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Il processo del Kaiser

di Vittorio Emanuele Orlando - 13/12/2007

 

Ho recuperato e digitalizzato nei giorni scorsi un importante saggio (del 1937) di Vittorio Emanuele Orlando dedicato al mancato Processo del Kaiser, al tentativo cioè - portato avanti dagli angloamericani - di processare l’Imperatore di Germania Guglielmo II alla fine della prima guerra mondiale per presunti "crimini di guerra". Il proposito di processare il Kaiser abortì grazie al rifiuto dell’Olanda di estradare l’imputato. Si tratta quindi del precedente storico diretto - per quanto non attuato - del più famoso Processo di Norimberga istituito nel 1945. Si intendeva infatti processare l'Imperatore come simbolo della colpa collettiva del popolo tedesco, giudicato quale unico responsabile della guerra. Per questo lo studio di Orlando è importante: perchè le questioni - e le critiche - da lui poste nel 1937 relative ai meccanismi ideologici e giuridici di tale processo si riproporranno nel 1945 di fronte alla farsa giudiziaria più impressionante della storia, quella appunto di Norimberga.
Il link al testo è il seguente: http://ita.vho.org/015Processo.htm. Tuttavia, per comodità dei nostri Lettori ne ripubblichimo qui il testo con il nostro editing.

Buona lettura.

Andrea Carancini

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IL PROCESSO DEL KAISER

Di Vittorio Emanuele Orlando (1937)

Nota introduttiva: abbiamo deciso di ripubblicare questo articolo - alquanto dimenticato - di uno dei più illustri giuristi italiani del Novecento perché, come scrisse a suo tempo La Civiltà Cattolica<!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]-->, esso “costituisce lo studio più completo e profondo su un diretto benché poi mancato precedente del processo di Norimberga”.

Le obiezioni mosse da Orlando alla “giustizia” dei vincitori della prima guerra mondiale possono essere infatti rivolte anche – mutatis mutandis – a quella dei vincitori della seconda.

Nel 1945, come si sa, gli Alleati diedero sfogo a quello che gli inglesi avevano già provato a fare – senza riuscirvi - nel 1918: processare e condannare non tanto e non solo dei singoli imputati, quanto un intero popolo - il popolo tedesco - uscito sconfitto dall’”immane conflitto”.<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]-->

Così facendo misero in atto un meccanismo giuridico la cui concezione era stata saggiata proprio da Orlando nel 1937: una concezione tale che “ per pensarla, occorre indietreggiare di tre o quattro millenni nella storia della civiltà; occorre una mentalità da primitivi.”

Primitivi anche nell’arroganza, un’arroganza peraltro già impressionante nel 1918: quegli stessi inglesi che pretendevano di processare il Kaiser e i suoi sottoposti avevano provocato, con il blocco navale attuato a danno degli Imperi Centrali, la morte di centinaia di migliaia di civili, e questo non sono gli storici revisionisti a dirlo ma quelli “ufficiali”.<!--[if !supportFootnotes]-->[3]<!--[endif]-->

Andrea Carancini

Non credo di contravvenire, scrivendo quest’articolo, alla regola di silenzio che mi sono imposta circa la grande storia da me vissuta, con sì alte responsabilità, durante la Guerra e la successiva Conferenza di Pace. Questa regola io ho rigidamente mantenuta per tutto un ordine complesso di ragioni, di cui almeno alcune potrebbero e dovrebbero essere spontaneamente avvertite da molti che di questo mio silenzio si stupiscono e qualche volta si dolgono. Oggi però il proposito si presenta ben diverso. Si tratta di onorare un Maestro italiano del Diritto Pubblico [l’autore si riferisce a Giovanni Vacchelli] ed il discorso va da giurista a giuristi, svolgendosi intorno ad un argomento che senza dubbio appartiene, tecnicamente, all’ordine delle scienze nostre, anche se considerato soltanto come un fatto storico. Che poi il caso si presenti come affatto anomalo, o, persino, come un <<monstrum>>, non toglie che esso possa avere un interesse scientifico: le anomalie e le deformazioni, così degli esseri come dei sentimenti e delle idee, hanno il loro posto in ogni scienza. Vi corrisponde un titolo apposito: teratologia.

La gravità del giudizio che è inerente alle espressioni or ora usate pone immediatamente alcuni quesiti di carattere preliminare. Come è possibile che anomalie e deformazioni di tal gravità siano avvenute nel sentimento universale di popoli così civili, come quelli che furono vittoriosi nella grande guerra e che si presume abbiano voluto le condizioni della Pace? E se anche possa comprendersi che siano talvolta senza freno le passioni che accendono l’animo delle moltitudini, come va considerata l’azione degli uomini rappresentativi e responsabili? Esercitarono essi verso quelle passioni un’azione moderatrice o preferirono, invece, secondarle?

Il fatto stesso di proporsi tali questioni dimostra come quel tecnicismo giuridico cui fu alluso dianzi non è (né del resto potrebbe essere) un carattere così esclusivo del tema nostro da potersi isolare da altre considerazioni di diversa natura; e, innanzi tutto, da quello che fu l’ambiente di psicologia collettiva nel quale quella data situazione si pose. La quale ricostruzione poi è quasi impossibile da rifare, ora, a così grande distanza da quei momenti ed in un ambiente così radicalmente mutato. Onde trova qui luogo opportuno il ricordo di quell’osservazione del Kaiserling, quando rileva che in nessuna epoca come nella nostra si è posto un contrasto così violento, una incomprensione così assoluta fra le generazioni che immediatamente precedettero la guerra e quelle che sono immediatamente susseguite; la quale contrapposizione riguarda meno l’età (vecchi contro giovani) che il modo di sentire, come politica, come etica, come diritto. Certo è però che gli uni non comprendono gli altri: spesso, anzi, non tentano nemmeno di cercare di comprenderli. Ne deriva un contrasto così acuto che spesso può dirsi ostilità.

