uno riguardante la storia, diciamo così, esterna della questione, nelle varie fasi traverso cui passò, per concretarsi nei noti articoli del trattato; l’altro, l’esposizione e la critica degli argomenti che furon fatti valere o che posson valere nell’un senso e nell’altro. Questa distinzione sistematica non importerebbe necessariamente un’effettiva separazione dei due aspetti: ché anzi apparirebbe preferibile che la esposizione e la critica delle ragioni pro e contro procedano insieme con l’esposizione dell’avvenuto dibattito. Nel caso attuale tuttavia noi preferiamo attenerci ad un sistema tutt’affatto diverso, e cioè di considerare in forma critica e, per quanto è possibile, obbiettiva, il contenuto delle disposizioni di quegli articoli; quanto alla storia delle varie fasi traverso le quali si pervenne a quella conclusione, non è qui il luogo di farla, né essa potrebbe da parte mia essere obbiettiva. Importa bensì per ora, anche restando da un punto di vista serenamente scientifico come l’attuale, di tener sempre presenti le condizioni di ambiente alle quali abbiamo di sopra accennato. Quello stato d’animo di folla ha qui la stessa importanza e la stessa funzione del coro nella tragedia eschilea.
In siffatto contrasto sta il maggiore interesse di questo studio. Ché, quanto alla questione in sé stessa, è già molto arduo che essa possa porsi, come seriamente dubitabile, non solo ad un giurista, ma, anzi, a qualunque persona di normale equilibrio d’intelligenza e di coscienza. Diciamo ciò a proposito del processo contro il Kaiser, sotto l’accusa delle cinque Potenze vittoriose, su cui doveva giudicare un Tribunale composto dei rappresentanti delle stesse cinque Potenze accusatrici. Tanto meno può considerarsi come seriamente proponibile l’altra questione intimamente connessa, e che è regolata dalla stessa parte VII del Trattato, cioè della persecuzione penale contro persone che facevano parte della gerarchia militare tedesca. A proposito del quale secondo argomento valgono tutte le ragioni che stan contro la persecuzione penale del Kaiser, ma con questa ragione di più: e cioè che i subordinati obbedivano ad un comando, attuavano incarichi che erano stati loro affidati secondo le leggi del loro Paese e verso cui si poneva un loro preciso dovere di obbedienza. Che l’atto ordinato dal Superiore sia antigiuridico anzi addirittura delittuoso non può essere giudicato dall’inferiore, se non quando tale giudizio rientri nella competenza che direttamente spetti all’inferiore stesso. Una tale distinzione, molto sottile, ben si può dire che non trovi mai luogo nell’ordinamento militare. In questo caso, non è mai concepibile che l’inferiore abbia la capacità di discutere l’ordine del suo superiore e rifiutarsi di obbedirvi: meno che mai in tempo di guerra! Il pretendere dunque di far punire da un tribunale di stranieri ex-nemici un militare che ha eseguito ordini dei suoi capi o comunque abbia adempiuto ai compiti affidatigli, costituisce giuridicamente un’aberrazione; per giudicarla tale, non occorre alcun sforzo d’intelligenza: basta un’elementare sensibilità giuridica.
Limitandoci dunque a considerare la questione soltanto in rapporto alla persecuzione penale del Kaiser, gli ostacoli che si frapponevano possono considerarsi tanto dal punto di vista speciale del diritto penale quanto dal punto di vista del diritto pubblico generale.
Badiamo: questa contrapposizione è, per me, puramente dialettica. In verità, io penso che il tema penalistico qui non si ponga, essendo superato da una pregiudiziale per cui manca radicalmente il presupposto di una perseguibilità penale. Lo vedremo appresso. Ma dato anche, e non concesso, che il diritto penale avesse potuto trovare applicazione al caso, il tentativo d’istituire quel giudizio s’infrangeva contro queste difficoltà insuperabili: 1) mancava la norma di diritto che determinasse che quel dato atto o quella data omissione costituisse un reato; 2) mancava la pena ed ogni criterio per determinarla; 3) mancava il giudice.
