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E' lecito a un cristiano militare? Alcune riflessioni sul caso di Massimiliano

di Francesco Lamendola - 14/12/2007

 

 

 

 

A Tebessa, in Numidia, il 12 marzo del 295 viene decapitato un giovane di nome Massimiliano che ostinatamente ha rifiutato di lasciarsi arruolare nell'esercito romano. Di buona famiglia, robusto e di alta statura (m. 1,76: al di sopra della media, data l'epoca e data la regione), al magistrato che faceva di tutto per convincerlo e gli ripeteva: Milita, ut ne pereas, inflessibilmente aveva risposto: Non possum militare: christianus sum. Il suo martirio, a lungo venerato dalla chiesa di Cartagine, che ne andava orgogliosa (al punto da concedergli la sepoltura ai piedi del patriarca Cipriano) e tramandato dagli Acta con profonda ammirazione, tocca un nervo sensibilissimo dei rapporti tra cristianesimo e Impero Romano nel III secolo.

Massimiliano, infatti, non rifiuta "soltanto" di rendere atto di culto all'imperatore o alle divinità pagane, ma di lasciarsi arruolare e di prestar servizio militare nell'esercito; e ciò in un momento particolarmente delicato dal punto di vista politico-militare, con le popolazioni barbariche che premono, sempre più minacciose, lungo tutto l'immenso limes. Al magistrato che gli ricorda la sua giovane età e che ha fatto chiamare il padre di lui per tentar di convincerlo, il giovane risponde con intransigente fierezza (P. Siniscalco, Massimiliano. Un obiettore di coscienza del tardo impero, Torino, 1974):

 

"Io non farò il soldato. Puoi tagliarmi la testa, ma non servirò negli eserciti del mondo, io sono un soldato del mio Dio."

 

Possiamo immaginarci la scena: il procuratore Dione che si vede costretto a emettere una sentenza capitale, probabilmente di mala voglia; la comunità cristiana divisa fra l'ammirazione e il timore che il suo gesto inasprisca ulteriormente i rapporti con il governo di Diocleziano; la comunità pagana, di contro, sdegnata da questa ennesima riprova della slealtà e inaffidabilità dei cristiani in quanto cittadini dello Stato romano.

Assai pertinenti e ponderate le parole di Remo Cacitti in un articolo di quasi trenta anni fa, ma sempre estremamente attuale Masimiliano. Un obiettore di coscienza del tardo impero (su Humanitas, Morcelliana Editrice, Brescia, 1980, n. 6, pp. 828-831):

 

"Il caso di Massimiliano c'introduce al centro di un serio dibattito che aveva impegnatole chiese cristiane antiche da oltre un secolo e che travalica i confini della pur importante questione della legittimità, per un cristiano, di prestare servizio militare, per gettare sonde inquietanti nel più vasto mare dei rapporti fra cristianesimo e società (allora identificata con l'Impero Romano, recuperando - e qui risiede l'eccezionalità del documento - la voce di quel cristianesimo 'sommerso' che ci è pervenuta generalmente attutita dalle mediazioni dei vescovi e dei teologi. Ma proprio dall'ascolto di queste testimonianze 'di base' (e non contesto certo la reciprocità dei rapporti fra vertice e base), si è costretti ad ampliare ancora la prospettiva in una direzione assai stimolante, che coinvolge direttamente alcune questioni cruciali della riflessione cristologica ed escatologica, forse oggi come non mai bisognose di serene verifiche.

"Una vera e propria 'questione militare' insorge nelle comunità cristiane contemporaneamente all'aggravarsi della situazione difensiva dell'impero: proprio nell'ultimo scorcio del II secolo infatti, anche il potere imperiale era intervenuto - attraverso uno dei suoi più influenti portavoce, Celso - a richiamare i cristiani a una leale assunzione di responsabilità di fronte alle minacce che gravavano lungo i confini:

"«Se tutti facessero come voi [cristiani], nulla impedirebbe che l'imperatore rimanesse solo e senza aiuto e che tutta la terra divenisse preda dei barbari» (Origene, Contra Celsum, 8, 68).

