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La dieta dei 150 chilometri. Come provare (e riuscire) ad alimentarsi con prodotti locali

di Susan Cosier - 14/12/2007

Fonte: eddyburg.it


 

Come provare (e riuscire) ad alimentarsi prevalentemente con prodotti locali, anche se si vive in una grande area metropolitana.



Troverei qualunque scusa per andare al mercato con le bancarelle, così quando ho sentito parlare della dieta dei 150 chilometri – consumare alimenti prodotti in un raggio di 150 km da dove si abita – dovevo assolutamente provarla. Mi chiedevo se fosse possibile una sussistenza con cibi cresciuti e allevati attorno a New York City. Così in un caldo giorno d’autunno dello scorso settembre ho preso la mia borsa di tela da un armadio e sono andata al farmer’s market di Union Square a Manhattan. Avevo la sensazione di vagare in un enorme orto. C’erano banchi pieghevoli coperti da teloni lungo un percorso pedonale stracarichi di rigogliosi cespi di lattuga, melanzane violacee e bitorzolute patate dolci. Mazzi di radicchio, bietole e carote mostravano le radici appuntite. C’erano pomodori, tutti di colori diversi, disposti a quadrati come una coperta scozzese. Con solo qualche eccezione, arrivava tutto da un raggio massimo di 300 km da New York City: abbastanza vicino.
Prima di quel giorno, non ero una gran esperta di alimentazione locale. Quello che mi incuriosiva della dieta, erano i vantaggi ambientali: comprare localmente significa meno combustibili fossili bruciati per i trasporti degli alimenti, il che significa meno inquinamento e meno gas serra rilasciati nell’atmosfera. Ma acquistare esclusivamente locale richiede parecchia fatica, e può essere difficile capire l’origine di molti alimenti. Inoltre, si tratta di una dieta che può essere costosa, e la scelta è limitata ai prodotti di stagione.


Le Origini

Il concetto di dieta dei 150 chilometri ha iniziato a diffondersi nel 2005 quando i suoi pionieri, James MacKinnon e Alisa Smith, hanno deciso di consumare alimenti prodotti entro un raggio appunto di 150 km dalla loro abitazione a Vancouver, città circondata da montagne, con una valle e l’acqua. “Era un territorio grande a sufficienza per contenere il potenziale di alimentarci, ma piccolo abbastanza per essere genuinamente locale” spiega MacKinnon. Sono sopravvissuti per raccontare la loro esperienza nel libro Plenty:One Man, One Woman, and a Raucous Year of Eating Locally, sugli scaffali delle librerie dallo scorso maggio. Lo stesso mese, è uscito il testamento della romanziera Barbara Kingsolver per mangiare cibi di casa insieme alla famiglia, Animal, Vegetable, Miracle.
Definire l’idea di “locale” entro un certo raggio non è un’idea nuova. Gary Nabhan, scrittore e fondatore di Native Seeds/SEARCH, organizzazione senza scopo di lucro per la cnservazione dei semi tradizionali che legano al suolo i Nativi Americani, si è alimentato con prodotti entro un raggio di circa 400 km dalla sua casa in Arizona per un anno, nel 2000.
Anche se ero ispirata da questi consumatori coscienziosi, il solo decidere cosa avrei mangiato a colazione iniziava già a rendermi nervosa. Mi sono preparata a escludere qualcosa: niente caffè, tè, succo d’arancia. Mi sono preparata dei menu, e ho parlato con gente che aveva sperimentato la dieta, ma dato che la mia riuscita dipendeva dal contesto locale, i consigli di chi sta in un posto diverso non sono stati di grande aiuto. Comunque, mi sono sentita incoraggiata guardando quella gente che verificava la qualità dei prodotti sulle bancarelle stracolme.


