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Panikkar e la crisi del mondo moderno

di Paolo Vicentini - 30/12/2005

Fonte: estovest.net

 

Credo sia meritevole di interesse considerare il pensiero di Panikkar anche da un altro punto di vista, oltre a quello meramente teologico per il quale è forse maggiormente noto. Panikkar, infatti, è un teologo militante, le sue speculazioni sono sempre volte a risolvere problemi sociali concreti. Se ha indagato a fondo nella sua opera maggiore, Il silenzio di Dio, le radici teologiche dell'ateismo, lo ha fatto nella convinzione che su queste radici poggino le basi di buona parte dei malesseri del mondo moderno. Sarebbe quindi fare un torto all'opera di Panikkar non prendere in considerazione quella parte della sua teorizzazione che riguarda la critica alle maggiori ideologie del mondo moderno -in particolare all'ideologia tecnologica: la tecnocrazia- e le proposte concrete per superare i problemi ed i conflitti da esse suscitati.
Il malessere dell'occidente ha radici teologiche, è innanzi tutto un malessere spirituale, e può essere risolto solamente attraverso un rivolgimento completo, una "metànoia" direbbe Panikkar, del nostro modo di percepire la realtà.

Le radici teologiche della crisi moderna

Si è riflettuto relativamente poco sulle radici teologiche della crisi spirituale e materiale che attanaglia l'uomo moderno, producendo infiniti conflitti di ogni genere e facendogli percepire in modo sempre più crescente di vivere in un universo alienante ed alienato [SD p. 17; NI p. 47]. Queste radici rimandano, secondo Panikkar, ad epoche lontane, allo stesso fondarsi delle tradizioni abramiche sul principio di proprietà, cioè sul dualismo, sulla contrapposizione. Tutto il decalogo non è che la sacralizzazione del principio di proprietà: ama il tuo Dio, ama la tua donna, ecc. Per non parlare della distinzione più radicale, quella fra l'uomo e la natura: l'uomo è l'eccezione e il padrone del creato [SD p. 17; EC pp. 34-35; NI p. 145; TB p. 145].
Non è un caso, dunque, che proprio in occidente sia nata la tecnologia, vero cancro del mondo moderno, cioè una concezione dualistica della realtà, dove ciò che conta è separare, isolare, oggettivare, per poter meglio quantificare e, quindi, manipolare delle "cose". La tecnologia non è che l'ultimo risultato di una mentalità che aveva già portato il mondo semitico a "privatizzare" Dio, la religione, la cultura. Non è che l'ultimo risultato di un pensiero che pretende di pensare tutto, di dire tutto, di ingabbiare in concetti tutta la realtà, persino Dio, magari sostanzializzandolo, riducendolo ad essere [SD pp. 16-17].

Proprio questo è in effetti accaduto in occidente, almeno fino a quando, con la nascita della scienza moderna, si è negato a Dio, in nome del funzionalismo, lo stesso essere/sostanza e, insieme ad esso, ogni forma di realtà e verità [SD pp. 168, 174-177].
Nascono così l'ateismo ed il nichilismo moderni, e con essi la tecnologia che prende il posto lasciato vuoto da un Dio oramai relegato in una assoluta trascendenza e "silenziosità" non raggiungibile dalla scienza e da una religione oramai ridotta a fatto privato, individuale, soggettivo [SD p. 168, 178].

La scienza moderna

La crisi che l'uomo contemporaneo sta attraversando è, per Panikkar, una crisi di "frantumazione" [EC p. 17] scaturita, in primo luogo, da quella frantumazione della conoscenza realizzatasi con la nascita della scienza moderna.

La scienza, nel mondo moderno, perde il suo valore salvifico e si riduce a conoscenza (presunta) oggettiva. Non è più, come nell'antichità, e ancor oggi nelle autentiche vie spirituali, comunione con la realtà [EC p. 22] e realizzazione di se stessi.
Nell'antichità, progredire nella conoscenza della realtà voleva dire progredire nella conoscenza di se stessi; la "nuova scienza" nata con Galilei, invece, non ha più il fine di capire, bensì solo di calcolare e prevedere, e, con Bacone, di dominare la realtà (Novum Organum 1, 70). Con essa ci si chiede come funzioni la realtà, non come sia [SS p. 53].
Perso il legame con la teologia e con la dimensione qualitativa della vita, la scienza diventa puramente quantitativa, riduzionista, calcolatrice e manipolatrice. Essa non ci parla più di verità, ma di maggiore o minore precisione, maggiore o minore probabilità. L'abbaglio è costituito dallo scambiarla, invece, come l'unico criterio di giudizio veritiero sulla realtà, e sulla sua base esaminare poi la scienza degli antichi o di civiltà diverse da quella occidentale [EC p. 25].
È su questi presupposti, nonché sul fatto che le tradizioni del mondo abramico si fondino sul principio di proprietà, che ha origine in occidente la tecnologia, considerata da Panikkar come il carattere specifico della modernità [EC p. 138; NI p. 138].
La tecnologia è un fenomeno proprio dell'occidente, anche se in seguito ha travalicato le sue frontiere per invadere il mondo intero. Essa, insieme con la scienza moderna, non si capiscono senza la civiltà occidentale e fuori del suo ambito sono cavalli di Troia nel progetto di conquista perseguito dal complesso tecnocratico [NI p. 133; TB p. 66]. "La tecnologia -dice Panikkar- è, a mio modo di vedere, il nemico più grande della sopravvivenza di tutte le altre culture che sono esistite finora sopra la terra" [TB p. 67].

