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L'ultimo viaggio

di Stanislav Grof - 19/12/2007


La morte e il morire sono le esperienze più universali e personalmente più rilevanti di ogni individuo. Durante la nostra vita, noi tutti perdiamo parenti, amici, maestri e conoscenti e, alla fine, ci troviamo ad affrontare il nostro decesso. Eppure è strano che fino a pochi anni fa la civiltà industrializzata occidentale abbia mostrato una quasi completa mancanza di interesse sull'argomento della morte e del morire. Tratto da "L'ultimo viaggio" di Stanislav Grof - Urra ed.

 

 

L'ultimo viaggio
Terapia psichedelica, sciamanesimo, morte e rinascita

“La psicologia moderna ha scoperto quanto sia importante il trauma della nascita nella vita di un individuo. Che cosa dire del “trauma della morte”?
Se si crede nella continuità della vita, non bisognerebbe darle la stessa considerazione?”
Laura Huxley, autrice di This Timeless Moment (Questo momento senza tempo)

La morte e il morire sono le esperienze più universali e personalmente più rilevanti di ogni individuo. Durante la nostra vita, noi tutti perdiamo parenti, amici, maestri e conoscenti e, alla fine, ci troviamo ad affrontare il nostro decesso. Eppure è strano che fino a pochi anni fa la civiltà industrializzata occidentale abbia mostrato una quasi completa mancanza di interesse sull’argomento della morte e del morire. Questo atteggiamento ha riguardato non soltanto il grande pubblico, ma anche scienziati e professionisti, per i quali l’argomento avrebbe dovuto essere di grande interesse: medici, psichiatri, psicologi, antropologi, filosofi e teologi. L’unica spiegazione plausibile di questo fatto è la negazione massiccia della morte e la repressione psicologica di qualsiasi cosa che abbia a che fare con essa.

Morte e morire nelle società preindustriali

Questo disinteresse è ancora più sorprendente quando lo si paragona con l’atteggiamento nei confronti della morte che si trova nelle società preindustriali, dove l’approccio alla morte e al morire è stato diametralmente diverso. Nelle antiche culture evolute la morte ha dominato e catturato l’immaginario popolare fornendo ispirazione per gran parte delle opere di arte e architettura. In Egitto, l’angoscia dell’aldilà si è espressa sotto la forma di piramidi monumentali, estese necropoli, magnifiche tombe e ha dato vita a innumerevoli dipinti e sculture. Nella Mesoamerica preispanica dei Maya e degli Aztechi, le piramidi, i templi e perfino i luoghi di gioco erano posti in cui si eseguivano elaborati rituali sulla morte. La tomba monumentale di Mausolo di Caria (377-353 a.C., governatore di una provincia dell’impero persiano) ad Alicarnasso, in Asia Minore, era stata costruita per lui dalla moglie Artemisia; considerata una delle 7 meraviglie del mondo antico, da allora ogni tomba monumentale è stata denominata “mausoleo”.

Un altro grande esempio di monumento funerario antico è la tomba dell’imperatore cinese Qin, presso Xian nella provincia dello Shaanxi, dove furono anche seppellite oltre 7000 sculture di guerrieri e cavalli di terracotta, più grandi del naturale, perché lo proteggessero nell’aldilà. Secondo i risultati delle ricerche archeologiche, perfino il leggendario palazzo minoico a Creta non era una residenza del re, ma una gigantesca necropoli.

La grande dinastia Moghul ci ha lasciato in India tombe e mausolei bellissimi, come la tomba di Akbar il Grande, e il leggendario Taj Mahal, costruito da Shah Jahan per l’amata moglie Noor Mahal. Si tratta solo di qualche esempio della potente influenza che il tema della morte esercitava nelle culture antiche.

Nelle società primitive la morte è stata ugualmente importante. Gran parte dell’arte aborigena di varie parti del mondo rappresenta il mondo degli spiriti, il viaggio postumo dell’anima e, in particolare, l’importantissimo regno degli antenati, esseri venerati e temuti al tempo stesso. Il denominatore comune di molti riti funebri delle culture indigene è l’incrollabile credenza nell’aldilà, accompagnata da un atteggiamento ambivalente nei confronti del defunto. Molti aspetti di questi riti sono l’espressione di uno sforzo per facilitare e accelerare il transito del defunto nel mondo spirituale, ma, quasi con la stessa frequenza, si trova anche la tendenza opposta, lo sforzo cioè di stabilire un rapporto rituale tra i vivi e i morti per ottenere protezione e salvezza. Le caratteristiche specifiche di molti rituali funebri possono essere interpretate come modi per aiutare il defunto nel suo viaggio postumo e, al tempo stesso, per prevenirne il ritorno.