"La pesante accusa, considerando la fonte che la muove,  è indubbiamente vera: i cristiani fino a quel punto devono aver dato prova di uno scarso senso dello stato e di una inaccettabile tiepidezza (quando non proclamata ostilità) verso il servizio in armi. Ma l'intervento di Celso è troppo importante per le comunità cristiane per non meritare una risposta: Origene vi dedica appositamente uno scritto in cui confluisce e si articolo tutta la riflessione cristiana precedente: innanzitutto «i cristiani non sanno più fare la guerra perché sono figli della pace»(Origene, Contra Celsum,5, 33). Qual è dunque il tipo di aiuto che possono portare in vaso di pericolo per l'impero?

"«I cristiani combattono come sacerdoti e servitori di Dio, mantenendo pura la loro destra e rivolgendosi a Dio con le preghiere»(Ibidem., 8, 73). 

"Non so se Celso si sarebbe contentato di questo contributo, che deve essere parso non molto convincente anche ai contemporanei, e su cui la storiografia moderna ha tentato una lettura che ne estendesse la portata, facendo di Origene una sorta di precursore della curiosa teoria della 'guerra giusta', se non addirittura 'santa'. La preghiera dei cristiani infatti non può assolutamente essere interpretata come una scelta di campo a favore di uno dei contendenti, ma innanzitutto come un contributo alla radicale eliminazione di ogni guerra: «Con le nostre preghiere [prosegue Origene] noi distruggiamo tutti i demoni che suscitano le guerre, fanno violare i giuramenti e turbano la pace», per cui il combattimento dei cristiani altro non rappresenta che l'imitazione di quello che Gesù ha condotto contro le potenze demoniache, i peccati e i vizi: «guerre dei giusti [a giudizio di Origene] si devono intendere quelle che essi combattono contro il peccato» (Origene, Mom. in Jos. 8, 7).

""Impregiudicata rimaneva, ovviamente, l'individuazione storica di quelle potenze demoniache, e non posso - nel caso di Origene - dimenticare come egli fosse figlio di un martire e confessore lui stesso.

"L'indicazione della letteratura cristiana antica sul servizio militare è, fino all'avvento di Costantino, costante e univoca: per Giustino il martirio è l'estrema coerenza del rifiuto della violenza, per Tertulliano il mestiere del soldato non si differenzia da quello dei gladiatori e dei briganti, tanto che il suo rifiuto diventa in negativo quasi carattere distintivo della società del cristiano: «tanto il soldato è pagano fedele, quanto il pagano è soldato fedele» (De cor., 11, 5).

"Tutta la tradizione africana è solidale in questa linea: per Cipriano «l'omicidio è chiamato delitto quando è commesso da un individuo, mentre è considerato atto di valore quando si esercita per ordine dello Stato», sì che, dunque, in forza di questa ipocrita doppia morale «non la considerazione dell'innocenza, ma l'enormità della ferocia rende impuniti i delitti» (Cipriano, Ad Donatum, 6).

 

In effetti, da tempo l'atteggiamento dei cristiani verso il rifiuto del servizio militare era stato contraddistinto da una forte ambiguità. Non tutti condividevano l'intransigenza del rifiuto categorico e di principio; alcuni ritenevano che i cristiani, per convincere le autorità civili che essi erano leali cittadini quanto tutti gli altri, fosse opportuno non sollevare tale questione in termini assoluti, bensì, eventualmente, solo se ai soldati veniva richiesto di compiere sacrifici religiosi agli dei o ai sovrani.

Tertulliano, uno dei più autorevoli padri della chiesa occidentale, non era fra quelli che avevano nutrito dubbi o incertezze: la sua posizione era sempre stata dura e intransigente. Nel De idolatria, cap. XIX, si era espresso categoricamente contro il servizio militare dei cristiani, anche se, nel De corona, aveva specificato che tale proibizione valeva per chi, cristiano, era ancora nella condizione civile, non per quei militari che si erano convertiti al cristianesimo durante il loro servizio. Come osservano Italo lana e Armando Fellin (Civiltà letteraria di Roma antica, Messina-Firenze, Casa Editrice G. D'Anna, 1976, vol. 3, p. 586):

 

"A stretto rigore, non v'è contatto possibile fra la vita dei pagani e quella dei cristiani. Storicamente, si poneva si poneva con una certa urgenza, al tempo dei Severi, restauratori della disciplina militare, il problema del servizio militare. Può un cristiano arruolarsi nell'esercito, giurare fedeltà all'imperatore? Tertulliano nel De Corona è per il no; tuttavia, e con un certo imbarazzo, non vieta, a chi si converta quando  già sia sotto le armi, di continuare a portare la divisa, ma riafferma comunque l'incompatibilità fra i doveri del cristiano e quelli del militare di professione. Egli è, in sostanza, favorevole, nelle condizioni storiche in cui si trova a vivere, all'obiezione di coscienza."

