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Libano: “L’assassinio del generale Hajj potrebbe accelerare l’accordo tra maggioranza e opposizione”

di Carlo M. Miele - 18/12/2007




“Sul nome di Michel Suleiman oramai c’è il consenso di maggioranza e opposizione. Quello che manca ancora è l’accordo politico che dovrà necessariamente accompagnare l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. È su questo che si gioca la partita di queste ore”.

Khaled Saghieh è un giornalista del quotidiano Al Akhbar, legato all’opposizione di Beirut. Lo abbiamo incontrato a Roma, dove si trova in occasione di Medlink, il convegno sulla società del Mediterraneo organizzato da Un ponte per e altre ong.

Il voto in Parlamento per l’elezione del nuovo presidente è stato rinviato al 22 dicembre. Intanto la società libanese è stata scossa da un altro omicidio politico, di cui è stato vittima Francois al Hajj probabile successore di Suleiman a capo delle forze armate.
Non è facile capire chi ci sia dietro questo assassinio, ci sono diverse speculazioni. Innanzitutto al Hajj era il direttore delle operazioni nell’attacco a Nahr el Bared, e dunque potrebbe trattarsi anche di una vendetta legata a quell’episodio. Ma l’elemento più forte è che al Hajj era il principale candidato alla successione di Suleiman alla guida delle forze armate, dopo l’eventuale elezione di quest’ultimo alla presidenza della Repubblica, ed era molto vicino al generale Michel Aoun, uno dei principali leader dell’opposizione libanese. In questo senso - e visto che i negoziati sull’elezione del nuovo presidente si stanno concentrando sugli equilibri all’interno del futuro governo - si potrebbe trattare di un messaggio all’opposizione affinché accetti l’accordo e rapidamente senza fare troppe richieste. Infine, va detto che alcuni giorno prima dell’attentato il generale al Hajj era nel sud del Paese e aveva fatto delle dure dichiarazioni contro Israele, dunque anche gli israeliani potrebbero essere coinvolti nell’attentato. Di sicuro, questa volta, al contrario che in passato, non è stata accusata la Siria, nemmeno il movimento del 14 marzo (la maggioranza libanese filo-occidentale, ndr) lo ha fatto, perché stavolta era davvero difficile sostenere una tesi del genere.

In che maniera questo episodio influenzerà il processo politico libanese e in particolare la probabile elezione di Suleiman?
L’omicidio di al Hajj potrebbe accelerare l’accordo. Al momento c’è un consenso diffuso sul nome del generale Suleiman, ma ogni partito sta cercando di ottenere il massimo dall’accordo politico che accompagnerà l’elezione del presidente. L’opposizione per rientrare a far parte del governo intende ottenere un terzo più uno dei ministri nel futuro esecutivo, perché in questo modo potrà porre il veto su ogni decisione del governo.
 
Crede che l’eventuale elezione di Suleiman possa rappresentare l’inizio della fine della crisi politica libanese?
Più che l’elezione di Suleiman sarà importante proprio l’accordo politico che la accompagna. La maggioranza non ha più il sostegno incondizionato degli Stati Uniti come in passato, anche in virtù delle trattativa che sarebbero in corso tra Washington e Damasco. Per questo, tutto si gioca sulla lotta di potere tra le fazioni interne. Un passo avanti è stato fatto con l’accordo sul nome di Suleiman, visto che fino a poco tempo fa la maggioranza e il movimento del 14 marzo rifiutavano di prenderlo in considerazione, mentre l’opposizione pur avendo proposto in un primo momento Aoun non ha mai avuto problemi con Suleiman. Il discorso dell’opposizione è che – vista anche la minore pressione Usa – è l’occasione buona per ottenere un’importante contropartita politica.

Da tempo, la politica libanese appare nettamente divisa in due schieramenti incapaci di dialogare. In che modo questa spaccatura si riflette sulla società?
Anche la società libanese è nettamente divisa in due campi. Una delle regioni è che dopo il ritiro siriano le confessioni – che sono molto importanti nella politica libanese -  hanno cercato di riconquistare il potere che avevano preso durante il controllo siriano. In particolare i cristiani, che erano stati marginalizzati durante quella fase. E poi in Libano abbiamo assistito a uno scontro aperto tra due progetti contraddittori: uno rivolto all’Occidente, guidato dall’allora primo ministro Rafiq Hariri con il sostegno di gran parte dei politici sunniti e l’appoggio degli Stati Uniti, che intendevano fare del Libano un nuovo caposaldo della loro politica in Medio Oriente, e un altro di resistenza guidato da Hizbollah e dai partiti sciiti.

È dunque legittimo parlare del rischio di una nuova guerra civile, come fanno diversi osservatori internazionali?
Fino a meno di un mese fa il pericolo di una guerra civile era davvero concreto, ma adesso – con l’alleggerimento delle tensioni tra Siria e Occidente e l’accordo di massima sull’elezione di Suleiman alla presidenza – il pericolo si è allontanato. Comunque tutti i partiti hanno formato delle milizie e hanno accumulato armi, ufficialmente in nome della sicurezza privata. In particolare i partiti della coalizione Hariri si dichiarano ufficialmente contrari alla creazione di milizia e addestrano impiegati di compagnie private di sicurezza. Ma il fatto è che se non hanno il sostegno americano non hanno alcuna possibilità di vincere, perché non avranno mai il potere militare per fronteggiare e battere Hizbollah. Nemmeno Israele ci è riuscita e loro non sono sicuramente pronti per farlo.

Osservatorio Iraq