Tecnica e tecnologia

Non bisogna però confondere tecnologia e tecnica: la tecnica è un'arte (poietikê technê), nella quale l'intelligenza umana si integra nella materia per produrre un artefatto (ceramica, musica, poesia, un edificio, ecc.) che migliori il benessere e la bellezza della vita umana. Si deve essere ispirati per produrre qualsiasi tipo di attività tecnica, è necessario il pneuma (spirito). La tecnologia sorge quando allo spirito si sostituisce la ratio, cioè il logos, nel suo senso più ristretto di razionalità discorsiva. A questo punto nella technê si introduce l'aritmetica, cioè un ritmo (il risultato di una mens, mensura), e allora il risultato della tecnica può essere riprodotto indefinitamente quando se ne conosca la sigla numerica [TB pp. 20 e 24; NI p. 134-135].
Ogni artefatto ha il suo stile e, in un certo senso, è unico, anche quando se ne producano più esemplari. Però c'è un momento in cui il cambiamento quantitativo introduce un mutamento qualitativo [TB p. 25]. Questo mutamento avviene attraverso l'utilizzo di macchine, cioè strumenti di secondo grado, che finiscono poi per imporre all'uomo le proprie regole. La tecnologia, da strumento, giunge a trasformarsi in fine: l'uomo cessa di essere un artigiano, la cui arte è caratterizzata dalla creatività, e diventa un lavoratore; non lavora più ad una sua opera per il proprio benessere, ma per qualcuno che non conosce e con cui probabilmente non andrebbe d'accordo, al prezzo di un salario [NI pp.136 e 165].

La tecnologia: teoria/prassi

Spesso si considera la tecnologia come la semplice applicazione di scoperte scientifiche. Non è così. La scienza moderna è un elemento della tecnologia, e certamente quello che per il tecnologo è lavoro, per lo scienziato può essere un atto creativo. Ma la tecnologia include anche la sua realizzazione pratica; la tecnologia è una prassi e allo stesso tempo una teoria. E dire che la teoria è buona, benché la prassi che ne risulta possa essere cattiva, è come dire -afferma Panikkar- che l'odio è buono fintanto che non lo si mette in pratica [NI p.138].

Il tecnocentrismo

La tecnologia non è universalizzabile come se fosse un universale culturale, non è neutra. Può germinare soltanto in un terreno moderno e può crescere solo in un clima occidentalizzato. L'universalizzazione della tecnologia implica l'occidentalizzazione del mondo e la distruzione delle altre culture, che si basano su visioni della realtà incompatibili con i moderni presupposti della tecnologia. Il fatto che questa incompatibilità non sia stata notata e che si sia pensato che la tecnologia potesse adattarsi allo stile di vita di diverse culture, dimostra come non si sia realizzato un vero dialogo interculturale. Ha prevalso la credenza in una evoluzione lineare della specie umana [NI pp. 140-141; TB pp. 22, 67 e 150-154].

La tecnocrazia: l'ontonomia impossibile

La tecnologia è autonoma, sia dall'uomo sia dalla natura, dice Panikkar. L'uomo si sta svegliando dal sogno di poter dominare il sistema tecnologico, a tal punto che oramai non crede più possibile liberarsi da esso. E' questo che detta lo stile di vita, i valori dominanti e i ritmi della collettività, e perfino una gran parte delle forme di pensiero, per non parlare della corsa agli armamenti, della crescita delle multinazionali e della proliferazione delle macchine, che nessuno sembra poter fermare [NI p. 141; TB p. 5, 2O e 68; EC p. 14]. La macchina di secondo grado ha le proprie regolarità, che non dipendono né dalle leggi della natura né da quelle dell'uomo. È l'uomo che deve adattarsi alle leggi della macchina, diventando così prigioniero di un tempo e di uno spazio che sono pure astrazioni scientifiche.
L'interdipendenza fra uomo e cosmo, l'equilibrio armonioso, "ontonomo" (il nomos dell'on -l'ordine intrinseco dell'essere), non è più possibile nell'epoca della tecnologia [NI p.143].

