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Camionisti e dintorni. Dallo sciopero “politico” allo sciopero “economicista”

di Carlo Gambescia - 14/12/2007

 

Oggi si tende a porre l’accento sulla necessità di limitare gli scioperi nei vari settori, per evitare “danni ai consumatori”. In questo modo però è come se si chiudesse un ciclo politico-sociale, apertosi in Italia nel 1904, con il primo sciopero generale. Inteso all'epoca da molti sindacalisti, soreliani e non, come una specie di prova generale della rivoluzione. E che invece provocò solo molti arresti e denunce penali.
Semplificando: in un secolo si è passati dallo sciopero politico allo sciopero economico. E grosso modo il punto di svolta può essere rappresentato dal fallimento (rivoluzionario) del Sessantotto. Nello sciopero politico si puntava alla rivoluzione (o comunque alla sua “prova generale”), in quello economico, o meglio economicista, come poi vedremo, si punta al miglioramento, giustificato o meno, delle proprie condizioni sociali. In fondo al primo si scorgeva l’immagine eroica dell’operaio, come soldato della rivoluzione; in fondo al secondo un gretto e spesso agitato piccolo borghese universale
Pertanto scioperi come quelli dei camionisti e dei tassisti non hanno nulla di rivoluzionario, e sia detto con tutto il rispetto per le loro difficili condizioni di lavoro. Ma si limitano, sotto l'aspetto strutturale, a “strappare” maggiori profitti ( e non importa se economicamente ridicoli, rispetto a quelli fruiti nelle alte sfere del sistema), secondo lo schema tipico delle attuali società neoliberiste o presunte tali, tutte basate su un forte conflittualismo economico (economico, attenzione, non politico).
In questi scioperi non c'è perciò nulla di eversivo, come invece ritengono maliziosamente professori “riformisti” del Corriere della Sera come Ichino. Ma c'è soltanto l’emulazione, da parte di alcune categorie, di quella lotta per l’esistenza senza esclusioni di colpi, che caratterizza la società neoliberista.
Tuttavia se si celebrano quotidianamente i valori del conflitto economico come sano prodotto del liberismo ( conflitto che tra l’altro viene giudicato un buon antidoto al conflitto politico), non ci si può poi lamentare del fatto che alcune categorie non avvertano i “valori comuni”. Nel senso di una autodisciplina dei vari gruppi sociali, in nome di un bene comune, inteso come superiore e non pura sommatoria di quelli delle diverse categorie .
Ma come vi può essere autodisciplina in una società neoliberista? Dove si incensa l' homo oeconomicus… Ovvero una specie di omuncolo che si rianima soltanto quando scorge la possibilità di succhiare il sangue di altri omuncoli… Cari professori - e ci si scusi la caduta di tono - raccogliete i frutti di quel gretto individualismo economicista che avete seminato. E che purtroppo continuate a seminare.
Un altro aspetto significativo è rappresentato dal fatto che i professori di cui sopra, si appellano agli interessi dei consumatori; interessi che verrebbero gravemente colpiti dagli scioperi. In questo modo però si finisce per opporre interessi ad altri interessi. Dando così una ulteriore spinta alla totale “economicizzazione” del conflitto sociale. Insomma, alla guerra economica di tutti contro tutti. Complimenti.
Di conseguenza il problema degli scioperi economici diventa così irrisolvibile. Se non con la repressione, come pretendono i professori del Corriere della Sera, o con la resa incondizionata come propone quella specie di paludoso Centro Politico che raccoglie i molteplici rottami della destra e della sinistra, sotto l'etichetta del riformismo. Poveri noi.
Il che mostra in definitiva come la società neoliberista, fondata sugli interessi e priva di valori comuni, sia costitutivamente incapace di fuoriuscire da una riduttiva logica economicista. Una mentalità che ormai si è estesa a tutti i gruppi sociali, corrompendoli. Ma prova pure come lo sciopero generale politico-rivoluzionario, evocato ai suoi tempi da Georges Sorel, sia, purtroppo, una specie di reperto archeologico.
Se questa società un giorno cadrà, cadrà per questioni di interesse.