La morte come transito verso altre realtà

La differenza tra l’atteggiamento nei confronti della morte della civiltà industrializzata e quello delle società preindustriali può essere meglio illustrata paragonando la situazione della persona che muore nei due diversi contesti. Le cosmologie, le filosofie e le mitologie delle antiche culture e dei gruppi indigeni, come pure la loro vita spirituale e rituale, riflettono un messaggio chiaro: la morte non è la fine, assoluta e irrevocabile, di tutto. La consapevolezza, la vita o una qualche forma di esistenza continua dopo la fine biologica. Una variante particolare di questa credenza è il concetto molto diffuso di reincarnazione. Oltre all’elemento di un’esistenza incorporea che segue alla morte individuale, la reincarnazione comporta anche il ritorno a una esistenza materiale in un nuovo corpo. Nell’Induismo, nel Buddhismo e nel Giainismo questa credenza è connessa alla legge del karma, secondo cui la qualità delle incarnazioni individuali è specificatamente determinata dai meriti e dai demeriti della persona nel corso delle vite precedenti.

Le mitologie escatologiche sono in genere d’accordo nel sostenere che l’anima del defunto è sottoposta a una serie di avventure complesse in piena coscienza. Il viaggio postumo dell’anima è spesso descritto come un percorso attraverso paesaggi fantastici che hanno somiglianze con quelli terrestri; in altri casi viene raccontato come un incontro con diversi tipi di esseri archetipici oppure come il passare attraverso una sequenza di stati di coscienza non ordinari. In alcune culture l’anima raggiunge una zona transitoria nell’aldilà, come il purgatorio cristiano o i loka del Buddhismo tibetano, in altre un’eterna dimora: cielo, inferno, paradiso o il regno del sole. Queste culture accettano senza dubbio l’esistenza di altri domini, solitamente invisibili e spirituali, come i regni astrali e il mondo degli antenati.

Le società preindustriali sembrano così concordare nel concetto che la morte non è la sconfitta definitiva e la fine di ogni cosa, ma un passaggio importante. Le esperienze associate alla morte sono state viste come visite a dimensioni essenziali della realtà che meritano di essere sperimentate, studiate e accuratamente rilevate. I morenti di un tempo conoscevano bene le cartografie delle loro culture, sia che fossero le mappe sciamaniche dei panorami funerei o le sofisticate descrizioni delle dottrine spirituali orientali, come quelle che si trovano nel Bardo Thödol, il Libro tibetano dei morti. Questo testo importante del Buddhismo tibetano merita un’attenzione speciale poiché rappresenta un contrappunto interessante all’enfasi, pragmatica ed esclusiva, che la civiltà occidentale pone sulla produttività della vita e sulla negazione della morte. Il Libro tibetano dei morti descrive il morire come un’opportunità unica per la liberazione spirituale dai cicli della morte e della rinascita: è il momento che determina la nostra successiva incarnazione, qualora non arrivassimo alla liberazione. In questo contesto è possibile vedere gli stadi intermedi tra le vite come più importanti dell’esistenza incarnata; di conseguenza, nel corso della propria vita, è essenziale prepararsi a questi passaggi mettendo in atto sistematicamente determinate pratiche.

Un altro aspetto caratteristico delle culture antiche e preindustriali, che colora l’esperienza della morte, è la sua accettazione come parte integrante della vita. Nel corso di tutta la loro esistenza, coloro che vivono in queste culture sono soliti passare del tempo vicino a persone che stanno morendo, maneggiano cadaveri, sono presenti alla cremazione e vivono con le spoglie dei loro parenti. Per un occidentale, la visita a un posto come la città sacra indù di Varanasi (Benares), dove quest’atteggiamento è espresso nella sua forma più estrema, può essere un’esperienza profondamente sconvolgente. Inoltre, nelle culture preindustriali, le persone muoiono all’interno di una famiglia allargata, di un clan o di una tribù. Durante questo critico momento di passaggio possono così ricevere un significativo sostegno emotivo da parte delle persone che conoscono intimamente. Nell’ora della morte si compiono potenti rituali per aiutare l’individuo ad affrontare l’ultimo passaggio, fornendo perfino una guida specifica per morire, come viene descritto nel Bardo Thodol.