Girare per la spesa

Andandomene da Union Square, con due borse rigonfie di roba, ho ricapitolato mentalmente i miei acquisti: cinque pannocchie di granturco e un cetriolo della Migliorelli Farm, $2,50; tre etti di platessa dalla Long Island Sound, $2,25; poi pomodori, peperoncino e una melanzana dalla Oak Grove Plantation, $8,80. Purtroppo, avevo ancora bisogno di cose come burro e latte, che si sarebbero – rispettivamente – sciolto e versato se me li fossi portati a casa dal mercato.
A Union Square i prezzi dei prodotti sono alti, ma un nuovo studio condotto dall’Università di Seattle mostra come nella maggior parte dei farmers’ market siano in effetti più bassi che nei tradizionali negozi alimentari. Di norma, per mangiare spendo 125 dollari ogni settimana. Facendo il conto di tutti i miei acquisti al mercato e aggiungendo le cose che ancora dovevo comprare, ho valutato che nel mio caso, la dieta dei 150 chilometri costa circa 160 dollari al settimana: quasi il 30% più del normale.
Per latte e burro, sono andata al negozio di cibi biologici del mio quartiere. Alla cassa mi hanno spiegato che prima tenevano dei prodotti locali, ma trovavano sempre almeno una confezione rota nella consegna, e hanno smesso di fornirsi lì. Trovare prodotti base locali si stava rivelando più difficile di quanto immaginato. Ho cercato miglior fortuna da Whole Foods. L’incaricato del negozio mi ha detto che lì è locale l’80% degli alimentari in vendita, e che l’origine è segnata sull’etichetta insieme al prezzo. Ho anche trovato prodotti freschi che mi erano sfuggiti al mio negozio biologico di quartiere, come il burro della Ronnybrook Farm Dairy, a quasi esattamente 150 km di distanza.
Ma sono pochi i negozi che rendono facile capire da dove vengono i loro prodotti. Raoul, l’impiegato di Steve’s C-Town, negozio di catena vicino al mio appartamento, spiega che loro comprano i vari prodotti da parecchi dei 50 grossisti che operano a Hunt’s Point nel Bronx, il posto più conveniente del mondo.
Ananas dalle Filippine, banana dal Costa Rica e avocado dalla California viaggiano fino a Hunt’s Point in camion, treno, nave o aeroplano, e poi nei supermercati come C-Town. Contemporaneamente, molte cose prodotte sul mercato locale non vengono commercializzate localmente. “Gli americani sarebbero sorpresi scoprendo che gran parte dell’agio che si trova nei supermercati viene dalla Cina” spiega Brian Halweil, autore di Eat Here: Reclaiming Homegrown Pleasures in a Global Supermarket.


Mangiare

Il mio tavolo della cucina si vedeva a malapena, sotto tutta quella frutta e verdura. Il mio progetto di pasto comprendeva zucca al forno con un po’ di burro, con zucchero di canna e un po’ di sherry per cucinare. Ho esitato un po’ sull’usare zucchero e sherry – nessuno dei due è un prodotto locale – e poi ho deciso per il si. Dopo tutto, cosa c’è di buono in un dieta senza qualche digressione?
Sono una cuoca orrenda, ma dopo aver sentito il profumo di zucca che usciva dal forno volevo quasi telefonare al Food Network. Ho assaggiato il capolavoro, ed ero al settimo cielo. Era profumato, appagante, e confortava in modo particolare sapere che con le mie scelte alimentari facevo del bene alla comunità, e al mondo intero.
Nelle settimane seguenti, ho mangiato cipolla rossa, insalata di cetrioli e aneto, patate rosse e melanzane trifolate, zucchini al rosmarino, pomodori, basilico e formaggio di capra, godendomi tutti questi cibi freschi. Anche se ora non seguo più in modo esclusivo la dieta dei 150 (né dei 300) chilometri, continuo a inserire questi prodotti nella mia alimentazione: e continuo a andare ai mercati, a Union Square o a Prospect Park. Attorno al gusto per i prodotti locali, sta crescendo una comunità di epicurei, tradizionalisti e ambientalisti. Per dirla con Cheryl Nechamen, una attivista che propaganda nella sua zona la dieta dei 150 chilometri: “Interessa molte persone, per molte ragioni diverse”.

Nota: sullo stesso tema si veda qui anche l'articolo di Robert Freudenberg da Spotlight on the Region (f.b.)

Titolo originale: The 100-Mile Diet – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
E Environmental magazine,
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