Strumento e macchina

La tecnica si riferisce al mondo degli strumenti (utensili), la tecnologia, invece, appartiene al regno delle macchine. Il potere dell'utensile viene dall'energia umana, quello della macchina dall'esterno. Panikkar fa poi un'ulteriore distinzione fra macchine di primo grado, che utilizzano l'energia naturale incanalata (animali, legno, acqua, vento) in modo tale da poter essere ancora sottomesse alla volontà umana, e macchine di secondo grado, prodotto tipico dell'era tecnologica, che utilizzano l'energia naturale trasformata (chimica, forza atomica, ecc.).

La macchina di secondo grado è qualitativamente differente dalla prima, ha i suoi propri ritmi, le sue proprie leggi, indipendenti dai fabbricanti e dagli operatori. Non è qualcosa che possa essere semplicemente disinserito. Essa, inoltre, presuppone una visione della natura, postgalileiana e postnwtoniana, nella quale i concetti di massa, forza, velocità e specialmente accelerazione (e, perciò, anche di gravitazione) determinano le strutture e i comportamenti umani e quelli cosmici. È una visione, appunto, meccanicistica della natura, nella quale, cioè, l'universo è una grande macchina e l'uomo un sua parte [NI p. 143-144; TB p. 21].

L'omocentrismo

La tecnologia presuppone che l'uomo sia essenzialmente differente e superiore alla natura. Non è un caso che la tecnologia sia sorta in un mondo governato dalla concezione semitica dell'universo, dove l'uomo è padrone della natura, una eccezione nella creazione. Non è un caso che si usi comunemente il termine "sfruttamento": agricolo, minerario, ecc. Ciò rimanda anche all'origine della scienza moderna, finalizzata non al sapere, ma al potere, non alla conoscenza, ma al dominio della natura [vedi sopra].

L'interventismo

Il metodo proprio della tecnologia è la sperimentazione, l'intervento sulla realtà. L'esperimento consiste nel modificare almeno una delle variabili di un sistema osservato per poi accertare una variazione dell'intero sistema. L'esperimento rende possibile il calcolo della variazione e delle variabili e si basa nello stesso tempo su questo calcolo. In questo modo non si conosce in realtà la cosa, s'impara a conoscere soltanto una certa reazione dei rapporti tra cose entro quadri predefiniti. L'esperimento è principalmente una possibilità di dominio, di calcolo, di previsione, ma non esprime molto sulla natura delle cose, sulla realtà, sulla nostra propria natura. L'attività umana, da questo punto di vista, non è considerata una collaborazione con i ritmi della natura per lo sviluppo personale e per l'armonia dell'universo, ma come un lavoro -lavoro visto come una produzione, modificazione, dominazione. L'azione non procede dalla contemplazione, ma prende essa stessa l'iniziativa [NI p. 145-146; SS p. 53].

L'oggettivismo

La tecnologia presuppone che la realtà sia oggettivabile e dunque sottoposta al pensiero. La tecnologia è la cristallizzazione e l'oggettivazione dei concetti. I concetti possono essere fissati in macchine, le quali garantiscono poi un funzionamento costante e preciso, come la macchina del nostro cervello. Questa oggettivazione rende la realtà immutabile e costante, in modo tale che la conoscenza scientifica sia sempre più stabile. La scienza moderna è la guardiana dell'essere, l'essere non può scappare. Così si possono costruire macchine che funzionino e l'uomo se ne può fidare.
Che la scienza contemporanea abbia superato grossolani paradigmi di oggettività non dice niente sul piano della tecnologia. Sarebbe possibile la tecnologia se i processi reali non seguissero le leggi della logica o addirittura quelle della probabilità? [NI p. 147].
Il criterio di verità, o meglio di precisione, su cui si basa la sperimentazione scientifica è la ripetibilità e la ripetibilità presuppone un tempo costante e omogeneo. Senza di esso nessuna macchina potrebbe funzionare, nessuna grande città moderna potrebbe esistere. Lo spazio ed il tempo nel quale si muovono le macchine sono, a differenza di quelli umani, neutri e universali. Proprio per questo la tecnologia si crede universalmente esportabile: una macchina può essere adattata a un luogo o ad un altro, purché le si calcolino i diversi valori dei parametri -come forza di gravità, temperatura, ecc.- nei diversi luoghi [NI p. 148].

Anti-animismo e nominalismo

Per la civiltà tecnologica la materia è morta; ha le sue proprie leggi, che sono indipendenti dalle leggi della vita e da quelle dell'uomo. La tecnologia è violenza contro la natura.
Il nominalismo suppone che tutto quello che possiamo conoscere della realtà sia espresso in nomi, che sono solamente etichette o segni appiccicati alle cose. In questo modo la tecnologia crea un mondo di entità quantificabili, con le etichette per la loro manipolazione adeguata. Il nominalismo epistemologico della scienza si converte così nel nominalismo ontologico della tecnologia [NI p. 150; TB p. 150].