Gli stati olotropici di consapevolezza nella morte e nel morire

La pratica di varie forme di addestramento alla morte ha profondamente influenzato l’atteggiamento nei confronti della morte e dell’esperienza del morire nelle società preindustriali. Il denominatore comune di tutte queste pratiche era che venivano coinvolti stati di coscienza non ordinari, o una loro importante sottocategoria, per i quali ho creato il termine “olotropico”. Questa parola composta significa letteralmente “orientato verso la completezza”, ovvero “muoversi verso la totalità” (dal greco holos, “tutto” e trepein, “muoversi verso o in direzione di qualcosa”). Questi stati, che possono essere indotti da sostanze psichedeliche e da un’intera gamma di tecniche senza il ricorso a droghe, o che avvengono spontaneamente, hanno un grande potenziale per la guarigione e la trasformazione dell’individuo e rappresentano una fonte importante di informazioni sulla coscienza, sulla psiche umana e sulla natura della realtà. Il significato che gli antichi e le culture aborigene attribuiscono agli stati olotropici si manifesta nella quantità di tempo e di energia da loro dedicata allo sviluppo di queste “tecnologie del sacro”.

Tra le esperienze che si vivono negli stati olotropici vi sono intense sequenze di morte e di rinascita psico-spirituale, unite a un sentimento di unità cosmica, che possono trasformare radicalmente l’atteggiamento nei confronti del morire e dello stesso processo della morte. Le società antiche e preindustriali fornivano ai propri membri molti contesti socialmente accettati per vivere tali esperienze, il più antico dei quali è lo sciamanesimo, un sistema spirituale e di arti guaritrici intimamente connesso con gli stati olotropici della coscienza, con la morte e il morire. La carriera di molti sciamani comincia con la “malattia sciamanica”, una crisi iniziatica spontanea che comprende un viaggio visionario negli inferi con esperienze di morte e di rinascita psicologica e l’ascesa nei regni superni. La conoscenza del regno della morte acquisita durante questa trasformazione permette allo sciamano di muoversi liberamente tra i due mondi, usando questi viaggi per scopi curativi e per acquisire nuove conoscenze. Lo sciamano, maschio o femmina, può anche mediare tali viaggi per altre persone.

Gli antropologi hanno descritto un altro contesto che rende possibile la pratica della morte: i “riti di passaggio”. Si tratta di elaborati rituali condotti da varie culture aborigene nel momento di importanti cambiamenti biologici o sociali, come la nascita, la circoncisione, la pubertà, il matrimonio, la menopausa e la morte. I riti utilizzano diverse tecniche in grado di alterare la mente. Un esame più attento degli stati di coscienza indotti e del simbolismo esteriore che li circonda rivela che i riti di passaggio si incentrano sulla triade nascita-sesso-morte e sull’esperienza della rinascita psicospirituale. Le persone che vivono in queste culture nel corso della loro vita hanno numerose opportunità per sperimentare e trascendere la morte. In questo modo al momento del loro decesso entrano per così dire in un territorio familiare.

Strettamente connessi con i riti di passaggio erano gli “antichi misteri della morte e della rinascita”, complesse procedure sacre e segrete che utilizzavano anche potenti tecniche in grado di alterare lo stato mentale. Esistevano in diverse parti del mondo, ma erano particolarmente diffuse nell’area mediterranea. Questi eventi iniziatici erano basati su storie mitologiche di divinità che simboleggiavano la morte e la rinascita: i babilonesi Inanna e Tammuz, gli egizi Iside e Osiride e i greci Dionisio, Attide, Adone e altri. I più famosi di tutti furono i misteri eleusini, che si basavano sulla storia del rapimento negli inferi di Persefone da parte di Ade e sul suo periodico ritorno nel mondo. I misteri furono celebrati ininterrottamente ogni 5 anni a Eleusi, una cittadina vicino ad Atene, per almeno 2000 anni. Si riteneva che l’esperienza di morte e rinascita vissuta nel corso di questi misteri avesse il potere di liberare gli iniziati dalla paura della morte, trasformando radicalmente la loro vita.