Bisogna per altro lealmente riconoscere che a un tale effetto si proporziona la gravità delle cause: troppo eccezionali furono certe situazioni per essere comprese da chi non ci si trovò. Così, dunque, per quanto gravi possano apparire ad ogni giurista (del passato, del presente e del futuro) le deviazioni da elementari regole di giustizia e di diritto (e, per altro, anche da ovvii criteri di opportunità) che rileveremo a proposito delle questioni agitatesi circa il processo del Kaiser e dei dipendenti di lui, considerati come autori e responsabili degli orrori della guerra, ciò malgrado sarebbe pure ingiusto un giudizio che non tenesse conto dello stato d’animo, individuale e collettivo, da cui quei sentimenti furono determinati. Infiniti ed atroci furono gli orrori della guerra; e i peggiori fra essi (basti ricordare quelli della guerra sottomarina e dei bombardamenti delle città aperte) erano stati attribuiti ai tedeschi, in maniera da determinare una violenta reazione immediata di rancori e di odii, specie nei paesi che maggiormente ne avevano sofferto.

Che di tali atti, alcuni non sussistano, altri siano stati deformati da esagerazioni, è probabile. Che nell’attribuirli a ferocia belluina, a premeditata barbarie, non si sia tenuto sufficientemente conto delle ragioni che si fan valere dall’altra parte per scusarne la portata, può anche ammettersi. Che su tutti questi ricordi di rancore e di odio si sovrapponga e prevalga una sincera volontà di riconciliazione, appare anche a me desiderabile. Che, però, anche ammettendo tutto ciò, ne resti annullato il giudizio iniziale intorno ai metodi di guerra tedeschi, sarà tanto più difficile consentire quanto più i tedeschi stessi dell’efficacia risolutiva di quei loro metodi in certo senso si eran vantati e forse ancora si vantano. Al qual proposito, anzi, avverto (se pur ce ne fosse bisogno) che la mia opposizione ai criteri allora prevalsi dipese esclusivamente da ragioni di principio, che erano nel tempo stesso ragioni di opportunità, non certo di simpatia verso le persone e gli atti che si volevano incriminare; da questo lato, tengo a riaffermare la mia solidarietà col sentimento allora universale. Ad ogni modo, quel che qui importa è la constatazione, come di un fatto materiale, di quello che era lo stato d’animo dei paesi dell’Intesa man mano che si aggravavano le sofferenze di guerra, stato d’animo che esplose con particolare violenza alla fine di quell’apocalittico periodo.

Si era dunque per tal modo formata presso i popoli stessi come una coscienza collettiva, secondo la quale i tedeschi nella condotta della guerra si erano resi colpevoli di veri e propri crimini contro la civiltà e l’umanità: onde si comprende e sino ad un certo punto si giustifica che di tali delitti fosse richiesto il castigo, meno come atto di vendetta che di giustizia. Importa poi avvertir subito che tali sentimenti ed idee trovarono un terreno assai più adatto alla loro formazione e sviluppo presso i popoli anglosassoni, anziché presso i latini, (non alludo ai soli italiani, ma anche agli stessi francesi): effetto di quel senso di misura che è un nobile contrassegno della nostra razza, ma effetto altresì di una nostra più alta vocazione per il diritto e di una più progredita evoluzione, come meglio sarà visto appresso.

Meno si spiega ed ancor meno si giustifica come gli uomini di Stato rappresentativi di quei popoli non abbiano avuto un sufficiente senso della loro responsabilità che si poneva verso quello stato d’animo delle moltitudini, e del dover loro di rendersi conto degli ostacoli che si frapponevano, evidenti ed insuperabili: al contrario invece, essi non frenarono, ma forse secondarono quello stato d’animo, per fini elettorali e politici.

Anche qui, furono gli uomini di Stato inglesi in prima linea nel proporre e sostenere la tesi del giudizio e della punizione del Kaiser. Peggio ancora: fu questa una delle basi su cui ebbero luogo le elezioni inglesi del Dicembre del 1918: affrettate elezioni, avvenute in un momento in cui le passioni erano in uno stato di morbosa esaltazione e che furono, le elezioni stesse, una delle cause non trascurabili degli errori commessi durante la Conferenza della Pace. Nella dichiarazione allora pubblicata in cui il Primo Ministro fissava quella che doveva essere la platform delle elezioni si affermava: <la Gran Bretagna non deve più accettare come ospiti i Tedeschi>>. Nel grande discorso elettorale tenuto poi a Bristol il sig. Lloyd George insisteva nel proporre come un fine essenziale del Governo di esigere <>. Il 15 Dicembre venti milioni di elettori inglesi votavano, approvando, un tale programma: ne derivava per i delegati alla Conferenza un impegno assoluto e solenne.

Quanto ai francesi, non mi accorsi mai che partecipassero con eguale fede e fervore a questi propositi: avevano ben altro cui pensare! Tuttavia li secondavano: da un lato, non doveva spiacere a Clemenceau di rassodare, anche in quell’occasione, quella sua fama di <> da cui gli derivava un’utile potenza intimidatrice; dall’altro lato, essendo stati i francesi più duramente provati non foss’altro per la più vasta invasione di territorio, e più lungamente durata, sarebbe occorsa una troppo grande virtù per opporsi ad un’iniziativa di quel genere, mettendosi in contrasto con gli inglesi proprio a quel proposito, mentre altri e ben più gravi contrasti si preannunziavano. Quanto poi agli italiani, queste pagine ricordano e riaffermano come essi abbiano prontamente avvertito l’errore e il danno di quelle decisioni ed abbiano fatto tutto quanto potevano per impedirle. Né, certo, ad essi potrebbe rivolgersi l’accusa di aver dovuto subire una diversa soluzione: è ciò che avviene normalmente nelle Conferenze internazionali di maggioranze e di minoranze. Lo sforzo di chi dissente non può altrimenti esercitarsi se non nel senso di persuadere gli altri: se tale sforzo non riesce, chi non voglia uniformarsi, rassegnandosi, alla tesi della maggioranza, non ha altra via che di rompere i rapporti e uscire dalla Conferenza; or, a un tale estremo non si può pervenire se non per argomenti che abbiano un’importanza decisiva, anzi vitale per il proprio Paese. Di una resistenza che fu rottura insanabile, si ebbe in seguito un esempio che riguardò – proprio! – l’Italia e chi la rappresentava; nella storia della Conferenza della Pace, il caso viene considerato da molti come la più grave crisi che la Conferenza stessa abbia attraversata. Il che è vero anche più di quanto non si creda; la storia che attualmente viviamo ne registra ancora gli effetti.