La quantificabilità

Il regno della scienza moderna è ciò che è quantificabile, essa agisce misurando, cioè dividendo. Non pretende nemmeno di spiegare il mondo, semplicemente misura dei comportamenti e, scoprendo alcune costanti, prevede vari avvenimenti.
La tecnologia fa qualcosa di più che calcolare: moltiplica. E' il mondo della quantità e dell'accelerazione, il mondo del più quantitativo. Senza accelerazione la tecnologia è impossibile. Il tempo è soltanto un fattore quantitativo che è piegabile all'accelerazione. Quello che non può essere misurato, che non può essere contato, non "conta" [NI p.152].

Controllo e strumentalizzazione

La caratteristica epistemologica della tecnologia è quella della conoscenza come potere. "Sapere è potere", come disse Bacone, e, nella molteplicità delle opinioni, soltanto io posso essere il criterio ultimo. Mi è necessario, perciò, tenere sotto controllo la mia opinione e quella degli altri: potrebbero essere sbagliate e questo è pericoloso. La tecnologia permette questo controllo, offre potere. La competitività, la corsa agli armamenti, per esempio, è inerente al complesso tecnocratico; è condizione necessaria per sopravvivere [NI p.153].
La tecnologia è il mondo dei mezzi, degli strumenti. Essa produce in continuazione strumenti, sempre nuovi, sempre migliori. Non importa a cosa servano, se siano realmente utili, l'importante è usarli. Noi stessi siamo strumenti.

La cultura moderna

La tecnocrazia è senz'altro l'aspetto che più caratterizza la cultura moderna occidentale, oltre al fatto di essere paneconomica ed una american way of life [TB p. 148].

La cultura moderna ha reso tutto monetizzabile e dipendente dall'economia: il tempo, l'educazione, il matrimonio, il nutrimento, la mia salute, le mie credenze, la mia felicità. Tutto ha un coefficiente economico, ossia, in altre parole, quantificabile. Ciò che accomuna tecnocrazia e paneconomicismo è la visione quantitativa della vita.
L'american way of life è la mentalità che si dichiara soddisfatta di questo tipo di cultura. Certo, dal punto di vista pratico ci sono delle cose da correggere, da migliorare, ma dal punto di vista teorico questa civiltà basta a dare all'uomo la felicità. L'uomo -secondo l'antropologia che sta alla base di queste convinzioni- non è che un insieme di bisogni. Se gli si offrono i mezzi per soddisfarli, l'uomo è felice [TB pp. 151-152].
Questo tipo di mentalità e di cultura non è universale né universalizzabile. E non lo è né da un punto di vista qualitativo, per i motivi sopra esposti, né da un punto di vista quantitativo: il 6% della popolazione mondiale consuma il 40% delle risorse disponibili e ne controlla il 60%. Le possibilità e le risorse del pianeta sono limitate. Nella prima metà del secolo il sistema economico mondiale era relativamente aperto. Ora il sistema è chiuso e in un sistema chiuso ogni aumento in una regione comporta una diminuzione in un'altra. Viviamo un aumento costante di entropia. Il nostro stile di vita non può essere mantenuto su scala mondiale.
Nel complesso tecnocratico ogni progresso implica un regresso in un altro ambito [TB pp. 22, 152-153]. La cultura moderna contiene in se stessa il germe della propria autodistruzione. È proprio quel desiderio di assoluto, di infinito, che la sorregge, ciò che provocherà la sua inevitabile fine. Quando il desiderio di assoluto non si esprime nella sfera, appunto, dell'assoluto, ma in quella del relativo, del materiale, non può che diventare una specie di cancro autodistruttore, perché ciò che è limitato non può sostenere uno slancio infinito [TB p.154].

Alternative alla cultura moderna

Vi sono tre modi per affrontare il problema della modernità, secondo Panikkar.