Di particolare interesse per i ricercatori orientati alla psicologia transpersonale sono le tradizioni mistiche e le grandi filosofie spirituali orientali. Comprendono i vari sistemi di Yoga, le diverse scuole di Buddhismo, dal Theravada e dal Vajrayana tibetano allo Zen, al Taoismo, al Sufismo, al misticismo cristiano, alla Kabbalah e molti altri. Questi sistemi hanno sviluppato efficaci forme di preghiera, meditazione, meditazione in movimento, esercizi di respiro e altre potenti tecniche in grado di indurre stati olotropici con profonde componenti spirituali. Come le esperienze degli sciamani, degli iniziati ai riti di passaggio e dei neofiti negli antichi misteri, queste pratiche offrivano la possibilità di confrontarsi con la propria mortalità e transitorietà, trascendendo la paura della morte e trasformando radicalmente il proprio essere nel mondo. La descrizione delle risorse di cui disponevano gli uomini per affrontare la morte nelle culture preindustriali non sarebbe completa se non si facesse cenno ai “libri dei morti”, quali il Bardo Thodol tibetano, l’egiziano Pert Em Hru, l’azteco Codex Borgia, i Ceramic Codex dei Maya e l’europea Ars moriendi. Questi testi offrivano descrizioni dettagliate delle esperienze in cui si incorre dopo la morte e durante il viaggio postumo dell’anima. Come vedremo nel Capitolo 6, gli stessi testi hanno anche un’altra funzione importante: possono essere usati durante la vita come manuali di pratiche spirituali e guide per l’autoesplorazione in cui sono compresi gli stati olotropici di coscienza.

Come abbiamo visto, un individuo che moriva in una cultura antica o indigena aveva ricevuto un intensivo addestramento alla morte con una varietà di rituali, che comprendevano stati olotropici di coscienza, ed era dotato di un sistema spirituale e filosofico di credenze che trascendevano la morte. La persona moriva alimentata dal contesto di una famiglia estesa e dai compagni e dalle compagne della tribù, e spesso aveva la possibilità di avvalersi di un orientamento rituale collaudato che lo accompagnava attraverso le fasi del morire. In alcune di queste culture, i fondamenti di queste linee guida erano forniti da cartografie trasmesse oralmente o da testi che descrivevano i territori delle esperienze che la persona morente doveva attraversare.

L’approccio alla morte e al morire nelle società industrializzate

La situazione di una qualsiasi persona morente nelle società industriali è radicalmente diversa. Generalmente l’individuo ha una visione del mondo pragmatica e atea o, perlomeno, ne è profondamente influenzato per esservi stato esposto. Secondo la scienza occidentale e la sua monistica filosofia materialista, la storia dell’universo è essenzialmente la storia dello sviluppo della materia. Vita, coscienza e intelligenza sono più o meno prodotti accidentali e insignificanti di questo sviluppo e compaiono sulla scena dopo miliardi di anni di evoluzione di materia passiva e inerte in una piccola e trascurabile parte di un immenso universo. In un mondo dove la realtà è definita soltanto come materiale, tangibile e misurabile non c’è spazio per la spiritualità, di qualsiasi tipo essa sia.

Il ruolo della religione

Benché le pratiche religiose siano generalmente permesse o perfino formalmente incoraggiate, dal punto di vista strettamente scientifico qualsiasi coinvolgimento nella sfera spirituale appare e viene interpretato come un’attività irrazionale che rivela immaturità emotiva e intellettiva: mancanza di cultura, rozza superstizione e una regressione al pensiero magico e infantile. Esperienze dirette di realtà spirituali sono viste come manifestazioni di gravi malattie mentali, distorsioni psicotiche della realtà causate da un processo patologico che affligge il cervello. La religione, privata della sua componente di esperienza vissuta, ha in gran parte perso il suo legame con le profonde sorgenti spirituali e, come risultato, è sempre più vuota e insignificante: nella nostra vita non è più una forza positiva e utile. In questa forma non può competere con la persuasività della scienza materialista sostenuta dai suoi trionfi tecnologici. In assenza di una spiritualità vitale basata sull’esperienza, le persone con un altro grado di cultura tendono a essere atee e coloro che sono intellettualmente meno scaltri facilmente soccombono a forme di fondamentalismo.