<!--[if !supportLists]-->1) <!--[endif]-->Che mancasse la fonte di diritto dichiarativa del reato, ne conviene lo stesso art. 27 del Trattato, il cui testo è così redatto: <
<!--[if !supportLists]-->2) <!--[endif]-->Mancava la norma e mancava egualmente ogni indicazione sulla pena da infliggere. Si potrebbe dire, ed in un certo senso con ragione, che l’uno e l’altro difetto sono necessariamente collegati, da poi che la norma che definisce il tale atto dell’uomo come un reato, nel tempo stesso determina la pena. Per quanto dunque l’affermare distintamente le due necessità costituisca una tautologia, pure l’estrema gravità e delicatezza dell’argomento fa sì che tutti gli ordinamenti penalistici assumano a loro base le due proposizioni, come distinte, malgrado si ripetano. <
<!--[if !supportLists]-->3) <!--[endif]-->Mancava la norma dichiarativa del reato, mancava la pena, mancava il giudice, Questa terza ragione che rendeva impossibile il giudizio è quella che il sentimento non solo dei tecnici ma dell’universale avverte subito come assolutamente ripugnante. Ad ogni uomo dotato di un mediocre sentimento di giustizia apparirebbe intollerabile che un reato possa essere giudicato dall’accusatore e la condanna pronunciata dalla stessa parte offesa. Orbene, era un tal modo di giudizio che veniva accolto dall’art. 227. Esso comincia con questa dichiarazione: <
A questo punto l’indagine può e deve elevarsi ben più in alto. Dicemmo già che il considerare la questione, come abbiam fatto sinora, nei riflessi dei principi (siano pure elementari) del diritto penalistico rappresenta una concessione dialettica fatta a quel sistema che, per l’appunto, pretendeva muovere da precetti dell’ordine penalistico. La verità è che la materia non può contenersi entro quei confini, ed anzi di gran lunga li oltrepassa, onde si pone, verso la stessa ipotesi di un processo del Kaiser, una pregiudiziale che supera le stesse pregiudiziali dell’ordine giuridico. Pensate! Eventi storici che hanno sconvolto il mondo e determinato rivoluzioni e catastrofi che non han precedenti nella storia dell’umanità; troni caduti, le più salde frontiere oscillanti. Stati secolari estinti, nuovi Stati sorti e risorti, milioni, milioni, milioni di morti, gigantesche spaventose distruzioni, tutta questa immensa storia si sarebbe dovuta contenere nelle forme e nelle dimensioni, che sarebbero state sempre relativamente miserevoli, di un processo, in un’aula, davanti un emiciclo dove siedono vecchi uomini in parrucca o in toga e dove sfilano testimoni, avvengono incidenti, tuona in contraddittorio l’eloquenza di avvocati di parte civile o di difesa, finché, dopo qualche decisione interlocutoria, sopravviene una sentenza. E questa sentenza doveva fare stato di fronte alla Storia! Sta in ciò il più grave, il più essenziale errore di quelle proposte che diventaron la parte VII del Trattato: di non aver compreso che certe condanne le può pronunziare soltanto il Destino e che quando Dio interviene, non vi è più posto per i giudizi dell’uomo.
Una simile pregiudiziale bene dicevamo che esorbiti non solo dal diritto penale, ma dal diritto stesso in generale. Non tanto tuttavia da non consentire qualche considerazione che, per l’appunto, riconferma anche sotto l’aspetto del diritto pubblico generale l’assoluta inapplicabilità a priori di un potere punitivo nella questione attuale. Per darsi il subbietto di un’azione penale occorre che esso si trovi in rapporto di soggezione verso la sovranità di uno Stato che sarebbe l’offeso e che la persona sia accusata come individualmente responsabile. Prescindendo anche dalla prima di tali condizioni (che nel caso evidentemente mancava) cioè di un rapporto che assoggettasse il reo alla sovranità dello Stato o degli Stati procedenti, dove mai può riscontrarsi l’individualità dell’imputazione? A meno di essere volontariamente ciechi, qui non s’intendeva giudicare un signor Guglielmo degli Hohenzollern per suoi fatti personali, ma bensì in quanto Imperatore di Germania e per atti compiuti (buoni, cattivi, pessimi, non importa) con quella qualità, eminentemente rappresentativa del suo popolo. Il che val quanto dire che attraverso la persona del Kaiser era il popolo tedesco che veniva processato.