1. Riforma

Consiste nel pensare che questa cultura si possa riformare, magari utilizzando una tecnologia più adeguata. Panikkar stesso aveva in un primo tempo aderito a questa prospettiva, coniando addirittura il termine tecnicultura. Ancora nel 1970, quando pubblicò Il Silenzio di Dio, era di questa opinione [SD pp.165-166]. Pensava, in maniera troppo ingenua e ottimista, che la macchina potesse essere coltivata, nel senso della cultura. Ma la macchina di secondo grado ha un'autonomia che l'uomo non è più in grado di controllare e dirigere. Ci si dice: solo momentaneamente la tecnologia crea fame, sfrutta e distrugge le culture non industrializzate, fa numerose vittime dappertutto, ma ritroverà il suo equilibrio una volta che sarà più perfezionata. Non esiste un'omeostasi tecnologica di questo tipo e non è solo l'argomento morale che vi si potrebbe opporre: gli uomini non sono semplici elementi di una posta storica più alta. Vi si oppone anche l'esistenza di altre culture che si rifiutano di avere una simile concezione dell'uomo e della realtà [TB pp. 45, 68, 151; EC p. 27].
Altra ingenuità è credere che alcuni aspetti della tecnologia possano essere un mezzo per salvaguardare la vita, che si possa utilizzare la tecnologia non per le cose letali, ma per quelle buone. Questa mentalità non solo manifesta proprio quella volontà di dominio (la "ragione armata", dice Panikkar), propria della tecnologia, che abbiamo applicato a tutte le cose e che ora cerchiamo di applicare alla stessa tecnologia, ma si illude che il male, dopo esser stato creato, funzioni anche come rimedio a se stesso [TB pp. 68-69, 71]. È un altro aspetto di quel fatalismo, proprio della cultura moderna, che considera la tecnologia oramai ineliminabile, indispensabile. Come dire: ora sei coinvolto e non c'è altro rimedio che continuare a comprare i nostri prodotti, perché abbiamo creato le malattie e adesso ti vendiamo le medicine [TB p. 5; EC p. 14].

2. Deformazione

Vuol dire fare una critica totale, anatemizzare, non salvare niente, distruggere tutto. Anche questo tipo di critica, come il precedente, rimane ancora all'interno della mentalità moderna, tecnologica. Anche questa è ragione armata, è violenza [TB pp. 71, 149; EC p. 14].

3. Trasformazione

É una metamorfosi, una mutazione radicale della forma (morphê). Non vuol dire riformare un po', cambiare questo o quello, ma realizzare un cambiamento radicale, una metànoia, una vera rivoluzione della mente, del cuore e dello spirito. Voler fare soltanto qualche aggiustamento e riformare il sistema significa solo prolungare l'agonia. Emanciparsi veramente dalla tecnologia vuol dire saltare al di là di questa cultura che l'ha creata.

L'occidente da solo non lo può fare, e l'oriente ancora meno: c'è bisogno di un incontro di culture. È qui che si rende indispensabile il dialogo "intrareligioso" come condizione per la salvezza dell'umanità. La mutua fecondazione delle culture è l'unica cosa che ancora potrà salvarci [SD pp. 10, 17; TB pp. 44, 70-72, 144; NI pp. 47-48; EC p. 28].
Non esiste infatti un'alternativa globale, così come non esistono, né forse sarebbero desiderabili, una cultura globale, una prospettiva globale, una lingua ed una religione universali, un unico ordine mondiale perfetto, politico o economico [TB pp. 144-148]. Ci sono solamente alternative provvisorie, secolari e pluraliste [TB pp. 155-160, NI pp. 160-167].

La nuova innocenza

Panikkar non propone un ritorno indietro ad una specie di primitivismo, ad un Paradiso perduto, non ha una visione romantica del passato o della natura [NI p. 142; TB pp. 68,148; EC p.122]. Invita, invece, a trovare una "nuova innocenza", un modo di conoscere e vivere che non crei contrapposizioni, dualismi, come quello fra soggetto e oggetto tanto caro alla cultura occidentale moderna, e così non ferisca (nocère), non manipoli la realtà [NI pp. 37-41]. Invita cioè a rinunciare a quella volontà di potenza, a quella smania di dominio sulla realtà che ha guidato per secoli l'umanità conducendola sull'orlo del baratro e ad abbracciare una visione del mondo fondata sulla relazione. Per realizzare la nuova innocenza è fondamentale, per Panikkar, ripristinare una relazione "cosmoteandrica" fra le tre fondamentali dimensioni della realtà ed una visione contemplativa dell?esistenza.

L'intuizione cosmoteandrica

Il divino, l'umano e il terrestre -o comunque li si voglia chiamare- sono le tre dimensioni irriducibili che costituiscono il reale, cioè qualsiasi realtà in quanto tale. Tutto ciò che esiste presenta questa struttura, triplice e unica, espressa in queste tre dimensioni che si generano reciprocamente ma non sono riducibili l'una all'altra. Vi è un'unica relazione, benché intrinsecamente triplice, che esprime la costituzione ultima della realtà [NI pp. 59-60] : è questa l'intuizione cosmoteandrica.
Panikkar è consapevole di riformulare, in questi termini, un principio ben noto alle varie tradizioni spirituali e che egli stesso ritrova, ad esempio, nella concezione cristiana della Trinità o in quella buddhista della pratityasamutpada . La realtà mostra questa triplice dimensione: un aspetto metafisico (trascendente o apofatico), un fattore noetico (o cosciente, pensante) e un elemento empirico (fisico o materiale) [NI p. 67]. A livello umano, poi, questo principio si esplica nei tre fondamentali modi di percepire la realtà: l'esperienza sensibile (aisthêsis), l'esperienza intellettuale (noêsis) e l'esperienza sovraconoscitiva e globale che trascende il pensiero (mystika) [EC pp. 41, 155; SS pp. 70-71].
La visione cosmoteandrica o relazionale della realtà supera sia il monismo sia il dualismo, tanto che potrebbe essere definita non-dualista, ed è il frutto, in ultima analisi, di un'esperienza mistica, e come tale ineffabile, che rimanda ad un dimensione contemplativa venuta meno con la cultura moderna [NI pp. 67,161].