Fatte queste premesse, rese necessarie dall’estrema delicatezza dell’argomento, e venendo ora più direttamente al tema proposto, la trattazione di esso potrebbe distinguersi in due momenti: l’uno riguardante la storia, diciamo così, esterna della questione, nelle varie fasi traverso cui passò, per concretarsi nei noti articoli del trattato; l’altro, l’esposizione e la critica degli argomenti che furon fatti valere o che posson valere nell’un senso e nell’altro. Questa distinzione sistematica non importerebbe necessariamente un’effettiva separazione dei due aspetti: ché anzi apparirebbe preferibile che la esposizione e la critica delle ragioni pro e contro procedano insieme con l’esposizione dell’avvenuto dibattito. Nel caso attuale tuttavia noi preferiamo attenerci ad un sistema tutt’affatto diverso, e cioè di considerare in forma critica e, per quanto è possibile, obbiettiva, il contenuto delle disposizioni di quegli articoli; quanto alla storia delle varie fasi traverso le quali si pervenne a quella conclusione, non è qui il luogo di farla, né essa potrebbe da parte mia essere obbiettiva. Importa bensì per ora, anche restando da un punto di vista serenamente scientifico come l’attuale, di tener sempre presenti le condizioni di ambiente alle quali abbiamo di sopra accennato. Quello stato d’animo di folla ha qui la stessa importanza e la stessa funzione del coro nella tragedia eschilea.

In siffatto contrasto sta il maggiore interesse di questo studio. Ché, quanto alla questione in sé stessa, è già molto arduo che essa possa porsi, come seriamente dubitabile, non solo ad un giurista, ma, anzi, a qualunque persona di normale equilibrio d’intelligenza e di coscienza. Diciamo ciò a proposito del processo contro il Kaiser, sotto l’accusa delle cinque Potenze vittoriose, su cui doveva giudicare un Tribunale composto dei rappresentanti delle stesse cinque Potenze accusatrici. Tanto meno può considerarsi come seriamente proponibile l’altra questione intimamente connessa, e che è regolata dalla stessa parte VII del Trattato, cioè della persecuzione penale contro persone che facevano parte della gerarchia militare tedesca. A proposito del quale secondo argomento valgono tutte le ragioni che stan contro la persecuzione penale del Kaiser, ma con questa ragione di più: e cioè che i subordinati obbedivano ad un comando, attuavano incarichi che erano stati loro affidati secondo le leggi del loro Paese e verso cui si poneva un loro preciso dovere di obbedienza. Che l’atto ordinato dal Superiore sia antigiuridico anzi addirittura delittuoso non può essere giudicato dall’inferiore, se non quando tale giudizio rientri nella competenza che direttamente spetti all’inferiore stesso. Una tale distinzione, molto sottile, ben si può dire che non trovi mai luogo nell’ordinamento militare. In questo caso, non è mai concepibile che l’inferiore abbia la capacità di discutere l’ordine del suo superiore e rifiutarsi di obbedirvi: meno che mai in tempo di guerra! Il pretendere dunque di far punire da un tribunale di stranieri ex-nemici un militare che ha eseguito ordini dei suoi capi o comunque abbia adempiuto ai compiti affidatigli, costituisce giuridicamente un’aberrazione; per giudicarla tale, non occorre alcun sforzo d’intelligenza: basta un’elementare sensibilità giuridica.

Limitandoci dunque a considerare la questione soltanto in rapporto alla persecuzione penale del Kaiser, gli ostacoli che si frapponevano possono considerarsi tanto dal punto di vista speciale del diritto penale quanto dal punto di vista del diritto pubblico generale.

Badiamo: questa contrapposizione è, per me, puramente dialettica. In verità, io penso che il tema penalistico qui non si ponga, essendo superato da una pregiudiziale per cui manca radicalmente il presupposto di una perseguibilità penale. Lo vedremo appresso. Ma dato anche, e non concesso, che il diritto penale avesse potuto trovare applicazione al caso, il tentativo d’istituire quel giudizio s’infrangeva contro queste difficoltà insuperabili: 1) mancava la norma di diritto che determinasse che quel dato atto o quella data omissione costituisse un reato; 2) mancava la pena ed ogni criterio per determinarla; 3) mancava il giudice.

<!--[if !supportLists]-->1) <!--[endif]-->Che mancasse la fonte di diritto dichiarativa del reato, ne conviene lo stesso art. 27 del Trattato, il cui testo è così redatto: <>. Come si vede, il delitto imputato al Kaiser viene definito così: offesa suprema contro la morale internazionale e l’autorità sacra dei trattati; due concetti ripresi in maniera di parafrasi nel terzo capoverso: <>. Or, quanto ai trattati, che le norme in essi contenute siano internazionalmente obbligatorie, non può mettersi in dubbio: come non può mettersi in dubbio che la Germania sia a tale dovere elementare venuta meno, violando quella neutralità del Belgio cui essa, direttamente, solennemente, si era impegnata. Non ci soffermeremo sulle gravi questioni che si fanno, in vario senso, su questo punto; per restare rigorosamente aderenti al nostro tema e cioè di cercare se vi fosse nel caso una fonte di diritto capace di attribuire alle azioni imputate il carattere di un reato, si deve riconoscere che la violazione di un trattato, per grave che sia, non importa necessariamente che l’atto stesso sia qualificabile come un reato. Il diritto privato, tecnicamente di tanto più progredito in confronto del diritto internazionale, assume anch’esso come sua base essenziale il principio che pacta sunt servanda: ma nessuno ha mai pensato che la violazione di un contratto esponga l’autore di essa ad altre sanzioni oltre quelle di carattere economico e patrimoniale. Certamente, la violazione di un contratto può essere accompagnata da un atto che per sé stesso costituisca un’infrazione dell’ordinamento giuridico, la quale sia considerata e repressa come reato. Ma reato sarà sempre l’atto in sé e per sé, non mai la pura e semplice violazione del contratto. Se fra due persone i cui fondi sono vicini si stipula un contratto in virtù del quale viene fissata la linea di confine con obbligo di rispettarla, ove uno di essi la oltrepassi per aggredire e ferire il vicino, sarà reato il fatto dell’aggressione e del ferimento, in sé e per sé, e non per la circostanza che era stata violata una clausola della convenzione sui confini. Del resto, lo stesso art. 227 ammette in certo modo che questa prima base non sarebbe da sola sufficiente, poiché aggiunge che si sarebbe commessa nel tempo stessa una <>. Senonché codesta stessa determinazione della fonte da cui derivava il titolo per la sanzione e repressione dell’ipotetico reato, era una aperta confessione che quella fonte non era riferibile al diritto. Il concetto di <> assunto in una proposizione come è quella dell’art. 227, sta in antitesi con il concetto di diritto: quanto meno, rivela che la norma di diritto manca per ciò stesso che non viene menzionata. Normalmente, si deve ritenere che tutto il diritto sia conforme alla morale: ma non è punto vera la proposizione reciproca, cioè che l’offesa contro la morale sia sempre un’offesa contro il diritto; un dato precetto o regola dell’ordine etico può dal diritto non esser fatta propria e trasformata in norma giuridica. Per ciò dicevamo che la stessa formula dell’art. 227 contiene la confessione che mancava la norma dichiarativa del presunto reato. E un’altra confessione, forse ancora più aperta, si contiene nell’avvertenza che <>; anche essendo <>, come l’articolo vuole, non si è mai inteso che la Politica abbia funzione di Diritto: è già molto che non lo sopprima! In confronto di tali vizi radicali, si può anche prescindere da altri difetti della formula stessa che pure sarebbero in sé assai gravi. Così, per es., l’aggiunta della qualificazione di <> alla nozione di <> rende ancora più elastica ed incerta una nozione che sarebbe già di per sé stessa imprecisa e vaga. Così pure non può certo dirsi tecnicamente felice quell’altra qualificazione di <> aggiunta ad <>. Le norme giuridiche sono per sé stesse oggettive. L’infrazione di una norma (quando c’è) ha certamente un carattere obbiettivo: ma il decidere invece se l’infrazione ad essa sia stata o no <>, importa una valutazione del tutto soggettiva. Si tratta, in verità, di una espressione puramente retorica, che è quanto più ripugna al diritto.