Ora, ciò che più profondamente colpisce in una tale concezione non è già che essa non sia pensabile, ma che, per pensarla, occorre indietreggiare di tre o quattro millenni nella storia della civiltà; occorre una mentalità di primitivi. Ed anzi sono due le idee primitive che bisogna combinare insieme: la prima (che si prolunga sino al Medio Evo), che gli enti collettivi, siano, come le persone naturali, capaci di delinquere e possano essere processati e puniti; l’altra, per cui la responsabilità dell’ente collettivo si confonde sempre con quella dei suoi componenti e così reciprocamente. Considerando più da vicino questa seconda idea, corrisponde ad essa quella nozione semplicista del gruppo sociale che precedette la formazione dello Stato, retrocedendo dalla tribù, alla gente, all’orda. Eran questi gruppi scarsamente differenziati, onde la solidarietà che stringeva fra loro i singoli partecipanti si poneva come assoluta e come immediata: il gruppo si impersonava in ognuno dei componenti di esso; l’atto del singolo era atto del gruppo e ne determinava tutte le responsabilità, attivamente e passivamente, come diritti e come doveri, confondendosi l’elemento individuale con quello collettivo.
La storia antichissima degli Ariani primitivi ci ha tramandato leggende e tradizioni, in cui un rappresentante del gruppo si pone come assertore dei diritti della collettività, alla sua volta rappresentata da uno dei suoi componenti onde il dissidio si combatteva in forma di duello fra i rappresentanti. Ma quel sentimento di solidarietà di gruppo trovò sopra tutto la sua caratteristica forma istituzionale proprio in diritto penale, e questa forma fu anche la più persistente nel tempo. Ed anzi è a tal proposito che in maniera quasi sperimentale meglio si avverte la superiorità della razza latina sulla germanica, come vocazione per il diritto. Ed infatti, mentre è noto che l’originario diritto penale dei popoli ariani, dominato da quel concetto primitivo ed ingenuo della solidarietà di gruppo, si fonda, oltre che sull’espiazione sacrale, sulla legge di vendetta esercitata dal gruppo dell’offensore, - nel diritto penale romano, il più antico che ci sia pervenuto, di quei concetti originari si trovano soltanto vestigia ed avanzi relativamente trascurabili; sin dall’epoca dei primi Re i reati più gravi venivano perseguiti e puniti in nome dello Stato e nell’interesse dell’ordine giuridico generale. Si consideri invece quanti secoli occorsero perché il sistema penale germanico si liberasse da ogni influenza di quelle forme compensative del danno fra il gruppo dell’offeso e il gruppo dell’offensore, e si avrà per così dire la determinazione precisa, nel tempo, di quanto il pensiero giuridico latino anticipi su quello germanico.
Comunque, anche per i ritardatari, siffatte concezioni sono state superate da molti secoli. E da molti secoli, presso tutti i popoli civili, il progresso del diritto è venuto ormai fissando i limiti che separano la volontà e l’azione dei singoli da quelle della collettività. Si è specificata la formazione di quella volontà che, pur appartenendo fisicamente a un individuo, vale per la collettività e l’impegna: per ciò stesso, gli atti in tal modo compiuti non possono considerarsi come individualmente imputabili. Dobbiamo noi ritenere che gli anglosassoni, popoli di origine germanica, abbiano sotto l’influenza della guerra – e di una tale guerra! – subìto come una specie di ritorno verso sentimenti primitivi, confondendo la responsabilità individuale con quella collettiva, ricercando nel Kaiser una colpa a lui singolarmente imputabile pur restando, nel tempo stesso, responsabilità di tutto il popolo tedesco? E su questo popolo si eran fatte gravare, come legge di guerra, le sanzioni più severe: qual mai funzione poteva più avere la condanna di colui che del popolo stesso era stato il rappresentante?