Lo spirito contemplativo

Sembra che la nostra società sia mossa da cinque grandi incentivi che sono messi radicalmente in discussione dallo spirito contemplativo. Vediamo di esaminarli uno per uno.

1. Il cielo in alto (il qui opposto all'altrove)

La vita contemplativa mette in discussione la religiosità tradizionale che troppo spesso si accontenta di rinviare ad un aldilà i veri valori della vita. I contemplativi non hanno bisogno del "cielo lassù in alto" poiché per loro la Vita perfetta è presente già qui ed ora: tutto è sacro, ed essi trattano le cose sacre come fossero profane e le cose profane come fossero sacre. Il loro agire non è finalizzato ad ottenere la perfezione o qualche ricompensa, la contemplazione non si preoccupa del domani, non desidera nulla in più di quanto già possiede: se vi fosse qualcosa da desiderare, significherebbe che non si è raggiunta ancora la contemplazione. Il contemplativo non è mosso dal denaro, non perché lo disprezzi, ma perché non ne ha desiderio. Per questo una civiltà che esige denaro per vivere è anticontemplativa [NI pp. 79-82].

2. La storia davanti a noi (l'ora opposto al dopo)

La vita odierna è preparazione per il futuro, per il tempo che deve venire. Tutto è imperniato sul poi, è proteso in avanti, verso la meta, verso il premio, attraverso un'incessante competizione. Anche la religione da soteriologia è divenuta escatologia. Siamo perennemente in movimento, e più in fretta si va meglio è, così da guadagnare tempo. La temporalità ossessiona la nostra epoca; il fattore tempo è l'aspetto della natura che bisogna vincere. L'accelerazione è la grande scoperta della scienza moderna.
Il contemplativo arresta il corso del tempo, non si interessa del poi ma dell'ora. Anche quando il contemplativo dedica la sua attenzione a qualcosa che concerne il futuro, agisce con una tale concentrazione nel presente che l'atto successivo è del tutto imprevedibile. Il contemplativo non spera in un'eternità dopo, ma vive l'eternità ora. Non fugge il tempo, ma ne sperimenta la pienezza: ogni istante, ogni ora, contiene in se tutto il passato e tutto il futuro [NI pp. 83-86].

3. Il dovere del lavoro (l'atto opposto al prodotto)

L'odierna dipendenza dal lavoro sta diventando un'epidemia che contagia tutta l'umanità. Devi lavorare perché la tua esistenza non ha alcun valore in se stessa; pertanto devi giustificare la tua vita rendendola utile. Sei reale nella misura in cui lavori e produci. Sarai giudicato in base ai risultati del tuo lavoro. Forse potrai scegliere il tipo di lavoro che ti è più consono, ma non perché in questo modo tu realizzi te stesso, la tua natura, bensì perché, se lavori con piacere, renderai di più e con minor fatica. Non ci si aspetta che tu esplichi la tua vera natura, ma che tu produca, facendo anche qualcosa di diverso da te stesso, qualcosa che possa venire oggettivato ed essere reso accessibile e interscambiabile mediante il denaro. Devi guadagnare ciò che consumi, altrimenti sarai considerato un parassita, un buono a nulla. Ogni cosa ha un prezzo e devi guadagnare abbastanza per pagare quel prezzo. La moneta è ciò che permette la quantificazione di tutti i valori umani e rende così possibile ogni tipo di transazione. Nel mondo tecnologico moderno il lavoro è il primo dei tuoi obblighi: il lavoro diventa un fine, e questo fine non è la realizzazione dell'uomo, ma la soddisfazione delle necessità del lavoro.
Il contemplativo dà priorità all'attività, non al lavoro, in modo che qualsiasi lavoro dovrà avere significato in sé, altrimenti non verrà compiuto. Il rispetto per ogni essere e per la sua costituzione, caratteristico dell'atteggiamento contemplativo, farà sì che ogni atto sia anche una collaborazione e una comunione con le forze vitali della natura, un perfezionamento tanto di chi produce quanto di quel che è prodotto. Inoltre il contemplativo rinuncia ai risultati stessi del lavoro, compiendo ogni sorta di attività per amore dell'atto stesso e non per ricavarne qualcosa, il che non esclude la consapevolezza di compiere opere parziali in vista di un tutto [NI pp. 87-90].