La visione della coscienza

Secondo le neuroscienze occidentali la coscienza è un epifenomeno della materia, un prodotto del processo fisiologico del cervello, e quindi dipendente in modo critico dal corpo. La morte del corpo, più specificamente del cervello, è vista come la fine assoluta di qualsiasi forma di attività cosciente. La credenza della vita dopo la morte, il viaggio postumo dell’anima, le dimore dell’aldilà e la reincarnazione sono state relegate nel regno delle favole e nei manuali di psichiatria, e sono viste come i prodotti dei desideri di persone ingenue, incapaci di accettare l’ovvio imperativo biologico della morte. Questo approccio ha trasformato in patologia molta della storia spirituale e rituale dell’umanità.

Pochissime persone, compresa la maggior parte degli scienziati, si rendono conto che non abbiamo alcuna prova che la coscienza sia effettivamente prodotta dal cervello. Inoltre, non abbiamo la minima idea di come questa possa prodursi. Nessuno scienziato ha mai tentato di affrontare in modo specifico come colmare l’abisso tra materia e coscienza. Nonostante ciò l’assunto metafisico di base che la coscienza non sia altro che un epifenomeno della materia rimane uno dei miti principali della scienza materialistica occidentale e ha una profonda influenza su tutta la società. Non esiste alcun indizio scientifico dell’assenza di una dimensione spirituale nello schema universale delle cose, mentre ci sono numerose prove dell’esistenza di dimensioni spirituali della realtà, anche se invisibili. Date le circostanze, l’attuale visione ufficiale del mondo industrializzato e le forme ufficiali del culto religioso non offrono grande sostegno alle persone che muoiono.

L’interesse scientifico nei confronti del morire e della morte

Fino agli anni Settanta, questo modo di considerare la morte ha anche significativamente ostacolato l’interesse scientifico sulle esperienze di pazienti in fin di vita e di persone in situazioni di quasi morte. In questo campo rare eccezioni sono stati alcuni libri rivolti al grande pubblico, come The Vestibule (Il vestibolo) di Jess E. Weisse e Glimpses of the Beyond (Sguardi sull’aldilà) di Jean-Baptiste Delacour, e alcuni trattati scientifici, come il meticoloso studio sulle osservazioni di medici e infermieri di Karlis Osis. Questi contributi sono stati relegati nel campo della parapsicologia e non accettati dal mondo accademico in quanto considerati irrilevanti dal punto di vista scientifico.

La situazione è cambiata dopo la pubblicazione, verso la fine degli anni Sessanta, del pionieristico libro La morte e il morire di Elizabeth Kübler-Ross e del bestseller internazionale La vita oltre la vita di Raymond Moody. Da allora, Ken Ring, Michael Sabom e altri pionieri della tanatologia hanno accumulato un’impressionante documentazione sulle caratteristiche straordinarie delle esperienze di quasi morte: da accurate percezioni extrasensoriali durante le esperienze fuori dal corpo fino ai profondi cambiamenti che avvengono nella personalità a seguito di questi. Le informazioni tratte dalle ricerche sono state pubblicizzate e diffuse dai media: libri di grande successo, film di Hollywood e altri mezzi di comunicazione. Come risultato di questa grande pubblicità ora sia gli addetti ai lavori sia il grande pubblico conoscono le caratteristiche essenziali delle esperienze di quasi morte. Eppure queste osservazioni dirompenti, che potrebbero rivoluzionare la comprensione che abbiamo delle caratteristiche della coscienza e del suo rapporto con il cervello, sono ancora oggi liquidate dalla maggior parte degli studiosi come allucinazioni irrilevanti causate da crisi fisiologiche del corpo e del cervello. Le esperienze di quasi morte non vengono generalmente registrate né vengono esaminate come importanti aspetti della storia medica del paziente: le strutture sanitarie non prevedono specifici servizi psicologici per aiutare i