<!--[if !supportLists]-->2) <!--[endif]-->Mancava la norma e mancava egualmente ogni indicazione sulla pena da infliggere. Si potrebbe dire, ed in un certo senso con ragione, che l’uno e l’altro difetto sono necessariamente collegati, da poi che la norma che definisce il tale atto dell’uomo come un reato, nel tempo stesso determina la pena. Per quanto dunque l’affermare distintamente le due necessità costituisca una tautologia, pure l’estrema gravità e delicatezza dell’argomento fa sì che tutti gli ordinamenti penalistici assumano a loro base le due proposizioni, come distinte, malgrado si ripetano. <>. Dice così l’art. 1 del Codice Penale italiano, che qui si cita non già come una fonte di diritto che nel caso possa avere forza obbligatoria, ma come espressione di un principio fondamentale, riconosciuto ed osservato da tutti i popoli civili; vi corrisponde persino uno di quegli aforismi che sono proverbiali fra i giuristi di tutti i paesi: nullum crimen sine lege; nullum crimen sine poena. Dato dunque e non concesso che il trattato di pace avesse potuto accusare il Kaiser di un reato non dichiarato da alcuna norma preesistente, restava pur sempre materialmente insuperabile l’altra difficoltà: la mancanza di una pena predeterminata. L’articolo 227 supera la difficoltà, sopprimendola: <>. Così, riferendoci alle pene generalmente usate, il giudice nel caso avrebbe avuto la facoltà di condannare il Kaiser ad una pena, che dall’ammenda di un franco poteva arrivare fino alla morte!

<!--[if !supportLists]-->3) <!--[endif]-->Mancava la norma dichiarativa del reato, mancava la pena, mancava il giudice, Questa terza ragione che rendeva impossibile il giudizio è quella che il sentimento non solo dei tecnici ma dell’universale avverte subito come assolutamente ripugnante. Ad ogni uomo dotato di un mediocre sentimento di giustizia apparirebbe intollerabile che un reato possa essere giudicato dall’accusatore e la condanna pronunciata dalla stessa parte offesa. Orbene, era un tal modo di giudizio che veniva accolto dall’art. 227. Esso comincia con questa dichiarazione: <>, e continua precisando che <>. Osserviamo di passaggio che la stessa espressione di <> doveva apparire particolarmente odiosa agli Inglesi, che, specie sotto i Tudors e gli Stuarts, attraverso il costume di istituire giudici appositi per casi speciali, avevano sofferto una delle forme più abominevoli della tirannide; onde proprio da tali ricordi storici derivarono i più solenni divieti costituzionali delle carte europee del sec. XIX (cfr. l’art. 71 capov. Dello Statuto Italiano). Che dire poi di quella frase secondo cui si assicurano all’accusato le <>, quando si dimentica che la prima e la più essenziale garanzia è quella dell’imparzialità del giudice? Ora il tribunale speciale in questione doveva essere formato da cinque giudici nominati dalle cinque grandi potenze alleate od associate, cioè dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dall’Italia e dal Giappone, cioè dalle stesse potenze che erano state offese dagli atti di cui si doveva giudicare, dalle stesse potenze che avevano il compito di promuovere e sostenere l’accusa! Perciò fu dianzi avvertito che questa terza anomalia è quella che colpisce più immediatamente e più profondamente la coscienza giuridica, a parte ogni tecnicismo legale; è anche quella che maggiormente rivela il proposito arbitrario. Voglio dire che, muovendo dal presupposto che fosse assolutamente necessario un giudizio punitivo, si può comprendere che, per effetto di questa presunta necessità, si sorpassino gli ostacoli determinati dalla mancanza di una norma e dalla preventiva determinazione della pena. Ma per quanto invece si riferiva alla terza condizione, non si può dire che fosse necessario che il giudice si confondesse con l’accusatore: si poteva, infatti, ricorrere a giudici indicati dalle potenze neutrali. Evidentemente, gli accusatori volevano premunirsi verso ogni possibile dubbio che i giudici non secondassero l’accusa. Non dico che vi fossero delle eccellenti ragioni per evitar ciò: dalle alee di un giudizio affidato a terzi poteva dipendere l’accertamento delle più formidabili responsabilità storiche, influenti persino sulle stesse condizioni della pace. Ma se codesta stessa preoccupazione rivelava che la condanna del Kaiser (cioè della Germania in guerra) dovesse considerarsi necessaria e inevitabile, il giudizio che si intendeva istituire non veniva con ciò a qualificarsi, di per sé, confessatamene, come una colossale ipocrisia?