4. Il potere delle cose grandi (l'intimità contrapposta all'esteriorità)

La mentalità quantitativa moderna privilegia la grandezza: siamo spronati a salire sempre più in alto in termini di importanza, di potere, di successo; dobbiamo avanzare per poterci sentire qualcuno, ottenere fiducia in noi stessi ed ispirarne agli altri. Il progresso è un concetto quantitativo: ottenere il massimo è l'ideale.
Il contemplativo privilegia la concentrazione, ossia il raggiungimento del proprio centro. È consapevole che, se non si è capaci di trovare il centro della realtà in se stessi, si sarà inevitabilmente protesi schizofrenicamente fuori di sé nel tentativo di raggiungere degli ipotetici centri esterni. Ma in questo modo si raggiungerà tutt'al più il vertice, non il centro [NI pp. 91-94].

5. L'ambizione del successo (l'essere paghi opposto al trionfo)

Ambizione è una parola chiave nel mondo d'oggi, che si traduce, specie in occidente, nel bisogno di successo a livello sociale. Il successo in una società tecnologica è divenuto un valore oggettivato, quantificato, facilmente misurabile in termini di potere finanziario. Non si tratta di soddisfazione personale, ma di successo oggettivato.
Il contemplativo agisce senza una motivazione esterna all'azione che compie [NI pp. 95-100].

Un novenario politico

Dopo quanto siamo andati esponendo, possiamo sintetizzare il progetto politico di Panikkar in nove punti.

1. Demonetizzare la cultura

Il mondo reale non è fatto di prodotti monetizzabili, e ciò non riguarda solo i valori spirituali, ma anche le realtà materiali. Dover pagare l'acqua, l'alimentazione, e fra poco anche l'aria, è segno di una cultura malata. La monetizzazione di ogni valore culturale è la naturale conseguenza della quantificazione della prospettiva umana. Ma la realtà resta incommensurabile per qualunque intelletto [EC pp. 141-142].

2. Demolire la torre di Babele

Lo sfrenato potere del mercato concentra tutti i prodotti in un numero sempre più ristretto di organismi. La tendenza centripeta del nostro tempo è frutto di una concezione meccanicistica e quantitativa dei valori culturali. La civiltà tecnocratica tende alla costituzione di un impero mondiale a scapito delle diversità, del pluralismo culturale.
In una visione olistica ogni persona, come pure ogni cultura, è il centro della realtà globale. Noi siamo il centro dell'universo perché, in quanto microcosmo, siamo un riflesso del tutto, e lo possiamo essere solo se non ci attribuiamo una dimensione propria e restiamo aperti ad una circonferenza sempre più grande. Il centro soffoca quando traccia una circonferenza intorno a sé. Allo scopo di decentralizzare la cultura, abbiamo bisogno di individui sempre più integrati e di società umane sicure di sé. Le bioregioni, intese come ecosistemi relativamente completi, offrono a questo proposito un paradigma adeguato [EC pp. 142-144].

3. Superare l'ideologia degli stati nazionali

Si tratta di evitare sia una nazione-stato di dimensioni gigantesche, sia una proliferazione di stati nazionali isolati. Il problema non è solo politico: è teologico. Due determinate società possono vivere in un rapporto ontonomico (relazionale) soltanto se vi è un terzo elemento che le coordina, soltanto se esse fanno parte di un tutto che è maggiore delle sue parti, ma che esige il benessere delle parti per poter essere un tutto armonico. L'impero, che un tempo svolse questa funzione unificatrice, poteva sentirsi sovrano perché si fondava su un principio divino superiore ad esso [EC pp. 144-145].

4. Ricondurre la scienza moderna entro i propri limiti

Ciò dovrebbe avvenire mediante la scoperta di un vero ordine ontonomico della realtà. I limiti della scienza moderna sono sia epistemologici sia ontologici, oltre che oggettivi e soggettivi. Nonostante l'appellativo scienza, la scienza moderna non è identificabile con essa. Non ha un intrinseco potere salvifico [EC p. 146].

5. Sostituire la tecnocrazia con l'arte

Al pari della scienza moderna, la tecnologia ha preso in prestito un termine tradizionale e lo ha rivestito di un nuovo significato.
La tecnocrazia rende impossibile all'uomo gestire il proprio destino. Il mega-meccanismo preordina, mentre i suoi esperti, dotati di lunga preparazione altamente specializzata, possono solo azionarlo, impotenti persino a volgerlo in direzioni e usi diversi da quelli consentiti dai meccanismi interni del sistema tecnocratico. Produzione di armi, inflazione, crescita delle megalopoli, trasformazione dell'agricoltura in industria agricola, sono tutte leggi fatali del sistema, per fare solo qualche esempio.
Arte è ciò che articola la vita e la unifica mediante la creazione artistica della persona. Il senso della vita è di fare di ognuno di noi un'opera d'arte. Ognuno di noi dovrebbe essere in grado di esprimere se stesso, di costruire se stesso in simbiosi positiva con il resto della realtà [EC p. 146-149].