 

Ma cediamo la parola allo stesso Tertulliano (La corona, traduzione di Pier Angelo Gramaglia, Roma, Edizioni Paoline, 1980, pp. 137-139):

 

"È accaduto poco fa. Si distribuiva in caserma per appello nominale una gratifica di paga concessa dalla magnanimità dei gloriosissimi imperatori, i soldati si presentavano con una corona di alloro sul capo. Ma uno di loro, assai più soldato di Dio e molto più coraggioso di quegli altri fratelli i quali si erano invece illusi con la presunzione di poter servire a due padroni (Matteo, 6, 24; Luca, 16, 13), lui, unico tra tutti, si presenta all'appello  a testa scoperta, tenendo in mano la corona senza usarla.

"dal suo atteggiamento tutti capivano ormai che era un cristiano.

"Splendido cristiano che dava nell'occhio a tutti!

"Allora gli altri soldati, uno dopo l'altro, cominciarono a segnarselo a dito, quelli più lontani se la ridono, quelli più vicini invece si arrabbiano. Immediatamente si sentono per tutto il campo i commenti a bassa voce. Il soldato viene denunciato e portato di persona davanti al tribuno; ormai era arrivato al suo turno.

"Il tribuno gli fece subito una domanda: Perché questo atteggiamento così diverso da quello degli altri soldati?

"Quello rispose: Non mi è lecito comportarmi come fanno gli altri.

"Gli si chiese il motivo ed egli rispose: Perché sono Cristiano.

"Che meraviglioso soldato! In Dio è tutta la sua gloria!

"Si prende allora la decisione di processarlo, si stende agli Atti una denuncia formale e il soldato incriminato viene inviato al tribunale militare prefettizio.

"Subito depose il pesantissimo mantello militare, iniziando in tal modo ad alleggerirsi con le sue dimissioni, poi si slacciò dai piedi le ingombrantissime calzature poetate dal suo reparto speciale e così senza calzature  poteva ormai mettere i piedi (come Mosé) su una terra santa (cfr. Esodo, 3, 5; Atti, 7, 33); restituì pure la spada che certo non è necessaria per difendere il Signore (cfr. Matteo, 26, , 52-53; Giovanni, 18, 11) e alla fine anche la corona di alloro non la teneva neppure più in mano.

"Adesso quel soldato ha addosso un altro rosso mantello che è la speranza di versare il suo sangue; le sue calzature gli vengono ora dall'equipaggiamento fornito dal Vangelo; al fianco porta una spada ben più affilata, quella della parola di Dio, e tutte le sue armi sono quelle  indicate dall'Apostolo (Ebrei, 4, 12; Efesini 6, 14-17); sta per ricevere una corna assai più bella, quella del martirio, fatta di alloro splendente (Apocalisse 14, 14; 4, 4)mentre in carcere attende di ricevere quella gratifica di paga che Cristo sta per dargli.

"Poi si fa il processo contro di lui; si tratta di processi caratteristici dei pagani ma sta a vedere che quel soldato è già stato condannato anche dai Cristiani! A quel soldati furono contestate infatti l'incoscienza che lo portava alla rovina , la sua scelta precipitosa e sconsiderata nonché la sua malsana voglia di morire, perché interrogato sul suo comportamento avrebbe tirato in ballo la questione del suo essere cristiano mettendo nei guai anche gli altri cristiani, i quali appunto lo criticavano commentando: Ma chi si crede di essere! Solo lui pensa di essere coraggioso a diversità di tanti fratelli, soldati assieme a lui, solo lui crede di comportarsi da cristiano!
"Ma a quella razza di cristiani che hanno già rigettato le profezie dello Spirito Santo non resta che compiere un altro passo, darsi da fare per buttar via anche il martirio, che viene dallo steso Spirito."