A questo punto l’indagine può e deve elevarsi ben più in alto. Dicemmo già che il considerare la questione, come abbiam fatto sinora, nei riflessi dei principi (siano pure elementari) del diritto penalistico rappresenta una concessione dialettica fatta a quel sistema che, per l’appunto, pretendeva muovere da precetti dell’ordine penalistico. La verità è che la materia non può contenersi entro quei confini, ed anzi di gran lunga li oltrepassa, onde si pone, verso la stessa ipotesi di un processo del Kaiser, una pregiudiziale che supera le stesse pregiudiziali dell’ordine giuridico. Pensate! Eventi storici che hanno sconvolto il mondo e determinato rivoluzioni e catastrofi che non han precedenti nella storia dell’umanità; troni caduti, le più salde frontiere oscillanti. Stati secolari estinti, nuovi Stati sorti e risorti, milioni, milioni, milioni di morti, gigantesche spaventose distruzioni, tutta questa immensa storia si sarebbe dovuta contenere nelle forme e nelle dimensioni, che sarebbero state sempre relativamente miserevoli, di un processo, in un’aula, davanti un emiciclo dove siedono vecchi uomini in parrucca o in toga e dove sfilano testimoni, avvengono incidenti, tuona in contraddittorio l’eloquenza di avvocati di parte civile o di difesa, finché, dopo qualche decisione interlocutoria, sopravviene una sentenza. E questa sentenza doveva fare stato di fronte alla Storia! Sta in ciò il più grave, il più essenziale errore di quelle proposte che diventaron la parte VII del Trattato: di non aver compreso che certe condanne le può pronunziare soltanto il Destino e che quando Dio interviene, non vi è più posto per i giudizi dell’uomo.

Una simile pregiudiziale bene dicevamo che esorbiti non solo dal diritto penale, ma dal diritto stesso in generale. Non tanto tuttavia da non consentire qualche considerazione che, per l’appunto, riconferma anche sotto l’aspetto del diritto pubblico generale l’assoluta inapplicabilità a priori di un potere punitivo nella questione attuale. Per darsi il subbietto di un’azione penale occorre che esso si trovi in rapporto di soggezione verso la sovranità di uno Stato che sarebbe l’offeso e che la persona sia accusata come individualmente responsabile. Prescindendo anche dalla prima di tali condizioni (che nel caso evidentemente mancava) cioè di un rapporto che assoggettasse il reo alla sovranità dello Stato o degli Stati procedenti, dove mai può riscontrarsi l’individualità dell’imputazione? A meno di essere volontariamente ciechi, qui non s’intendeva giudicare un signor Guglielmo degli Hohenzollern per suoi fatti personali, ma bensì in quanto Imperatore di Germania e per atti compiuti (buoni, cattivi, pessimi, non importa) con quella qualità, eminentemente rappresentativa del suo popolo. Il che val quanto dire che attraverso la persona del Kaiser era il popolo tedesco che veniva processato.

Ora, ciò che più profondamente colpisce in una tale concezione non è già che essa non sia pensabile, ma che, per pensarla, occorre indietreggiare di tre o quattro millenni nella storia della civiltà; occorre una mentalità di primitivi. Ed anzi sono due le idee primitive che bisogna combinare insieme: la prima (che si prolunga sino al Medio Evo), che gli enti collettivi, siano, come le persone naturali, capaci di delinquere e possano essere processati e puniti; l’altra, per cui la responsabilità dell’ente collettivo si confonde sempre con quella dei suoi componenti e così reciprocamente. Considerando più da vicino questa seconda idea, corrisponde ad essa quella nozione semplicista del gruppo sociale che precedette la formazione dello Stato, retrocedendo dalla tribù, alla gente, all’orda. Eran questi gruppi scarsamente differenziati, onde la solidarietà che stringeva fra loro i singoli partecipanti si poneva come assoluta e come immediata: il gruppo si impersonava in ognuno dei componenti di esso; l’atto del singolo era atto del gruppo e ne determinava tutte le responsabilità, attivamente e passivamente, come diritti e come doveri, confondendosi l’elemento individuale con quello collettivo.

La storia antichissima degli Ariani primitivi ci ha tramandato leggende e tradizioni, in cui un rappresentante del gruppo si pone come assertore dei diritti della collettività, alla sua volta rappresentata da uno dei suoi componenti onde il dissidio si combatteva in forma di duello fra i rappresentanti. Ma quel sentimento di solidarietà di gruppo trovò sopra tutto la sua caratteristica forma istituzionale proprio in diritto penale, e questa forma fu anche la più persistente nel tempo. Ed anzi è a tal proposito che in maniera quasi sperimentale meglio si avverte la superiorità della razza latina sulla germanica, come vocazione per il diritto. Ed infatti, mentre è noto che l’originario diritto penale dei popoli ariani, dominato da quel concetto primitivo ed ingenuo della solidarietà di gruppo, si fonda, oltre che sull’espiazione sacrale, sulla legge di vendetta esercitata dal gruppo dell’offensore, - nel diritto penale romano, il più antico che ci sia pervenuto, di quei concetti originari si trovano soltanto vestigia ed avanzi relativamente trascurabili; sin dall’epoca dei primi Re i reati più gravi venivano perseguiti e puniti in nome dello Stato e nell’interesse dell’ordine giuridico generale. Si consideri invece quanti secoli occorsero perché il sistema penale germanico si liberasse da ogni influenza di quelle forme compensative del danno fra il gruppo dell’offeso e il gruppo dell’offensore, e si avrà per così dire la determinazione precisa, nel tempo, di quanto il pensiero giuridico latino anticipi su quello germanico.

Comunque, anche per i ritardatari, siffatte concezioni sono state superate da molti secoli. E da molti secoli, presso tutti i popoli civili, il progresso del diritto è venuto ormai fissando i limiti che separano la volontà e l’azione dei singoli da quelle della collettività. Si è specificata la formazione di quella volontà che, pur appartenendo fisicamente a un individuo, vale per la collettività e l’impegna: per ciò stesso, gli atti in tal modo compiuti non possono considerarsi come individualmente imputabili. Dobbiamo noi ritenere che gli anglosassoni, popoli di origine germanica, abbiano sotto l’influenza della guerra – e di una tale guerra! – subìto come una specie di ritorno verso sentimenti primitivi, confondendo la responsabilità individuale con quella collettiva, ricercando nel Kaiser una colpa a lui singolarmente imputabile pur restando, nel tempo stesso, responsabilità di tutto il popolo tedesco? E su questo popolo si eran fatte gravare, come legge di guerra, le sanzioni più severe: qual mai funzione poteva più avere la condanna di colui che del popolo stesso era stato il rappresentante?