6. Superare la democrazia con una nuova kosmologia

L'uomo è una persona, un nodo in una rete di relazioni e non un individuo autonomo. Abbiamo bisogno di elaborare una nuova antropologia; essa però esige un nuova concezione del cosmo, anzi del kosmo, inteso come percezione della realtà. Ogni cultura ha un senso diverso del cosmo. La causa principale della crisi odierna va ricercata nel conflitto latente di "kosmologie", dentro e intorno a noi. Potremo evitare la tirannia solo se si affermerà una nuova kosmologia, una visione cosmoteandrica [EC pp. 149-150].

7. Recuperare l'animismo

Animismo è l'esperienza della vita in continuità con la natura. Ogni entità naturale è cellula vivente, parte di un tutto e riflesso del tutto al tempo stesso. Non solo le piante e gli animali sono viventi, ma anche le montagne e le rocce; come lo spirito, anche la materia è vivente.

L'animismo è il superamento di tutte le visioni meccanicistiche e razionalistiche del mondo [EC pp. 150-152].

8. Far pace con la terra

Nessun tentativo di ripristino ecologico del mondo riuscirà, finché non arriveremo a considerare la Terra come nostro corpo e il corpo come nostro Sé. Ovviamente "nostro" non va inteso nel senso di proprietà privata e individuale, come identificazione con un ego psicologico. Il problema ecologico è strettamente teologico e viceversa.
Il movimento ecologico non è che un altro modo tecnologico di sfruttamento più razionale e duraturo della terra.
Pace non significa sguardo idilliaco o idealistico di totale passività. Quando l'uomo segue la natura, non sfrutta, ma cresce e si evolve. La pace con la terra richiede collaborazione, sinergia [NI pp. 152-153].

9. Recuperare la dimensione divina

Bisogna superare tutti i teismi: monoteismo, deismo, politeismo, panteismo, ateismo, cioè qualsiasi concezione che voglia localizzare il divino in un luogo speciale. Sia che questo luogo non esista (ateismo), sia che questo luogo stia al di sopra, al di dentro o dappertutto.
La realtà è di natura cosmoteandrica [EC pp. 40, 153-155].

 


Nota Biografica

Nato a Barcellona nel 1918, da padre indiano di religione indù e madre spagnola di religione cattolica, Raimundo Panikkar si è laureato in filosofia (Ph.D., Madrid 1946), chimica (D.Sc., Madrid 1958) e teologia (Th.D., Roma 1961), compiendo i propri studi in Spagna, Germania e Italia, ed è stato ordinato sacerdote cattolico nel 1946. Dopo aver insegnato nelle università di Madrid e Roma, ed esser stato lettore di Filosofia, Cultura e Religione Indiana in America Latina, dal 1967 al 1971 è stato professore di Storia delle Religioni all'Università di Harvard e dal 1971 al 1987 docente di Filosofia della Religione e Storia delle Religioni all'Università di California (Santa Barbara), di cui oggi è Professore Emerito di Studi Religiosi. Ha fondato varie riviste di filosofia e cultura e, più di recente, il Centro Studi Vivarium, presso Tavertet (Barcellona), che riunisce personalità di varie parti del mondo per fare in modo che i problemi più urgenti della nostra epoca non vengano affrontati con gli strumenti di una sola cultura. Ha pubblicato oltre trenta opere e più di trecento articoli, in cinque lingue, sulla filosofia della scienza, la metafisica, l'indologia, la storia delle religioni, la teologia, le relazioni fra le varie culture e il dialogo interreligioso ponendosi per la sua conoscenza dall'interno dei mondi dell'Oriente e dell'Occidente come uno dei principali esperti interculturali contemporanei.

Bibliografia

R. Panikkar, Il silenzio di Dio, Edizioni Borla, Roma 1985, 357 pp. [= SD]

R. Panikkar, La Torre di Babele, Edizioni Cultura della Pace (ECP), Firenze 1990, 190 pp. [= TB]

R. Panikkar, Ecosofia: la nuova saggezza, Cittadella Editrice, Assisi 1993, 184 pp. [= EC]

R. Panikkar, La nuova innocenza, vol. 1, Cooperativa Editrice Nuova Stampa (CENS), Milano 1993, 193 pp. [= NI]

R. Panikkar, Saggezza, stile di vita, Edizioni Cultura della Pace (ECP), Firenze 1993, 192 pp. [= SS]