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In punta di Penn. 'Into the Wild' un ragazzo che lascia i suoi beni per andare in Alaska

di Sean Penn / Lorenzo Soria - 15/12/2007

 

 
Sean Penn
Sin da quando 25 anni fa la sua carismatica presenza ha trasformato 'Fuori di testa' in un cult movie, Sean Penn ha sempre saputo generare sentimenti contrastanti. C'è chi ha visto in lui un puro alla ricerca della sua verità interiore e chi un attore un po' ossessivo e ai confini con l'autodistruzione. Chi ha ammirato la sua integrità per non essersi mai presentato alla cerimonia degli Oscar quando ha ricevuto le sue tre nomination e chi non ha saputo fare a meno di ricordare che l'unica volta che ha accettato di indossare lo smoking e partecipare è stata quando ha vinto (per 'Mystic River', nel 2003). Chi lo ha messo su un piedistallo per essere andato a Baghdad alla vigilia dell'avventura americana e per avere pubblicato a sue spese paginoni di giornali in cui ammoniva George W. Bush che con la guerra avrebbe lasciato dietro di sé "un'eredità di vergogna e di orrore", e chi lo ha definito un traditore della patria.

Su un punto sembra esserci unanimità ed è il fatto che Sean Penn è un originale, un artista e un cittadino che non segue le convenzioni, che non ha mai avuto timore di affrontare rischi. Non c'è dunque da sorprendersi se, quando nel 1996 l'attore-regista si è imbattuto in una copia di 'Into the Wild', ha passato la notte a leggerselo e poi a rileggerselo una seconda volta e poi la mattina si è attaccato al telefono per cercare di assicurarsi i diritti cinematografici. Scritto da Jon Krakauer, 'Into the Wild' narra la storia di Christopher McCandless, un ventiduenne nato in una famiglia ricca che nel 1990 invece di andare alla scuola di legge di Harvard decide di liberarsi di tutti i suoi beni materiali. E che, seguendo le orme di Henry Thoreau e di Jack London, i suoi due eroi letterari, comincia a girovagare per l'America finché si avventura da solo in Alaska: una prova di sopravvivenza durata quattro mesi e conclusasi in tragedia. Una storia molto americana di scoperta e di reinvenzione che Penn ha inseguito per dieci anni: finché un giorno, quando ormai non ci sperava più, ha avuto il consenso dei genitori di Chris. E che adesso è diventato il quarto film firmato da Penn come regista, interpretato da un bravissimo Emile Hirsch, da William Hurt e Marcia Gay Harden nella parte dei genitori, e da un commovente Hal Halbrook in quella di un solitario veterano che stabilisce con lui una relazione filiale. In Italia il film esce il 18 gennaio prossimo, distribuito dalla Bim. Abbiamo intervistato l'attore-regista.

Mister Penn, cosa l'ha attratta in questa storia? E quali paralleli ha visto tra la sua vita e le sue scelte e quella di Chris McCandless?
"Non penso di avere in comune con Chris molto di più di lei o di chi sta nella stanza accanto: il bisogno di uscire da noi stessi, di lasciare le nostre zone di sicurezza e di affrontare nuove sfide è universale. Qualcuno esprime questo bisogno con i propri sogni, Chris lo ha fatto partendo da solo per l'Alaska. Ci vuole coraggio per diventare se stessi di fronte alla morte ed è per questo che nella traiettoria tragica di Chris ho visto una celebrazione della vita".

Il suo film ha finito per seguire le orme di una tradizione che include Jack London e Kerouac e film come 'Easy Rider'.
"Quando uscì 'Easy Rider' i miei genitori mi proibirono di andare a vederlo. Ci andai di nascosto e lo ricordo, assieme a 'Bonnie and Clyde', come uno dei film che mi hanno fatto venire la voglia di fare cinema. Quando scopriamo da soli chi siamo e che cosa vogliamo proviamo un grande senso di euforia e non c'è niente come essere per la strada, da solo, magari dormendo in uno di quei motel dove lasci l'auto a tre metri dal letto. Ho preso la patente appena compiuti i 16 anni e sei giorni dopo ero in viaggio. E da allora ho sempre avuto una storia d'amore con i paesaggi e con le strade d'America. Ho fatto 21 volte il viaggio coast to coast e ancora oggi mi capita di partire, magari nel cuore della notte, e di provare lo stesso senso di trepidazione di trent'anni fa".

Girare 'Into the Wild' è stata un'avventura.
Dirigere è un po' come andare in un bar ogni sera alla ricerca di donne. Se sei aperto e fortunato, magari una volta ogni cinque anni ti innamori. Ho 47 anni e non mi imbarcherei in una impresa che occupa otto mesi della mia vita se non sapessi che c'è dell'avventura. Ho la fortuna di avere un altro lavoro che paga i miei conti, quello di attore, e dunque non devo dirigere film per prendermi cura della mia famiglia. Ma non potrei dedicare 17 ore al giorno per un periodo così lungo se non mi innamorassi di un progetto. In questo particolare caso ho dovuto attendere dieci anni".

Il suo film è un canto alla natura e una riflessione sui nostri limiti di fronte alla sua forza. Un manifesto ambientalista?
"Sono un surfista e posso ricordare molte occasioni in cui mi sono trovato davanti onde più gradi di quanto avrei potuto e dovuto affrontare. Momenti di terrore, ma anche di quell'euforia che provi solo quando riesci a vincere le tue paure. Quanto alla polemica ambientalista, so che c'è chi ha voluto leggere nel mio film un attacco politico, ma 'Into the Wild' è una storia sulla libertà, sul bisogno del nostro spirito di trovare una comunione con la natura. Le nostre vite sono una frode e la natura ti mette a nudo. L'Alaska poi è come la natura potenziata con gli steroidi: i fiumi sono più potenti, le montagne più maestose. Tutto è drammaticamente vivo e se stai addormentandoti ti offre inevitabilmente una scossa".

Parlando di scosse, lei continua a darne a George W. Bush e alla sua amministrazione.
"L'11 settembre è accaduta una cosa tremenda al nostro Paese, che aveva generato la solidarietà, l'ammirazione e il rispetto del mondo intero. Ora abbiamo davanti a noi un disastro devastante che mi lascia senza parole".

Con Katrina si è preso nuovi insulti e sberleffi per avere preso una barca e avere messo in salvo alcune vittime dell'uragano.
"Il primo giorno mi ero detto: oh mio Dio! Il secondo avrei voluto andare per aiutare, ma non volevo essere di intralcio. Il terzo ho capito che non c'era nessuno da intralciare e così sono partito per New Orleans. Avevo appena finito di girare lì il mio secondo film, 'All the King's Men', e ho molti amici in città. Avevo provato un grande senso di frustrazione di fronte alle bugie e all'inettitudine delle autorità, nel vedere così tanta gente che aveva bisogno di aiuto e che non lo riceveva. Non mi sembra però di avere fatto del male a nessuno e neanche niente di particolarmente coraggioso, perché il coraggio, per me, è il coraggio di avere paura. C'è chi trova soddisfazione nelle montagne russe, io cerco strade che mi sembrano più interessanti. E più gratificanti".

Pensa mai di fare un film apertamente politico?
"Chissà: se un giorno mi innamoro di quella ragazza al bar ne riparleremo, ma per adesso devo ancora incontrarla".