Sotto un altro aspetto, poi, va pure ricordato che l’antichissimo diritto dei popoli germanici (anche in ciò differenziandosi dai latini), conobbe una specie di giudizio di responsabilità che il popolo poteva iniziare contro il proprio re. Ma a parte che tale istituto spiegava la sua efficacia esclusivamente nei rapporti interni, è curioso che siano stati proprio gli inglesi ad apportare nel diritto pubblico la nozione della irresponsabilità giuridica del Re (merito loro grandissimo, in quanto integrato dalla responsabilità di chi si presume consigli il re), stabilendo la massima che <>. Bene dunque dicevamo essere assai curioso che gli inglesi, i quali pongono il proprio re al di sopra di qualsivoglia responsabilità, abbiano poi preteso di sottoporre un re straniero ad un giudizio di responsabilità di cui, secondo il loro diritto stesso, sarebbe mancata l’ipotesi. Ricordo che in una delle discussioni avvenute sull’argomento, Lloyd George accennò al processo contro Carlo I. Ora, tutto il diritto pubblico inglese è una protesta contro la legittimità del processo stesso, tanto che lo stesso Cromwell dichiarò pubblicamente di non aver egli né proposto né approvato quella tremenda risoluzione, pur essendovisi dovuto sottoporre per forza di circostanze, le quali gli apparivano come un disegno della Provvidenza.

Ad ogni modo, se ed in quanto fosse pensabile che un Capo giuridicamente irresponsabile verso il proprio popolo, potesse diventare giuridicamente responsabile di fronte ad uno straniero, nemico, restava sempre la questione della possibilità di una imputabilità individuale di quegli atti. Del lato formale di questa imputabilità ci occupammo dianzi; del lato sostanziale, quand’anche potesse ritenersi (alla quale ipotesi la realtà non sarebbe corrisposta che in materia affatto relativa) che i poteri del Kaiser fossero assoluti e che la volontà e gli atti di lui si trasformassero immediatamente e senz’altro in volontà di tutto il popolo tedesco, qual mai giuspubblicista o sociologo o storico oserebbe credere ad una tale separabilità meccanica fra una coscienza individuale e una coscienza collettiva? I processi di azione e reazione psicosociali sono, certamente, fra i più misteriosi di quanti si presentino al nostro studio; onde invano si pretende di stabilirne in maniera categorica e precisa le leggi particolari. Ma il fenomeno considerato nel suo complesso e come generale non potrebbe esser messo seriamente in dubbio, senza scuotere una delle basi più essenziali di ogni scienza di Stato. La volontà di un Capo – fosse anche il despota più assoluto – si forma sempre in funzione dell’ambiente in cui esso vive, cioè della stessa collettività che è soggetta al dominio di quel capo. Del resto, se di questa verità elementare si volesse una prova, non si potrebbe trovarla più immediata e più trionfante che nella stessa Germania della grande guerra e degli anni che la prepararono: mai popolo apparve più risoluto, più munito, solidale nel suo <<Beruf>> verso il grande cimento. Anche sotto questo aspetto dunque, la pretesa di attribuire caratteri di responsabilità individuale a decisioni e dati essenzialmente collettivi costituiva un assurdo non solo giuridico ma anche politico e storico.

Storicamente, poi, il proposito di processare Guglielmo II non poteva non richiamare il confronto con la prigionia e la morte di Napoleone a Sant’Elena: se ne servì Sonnino nella seduta del 2 Dicembre 1918, a Londra, per combattere la proposta; vi accennò Lloyd George quando, sia pure scherzosamente, discorrendo del genere di pena che si sarebbe potuta infliggere al Kaiser, disse che non mancavano <> nelle grandi solitudini degli Oceani. Ambedue i casi muovono principalmente da un’iniziativa dell’Inghilterra; e se alla buona fama di questo Paese non giovò certo l’agonia di Longwood, io penso che con maggior ragione, nell’interesse della loro fama, gli stessi inglesi dovrebbero esser grati a quelle resistenze per cui il proposito di processare il Kaiser e gli altri accusati restò inattuato. Anche a prescindere dalla diversità di statura dei due uomini, per cui nel genio del Grande Corso poteva con tanta maggiore ragione ravvisarsi una volontà individuale capace d’imporsi a quella di un popolo e di piegarla ai propri disegni (mentre, tutto sommato, Guglielmo II non fu che un uomo medio, se non mediocre). Napoleone si era, esso stesso, consegnato agli inglesi e questi, sino a un certo punto, lo potevano considerare come un prigioniero di guerra; per ciò, dunque, può offendere, ed offende, meno la decisione che il modo onde fu attuata. In ogni caso, mancò allora la pretesa ipocrita di procedere ad un giudizio e di compiere un atto di giustizia.

Furon questi i termini di un dibattito che, postosi subito dopo l’armistizio vittorioso, ebbe la sua conclusione formale negli articoli 227 e seguenti del Trattato, e il suo epilogo effettivo nella virtuale decadenza degli articoli stessi per impossibilità di attuazione, decadenza più o meno rassegnatamente riconosciuta ed ammessa. Vedemmo di sopra come man mano che si era avvicinata la fine della lunghissima guerra, le crudeli ore di ansietà e di tormento che si erano traversate avevano determinato uno stato di collera e di rancore che esplose subito dopo l’armistizio. Un aggravamento di codesto stato era avvenuto proprio fra la metà e la fine del Novembre 1918, essendo allora tornati a Londra decine di migliaia di ufficiali e soldati inglesi già prigionieri di guerra in Germania, i quali avevano narrato delle loro privazioni, delle loro sofferenze, della durezza con cui erano stati trattati, delle <> (questa era la parola usata) cui erano stati sottoposti. Sempre più esaltandosi, l’ira popolare britannica aveva trovato un campo propizio al suo sfogo in quelle elezioni parlamentari che furono, come vedemmo, indette proprio in quel periodo: parve abilità politica profittare di quello stato d’animo, e fu un errore duramente scontato. La espressione di quella che doveva essere la categorica volontà del popolo inglese, si condensò nella formula <<Hang the Kaiser and make the Germans pay the cost of the war>> (Impiccate il Kaiser e fate pagare ai tedeschi il costo della guerra), cioè due impossibilità, giuridica l’una, economica l’altra. Ahimé! Perché l’opinione pubblica se ne convincesse, quanto tempo dovette passare, quante delusioni si dovettero soffrire, quali altre penose fasi, generative, alla loro volta, di altri rancori, si dovettero traversare!