 

Il problema dell'atteggiamento da tenere, da parte dei cristiani, nei confronti del servizio militare, conobbe anche una certa evoluzione nel corso del tempo, e questo può spiegare come, in generale, essi siano passati da una rigida intransigenza a posizioni via via più possibiliste. I cristiani delle prime generazioni attendevano con trepidazione e, poco alla volta, con crescente impazienza la fine del mondo: ma questa attesa, che è evidente sia nell'Apocalisse che nelle lettere di san Paolo, cedette il campo a una sorta di paziente rassegnazione. Ben prima che, con Costantino e il cosiddetto editto di Milano, la religione cristiana venisse liberalizzata in tutto l'impero, alcuni scrittori cristiani avevano cominciato a domandarsi se l'impero, dopo tutto, non fosse stato voluto dalla Provvidenza divina, proprio perché la vera religione si potesse diffondere in ogni angolo della Terra. E, se questo era vero, ne conseguiva che il giusto atteggiamento da tenere nei confronti dell'impero non era quello di una sdegnosa sopportazione in attesa della fine dei tempi, bensì un'ampia e leale collaborazione, in quanto si trattava di partecipare ai disegni della stessa Provvidenza.

Troppo lungo sarebbe approfondire queste tematiche, che richiederebbero uno studio a sé di cospicue dimensioni. Tuttavia ci sembra che l'esempio di Massimiliano ponga una questione centrale dei rapporti fra stato e religione cristiana, in quanto quest'ultima si caratterizza per un rifiuto radicale e definitivo della violenza. Né giova osservare che la vicenda del martire africano si colloca in un contesto completamente diverso da quello odierno, essendo l'Impero Romano prima di Costantino (anzi, prima di Teodosio) basato su una coincidenza assoluta della sfera pubblica e statuale e della sfera religiosa pagana. Infatti, il problema della liceità o meno, per un cristiano, di esercitare la professione delle armi, travalica la connotazione giuridica e politica di questo o quello stato determinato e investe una sfera etica di carattere generale. In altri termini, se il radicale rifiuto di Massimiliano fu giusto, non si vede come oggi potrebbe essere contraddetto da una pratica di segno opposto, ancorché entrata nell'uso; se invece fu coraggioso, ma fondamentalmente sbagliato, allora bisogna avere la franchezza di affermare che esso lo sarebbe stato in ogni caso e, pertanto, sarebbe sbagliato anche al giorno d'oggi.

Naturalmente è impossibile decidere la questione facendo astrazione dal punto di vista che s'intende adottare, quello della religione o quello dello stato. Per lo stato, pretendere la coscrizione obbligatoria dai propri cittadini, quanto meno in caso di guerra, è un diritto assolutamente legittimo, ancorché discrezionale (ricordiamo che nella Gran Bretagna imperiale il servizio militare era  volontario e tale rimase per qualche tempo perfino dopo lo scoppio della prima guerra mondiale). Viceversa, per una religione come quella cristiana, basata sul ripudio di ogni forma di violenza in nome dell'amore di Dio e del prossimo - il cuore dell'insegnamento di Gesù Cristo, che in tale comandamento si può riassumere - a noi sembra altrettanto scontato il diritto-dovere di non usare le armi per uccidere il prossimo. Sappiamo bene che, specialmente in regime di democrazia liberale, si sono elaborate delle teorie tendenti a giustificare e legittimare, anche dal punto di vista etico, la guerra difensiva, presentata come guerra "giusta". Tuttavia ci pare che si tratti di teorie alquanto capziose, che tali si rivelano specialmente ai nostri giorni, davanti alla dilatazione del concetto di "guerra difensiva" oltre ogni limite ragionevole, fino alla aberrazione giuridica e politica di una guerra che si vorrebbe, al tempo stesso, giusta e preventiva.