Sotto un altro aspetto, poi, va pure ricordato che l’antichissimo diritto dei popoli germanici (anche in ciò differenziandosi dai latini), conobbe una specie di giudizio di responsabilità che il popolo poteva iniziare contro il proprio re. Ma a parte che tale istituto spiegava la sua efficacia esclusivamente nei rapporti interni, è curioso che siano stati proprio gli inglesi ad apportare nel diritto pubblico la nozione della irresponsabilità giuridica del Re (merito loro grandissimo, in quanto integrato dalla responsabilità di chi si presume consigli il re), stabilendo la massima che <
Ad ogni modo, se ed in quanto fosse pensabile che un Capo giuridicamente irresponsabile verso il proprio popolo, potesse diventare giuridicamente responsabile di fronte ad uno straniero, nemico, restava sempre la questione della possibilità di una imputabilità individuale di quegli atti. Del lato formale di questa imputabilità ci occupammo dianzi; del lato sostanziale, quand’anche potesse ritenersi (alla quale ipotesi la realtà non sarebbe corrisposta che in materia affatto relativa) che i poteri del Kaiser fossero assoluti e che la volontà e gli atti di lui si trasformassero immediatamente e senz’altro in volontà di tutto il popolo tedesco, qual mai giuspubblicista o sociologo o storico oserebbe credere ad una tale separabilità meccanica fra una coscienza individuale e una coscienza collettiva? I processi di azione e reazione psicosociali sono, certamente, fra i più misteriosi di quanti si presentino al nostro studio; onde invano si pretende di stabilirne in maniera categorica e precisa le leggi particolari. Ma il fenomeno considerato nel suo complesso e come generale non potrebbe esser messo seriamente in dubbio, senza scuotere una delle basi più essenziali di ogni scienza di Stato. La volontà di un Capo – fosse anche il despota più assoluto – si forma sempre in funzione dell’ambiente in cui esso vive, cioè della stessa collettività che è soggetta al dominio di quel capo. Del resto, se di questa verità elementare si volesse una prova, non si potrebbe trovarla più immediata e più trionfante che nella stessa Germania della grande guerra e degli anni che la prepararono: mai popolo apparve più risoluto, più munito, solidale nel suo <<Beruf>> verso il grande cimento. Anche sotto questo aspetto dunque, la pretesa di attribuire caratteri di responsabilità individuale a decisioni e dati essenzialmente collettivi costituiva un assurdo non solo giuridico ma anche politico e storico.
Storicamente, poi, il proposito di processare Guglielmo II non poteva non richiamare il confronto con la prigionia e la morte di Napoleone a Sant’Elena: se ne servì Sonnino nella seduta del 2 Dicembre
Furon questi i termini di un dibattito che, postosi subito dopo l’armistizio vittorioso, ebbe la sua conclusione formale negli articoli 227 e seguenti del Trattato, e il suo epilogo effettivo nella virtuale decadenza degli articoli stessi per impossibilità di attuazione, decadenza più o meno rassegnatamente riconosciuta ed ammessa. Vedemmo di sopra come man mano che si era avvicinata la fine della lunghissima guerra, le crudeli ore di ansietà e di tormento che si erano traversate avevano determinato uno stato di collera e di rancore che esplose subito dopo l’armistizio. Un aggravamento di codesto stato era avvenuto proprio fra la metà e la fine del Novembre 1918, essendo allora tornati a Londra decine di migliaia di ufficiali e soldati inglesi già prigionieri di guerra in Germania, i quali avevano narrato delle loro privazioni, delle loro sofferenze, della durezza con cui erano stati trattati, delle <
Comunque, quando il primo Dicembre del 1918 io e Sonnino insieme a Clemenceau ed a Foch arrivammo alla stazione di Charing Cross, accolti da un Principe in rappresentanza del Re e da tutti i membri del Gabinetto, da Lloyd George a Bonar Law, a Balfour, ad Austin Chamberlain, a Lord Curzon, a Lord Milner, traversando le vie dell’immensa metropoli, nell’entusiasmo di una moltitudine delirante, era quel grido di vendetta che sembrava dominasse su tutti gli altri. Il Daily Telegraph, pubblicato proprio nel giorno del nostro arrivo, così scriveva <