Comunque, quando il primo Dicembre del 1918 io e Sonnino insieme a Clemenceau ed a Foch arrivammo alla stazione di Charing Cross, accolti da un Principe in rappresentanza del Re e da tutti i membri del Gabinetto, da Lloyd George a Bonar Law, a Balfour, ad Austin Chamberlain, a Lord Curzon, a Lord Milner, traversando le vie dell’immensa metropoli, nell’entusiasmo di una moltitudine delirante, era quel grido di vendetta che sembrava dominasse su tutti gli altri. Il Daily Telegraph, pubblicato proprio nel giorno del nostro arrivo, così scriveva <Siamo su ciò irremovibili>>. Ed il Times che, fra i giornali meglio rappresenta quella flemma che per gli inglesi è una forma della loro dignità nazionale, così scriveva proprio in quello stesso primo Dicembre: <<Vox populi non è sempre vox Dei: ma generalmente è così nelle grandi questioni del bene e del male. Non vi è dubbio che la voce del popolo esiga la punizione dell’ex imperatore di Germania>>.

Fu in tali condizioni che nell’adunanza tenuta a Downing Street (ufficio del Primo Ministro britannico) nelle ore antimeridiane del lunedì due Dicembre, il processo del Kaiser fu proposto come primo e, sarebbesi detto, più importante argomento della riunione, che pur doveva gettare le basi del futuro trattato di pace. Come la questione sia stata allora discussa, e poi sospesa, per l’assenza del Presidente americano, e poi ancora affidata allo studio di Commissioni di esperti e finalmente risoluta in una riunione dei Quattro, in guisa da dar luogo alla inserzione nel Trattato degli articoli 227-230, costituenti la parte VII, dal titolo, in inglese, di Penalties, non è il caso di esporre qui. Il diritto, come tecnica, cede a quella che poteva essere e fu l’azione concreta degli uomini di Stato rappresentativi. Per quanto riguarda l’Italia, io debbo limitarmi a ripetere in via di conclusione quanto altre volte ho avuto occasione di dire nel corso di questo articolo, e cioè che io e Sonnino facemmo quanto ragionevolmente si poteva, per impedire quel che a noi appariva come un grave errore, arrivando fino all’estremo limite, al di là del quale si ponevano per noi responsabilità di ben altra natura, in relazione alla difesa di essenziali diritti e di vitali interessi nazionali. Né è il caso di indugiare sugli eventi successivi pei quali gli articoli tutti di quella parte VII del Trattato rimasero inosservati: meglio direbbesi che furono abrogati per in esecuzione, consentita ed ammessa dalle stesse Potenze vincitrici. Quanto al processo del Kaiser, esso incontrò subito le resistenze – così facilmente prevedibili e previste – dell’Olanda, che si rifiutò di consegnare l’imperiale profugo; l’assenso delle Potenze <> si manifestò non solo con la rassegnazione al rifiuto, ma, più direttamente, con l’avere omesso di fare il processo. Non si procede, infatti, anche contro i contumaci?

Più interessante, giuridicamente e politicamente, è il modo onde restarono ineseguiti gli articoli relativi al giudizio dei militari tedeschi. L’art. 228 diceva testualmente così: <>.

Qui innanzitutto si precisava dunque un’obbligazione non di uno Stato neutrale ma della stessa Germania. E fu redatta una prima lista di questi <>, la quale si può desumere da pubblicazioni fatte dal Times nel Febbraio del 1920. Essa comprendeva, fra gli altri, l’ex Kronprinz di Baviera e il duca di Wurtemberg, i generali Hindenburg, von Ludendorff, von Falkenhayn, von Kluck, von Bulow, gli ammiragli von Tirpitz e von Capelle. E poiché il Cancelliere Bethmann-Hollweg aveva, dopo l’accusa contro il Kaiser, assunto su di sé la responsabilità dell’invasione del Belgio, la ricognizione di questo atto di fierezza fu di includere anche lui nella lista dei <>!

Erano questi dei cittadini tedeschi che la Germania doveva consegnare all’ex nemico perché li giudicasse! Vi sono impossibilità morali non meno assolute delle impossibilità materiali. Così, quando nel Febbraio del 1920 questa prima lista fu rimessa al barone von Lersner, Capo della Delegazione tedesca a Parigi, egli si rifiutò di trasmetterla e diede le sue dimissioni. Fu allora la lista direttamente rimessa a Berlino, ma il Consiglio dei Ministri tedesco, con una deliberazione comunicata alla stampa, dichiarò di non potere accedere alla richiesta degli Alleati. Sorvoliamo sulle piccine, se non addirittura meschine risorse diplomatiche onde si cercò di coprire l’inevitabile ritirata; limitiamoci a ricordare la parola finale che si contiene in un rapporto approvato dalla Società delle Nazioni il 18 Dicembre 1920 e in cui si dichiara: <<Non esiste finora alcuna legge penale internazionale riconosciuta da tutte le nazioni!>>.