Si obietterà che la presenza dei cappellani militari, che oltretutto rivestono i gradi di ufficiale, smentisce una tale interpretazione del rapporto fra cristianesimo e guerra, in termini di assoluta inconciliabilità. Non siamo d'accordo, perché la figura del cappellano militare, anche se ha finito per diventare - attraverso la benedizione delle bandiere, la preghiera di vittoria sul nemico e  pratiche simili - una esplicita approvazione sia della guerra (naturalmente giusta: ma quale stato non la presenta come tale?), sia dell'apparato militare in se stesso, fondamentalmente non avrebbe tale significato. Si tratta piuttosto di un istituto sorto per fornire assistenza religiosa e spirituale ai soldati, cosa che in teoria potrebbero fare anche dei sacerdoti di condizione civile; ma che i frequenti spostamenti dei reparti militari in tempo di pace, e di assoluto isolamento in tempo di guerra, renderebbero impraticabile dal punto di vista logistico.

Non pretendiamo di aver detto la parola definitiva su un argomento tanto delicato; è un fatto che da duemila anni se ne discute e se continua a discutere, segno che non si tratta di qualcosa di semplice. Del resto, il nostro parere è che qui si tocchi un aspetto di una problematica assai più vasta: e cioè delle possibile, diversa interpretazione complessiva del messaggio cristiano; che, da sempre, oscilla fra una lettura radicale dei valori evangelici, colti in ciò che essi hanno di assolutamente rivoluzionario e tendenzialmente indifferente ai valori della politica; e una lettura più morbida e compromissoria, più attenta alle esigenze del "mondo" e quindi meno rigorista e intransigente a livello morale. Se si riflette che, storicamente, tale dicotomia è emersa, e in modo tragicamente conflittuale, perfino all'interno dell'ordine francescano (con lo scontro fra conventuali e spirituali),  che era nato proprio per rivitalizzare le energie morali della chiesa mediante un ritorno purificatore alle sorgenti stesse del Vangelo, non stupirà certo che il conflitto sia emerso nei rapporti fra cristianesimo e società civile, la quale ultima persegue un suo disegno che può anche essere assai lontano dalle esigenze morali del cristianesimo.

Resta il problema della difficoltà, per non dire della impossibilità, di ridurre a unità i due differenti punti di vista della religione e dello stato sul problema dell'esercizio delle armi. Lo stato liberale (per limitarci a questo caso particolare, e storicamente assai recente), in teoria dovrebbe garantire a ogni cittadino il libero esercizio delle proprie convinzioni morali; d'altra parte, qualunque stato (e dunque anche uno stato liberal-democratico) non può accettare che aspetti essenziali della sua organizzazione siano posti in forse da riserve di carattere morale dei cittadini, tali da fargli venir meno il necessario sostegno - specialmente nei momenti di maggiore necessità o pericolo. Apparentemente si tratta di un conflitto indecidibile, perché entrambi i punti di vista - quello della religione e quello dello stato -, assunti nell'ambito che è loro proprio, hanno un perfetto grado di legittimità e di ragionevolezza. E allora?

Questo, a nostro avviso, è uno dei nodi nei quali viene al pettino il problema di fondo della stessa condizione umana, ossia l'esistenza contemporanea, all'interno della medesima persona, di quella che altrove abbiamo chiamato una doppia cittadinanza: una appartenenza sia alla sfera del contingente, del relativo e del finito, sia a quella del necessario, dell'assoluto e dell'eterno. In quanto creature terrene, siamo portati a identificarci con le esigenze, le aspirazioni e gli orizzonti della società in cui viviamo; in quanto creature ultraterrene, sentiamo il richiamo verso dei doveri diversi e più alti, verso una condizione di esistenza libera dalle preoccupazioni e dai desideri immediati: una condizione totalmente altra.

È chiaro che le due cittadinanze, talvolta, possono entrare in conflitto. Ed è chiaro che talvolta ciascuno di noi può trovarsi in contraddizione con se stesso, diviso e lacerato fra opposti richiami e fra diverse concezioni del dovere.

Ebbene in quei casi, a nostro parere, dovrebbe sempre valore l'antica, saggia massima di san Tommaso d'Aquino. Ogni qual volta ti trovi in dubbio sulla giusta strada da intraprendere, rivolgiti al tribunale superiore della tua coscienza. Lui e solo lui, in ultima istanza, sarà in grado di dirti quel che va fatto.