Fu in tali condizioni che nell’adunanza tenuta a Downing Street (ufficio del Primo Ministro britannico) nelle ore antimeridiane del lunedì due Dicembre, il processo del Kaiser fu proposto come primo e, sarebbesi detto, più importante argomento della riunione, che pur doveva gettare le basi del futuro trattato di pace. Come la questione sia stata allora discussa, e poi sospesa, per l’assenza del Presidente americano, e poi ancora affidata allo studio di Commissioni di esperti e finalmente risoluta in una riunione dei Quattro, in guisa da dar luogo alla inserzione nel Trattato degli articoli 227-230, costituenti la parte VII, dal titolo, in inglese, di Penalties, non è il caso di esporre qui. Il diritto, come tecnica, cede a quella che poteva essere e fu l’azione concreta degli uomini di Stato rappresentativi. Per quanto riguarda l’Italia, io debbo limitarmi a ripetere in via di conclusione quanto altre volte ho avuto occasione di dire nel corso di questo articolo, e cioè che io e Sonnino facemmo quanto ragionevolmente si poteva, per impedire quel che a noi appariva come un grave errore, arrivando fino all’estremo limite, al di là del quale si ponevano per noi responsabilità di ben altra natura, in relazione alla difesa di essenziali diritti e di vitali interessi nazionali. Né è il caso di indugiare sugli eventi successivi pei quali gli articoli tutti di quella parte VII del Trattato rimasero inosservati: meglio direbbesi che furono abrogati per in esecuzione, consentita ed ammessa dalle stesse Potenze vincitrici. Quanto al processo del Kaiser, esso incontrò subito le resistenze – così facilmente prevedibili e previste – dell’Olanda, che si rifiutò di consegnare l’imperiale profugo; l’assenso delle Potenze <
Più interessante, giuridicamente e politicamente, è il modo onde restarono ineseguiti gli articoli relativi al giudizio dei militari tedeschi. L’art. 228 diceva testualmente così: <
Qui innanzitutto si precisava dunque un’obbligazione non di uno Stato neutrale ma della stessa Germania. E fu redatta una prima lista di questi <
Erano questi dei cittadini tedeschi che
Tantae molis erat! E’ il caso di dire che una così aperta sconfessione di tutta
La ragione è evidente. Uno Stato che perde una parte del suo territorio, subisce un’amputazione, ma serba intatto il suo onore e il suo Essere, come persona sovrana. Uno Stato invece il quale, nei limiti del suo territorio, non può esercitare liberamente ed in ogni direzione il suo diritto di comando e il dominio, è uno Stato umiliato nel suo bene supremo: l’indipendenza. Per gli Stati, come per gli individui, non vi è via di mezzo: se non si è liberi, si è servi.
Per effetto di tutta una concatenazione di errori (che qui non è il caso di accennare, neanche sommariamente)
Fra esse, quella che imponeva impossibili giudizi e consegne per dar luogo a consecutive sicure condanne era la più assurda e la più odiosa; fu perciò la prima verso cui
<!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]--> Salvatore Lener S. I., Dal mancato giudizio del Kaiser al processo di Norimberga, in Civ. Catt., 2 Marzo 1946, p. 332.
<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]--> Sul trattamento riservato ai tedeschi dai vincitori della guerra si veda, di Freda Utley, The High Cost of Vengeance, in rete all’indirizzo: http://www.vho.org/GB/Books/thcov/ . In particolare, sulla “giustizia” di Norimberga si veda il capitolo 6: http://www.vho.org/GB/Books/thcov/6.html
<!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]--> Si veda: Bruna Bianchi, I primi campi di concentramento, in rete all’indirizzo: http://www.unive.it/media/allegato/dep/Ricerche/1-I_primi_campi_di_concentramento.pdf