Tantae molis erat! E’ il caso di dire che una così aperta sconfessione di tutta la Sezione VII del Trattato da parte dell’organismo che lo stesso Trattato aveva creato e in cui prevaleva di gran lunga l’autorità delle Potenze vittoriose, costituisca, secondo la superba espressione dantesca, quella <> la quale <>? Preferiamo metterci da un punto di vista utilitario e realistico e considerare come e quanto l’errore commesso in quella parte del Trattato, sia stato, in concreto, dannoso nell’interesse dei popoli e più specialmente degli stessi vincitori. La ragione è ben semplice: per ciò stesso che quelle disposizioni non potevano essere attuate perché in effetti non era possibile attuarle, ne seguì, in primo luogo, un indebolimento dell’autorità morale del Trattato, onde presso l’opinione pubblica dei paesi neutrali, degli stessi paesi combattenti (soprattutto in America) cominciò a determinarsi una reazione nel senso di commuoversi sulla sorte del popolo tedesco e di considerare eccessive le pene cui era stato sottoposto. Nei rapporti interni della Germania, poi, la ribellione del sentimento nazionale, mentre era esasperata dalle offese, trovava alimento nell’esperienza dell’impunità. E, difatti, il fallimento di quelle infelici disposizioni costituì la prima (e per ciò stesso la più decisiva) dimostrazione della possibilità da parte della Germania di sottrarsi senza danni e, tanto meno, sanzioni coercitive, a tutte quelle imposizioni che costituivano una limitazione della sua sovranità di Stato indipendente. La esasperante moltiplicazione di clausole aventi, verso la Germania, una portata interna e quindi limitatrice della sovranità di essa fu, secondo me, uno dei peggiori difetti del Trattato. E, per verità, che un paese il quale ha perduto una guerra sia costretto a concessioni di natura territoriale o finanziaria, rappresenta da secoli la posta di quel terribile giuoco che è la guerra. Si possono fare riserve di quantità o di modo, perché si sia preso troppo o preso male: ma l’effetto, in sé stesso, di una perdita di territorio, come effetto di una guerra perduta, non può determinare alcuna ripugnanza. Ben diversa è la portata di quelle clausole che limitano la sovranità. Qui non si può fare questione di più o di meno: la sovranità non è un comparativo, è un superlativo. O è, o non è; se è, ripugna ad essa ogni limitazione. Al qual proposito, mi si consentirà di ricordare una risposta da me data, e che può considerarsi, anche, come storica. In un periodo in cui cominciava già a discorrersi della possibilità di una conciliazione fra lo Stato e la Chiesa in Italia, essendo io Ministro di Giustizia e dei Culti, fra il 1908 e il 1910, fui un giorno visitato da un eminente giurista ed uomo politico, noto per la sua grande intimità con la S. Sede, in nome della quale spesso parlava. In quella visita, dopo aver fatto una generica allusione al doloroso contrasto che divideva allora, in Italia, la Chiesa dallo Stato, egli manifestò l’augurio che un tale stato di cose potesse cessare, augurio al quale, per mio conto, dichiarai di cordialmente aderire. Dall’astratto passando al concreto, il mio interlocutore mi chiese le mie impressioni su questo punto: se cioè io ritenessi essere un mezzo adatto a tale conciliazione, che l’Italia riconoscesse un valore internazionale alle garanzie che si contenevano nella legge del 1871. Non esitai un momento, ed anzi con concitazione risposi: <>.

La ragione è evidente. Uno Stato che perde una parte del suo territorio, subisce un’amputazione, ma serba intatto il suo onore e il suo Essere, come persona sovrana. Uno Stato invece il quale, nei limiti del suo territorio, non può esercitare liberamente ed in ogni direzione il suo diritto di comando e il dominio, è uno Stato umiliato nel suo bene supremo: l’indipendenza. Per gli Stati, come per gli individui, non vi è via di mezzo: se non si è liberi, si è servi.

Per effetto di tutta una concatenazione di errori (che qui non è il caso di accennare, neanche sommariamente) la Francia, in compenso di quelle garanzie territoriali che voleva e che le furon negate, si lasciò indurre ad accettare tutta una serie di garanzie di altra natura, le quali si risolvevano in altrettante limitazioni della piena sovranità ed indipendenza dello Stato tedesco. Erano intollerabili, e non furono tollerate.

Fra esse, quella che imponeva impossibili giudizi e consegne per dar luogo a consecutive sicure condanne era la più assurda e la più odiosa; fu perciò la prima verso cui la Germania si ribellò. Si badi: era il periodo della sua maggiore depressione militare, finanziaria e politica, cioè nel principio del 1920. Di tanto più significativa doveva essere la resistenza seguita da vittoria. Venne così segnata la via, la quale fu interamente percorsa con un ritmo sempre più accelerato, quando la reazione del nazionalismo germanico esasperato trionfò in forma di nazismo. Per gradi successivi, vennero meno quegli obblighi in tema di riparazioni, che pur essi incidevano sulla piena sovranità economica e finanziaria, fase che culmina nel 1932; venne poi, prima sottilmente, poi sempre più apertamente, l’inosservanza dei molteplici interventi e controlli che dovevano assicurare il divieto di riarmarsi (1935), per arrivare ad una forma di aperta, dichiarata ribellione al Trattato negli articoli che imponevano la neutralizzazione dei paesi renani, prima rioccupati militarmente e poi difesi con opere di fortificazione (1936). Sommamente caratteristica è in tal senso la dichiarazione fatta il 15 Novembre 1936, con cui la Germania ha ripudiato le clausole del Trattato di Versailles relative ai suoi grandi fiumi internazionali. Ciò che dà a questo atto un valore tanto più significativo, è la sua inutilità pratica: la Germania non era stata mai effettivamente limitata nella sua sovranità da quelle clausole, ed anzi erano in corso negoziati per cui lo stesso valore formale di esse sarebbe venuto meno. Il gesto del Cancelliere Hitler ebbe quindi un valore meditatamente simbolico: esso rivendicò di fronte al Trattato del 1919 la piena autonomia sovrana, la quale in una convenzione può trovare solo un limite, in quanto sorretto da una volontà permanente e quindi restando sempre salva la condizione della denunciabilità. Orbene, il primo passo verso questa rivendicazione ormai totale, fu fatto per l’appunto a proposito degli articoli intorno le responsabilità della guerra e relative pretese consegne e giudizi. Avrebbe qui il Tayllerand applicato il suo detto famoso: peggio che un delitto – per altro rimasto semplicemente tentato – si era commesso un errore.

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<!--[if !supportFootnotes]-->[1]<!--[endif]--> Salvatore Lener S. I., Dal mancato giudizio del Kaiser al processo di Norimberga, in Civ. Catt., 2 Marzo 1946, p. 332.

<!--[if !supportFootnotes]-->[2]<!--[endif]--> Sul trattamento riservato ai tedeschi dai vincitori della guerra si veda, di Freda Utley, The High Cost of Vengeance, in rete all’indirizzo: http://www.vho.org/GB/Books/thcov/ . In particolare, sulla “giustizia” di Norimberga si veda il capitolo 6: http://www.vho.org/GB/Books/thcov/6.html